dibattito anarchismo/1
Legalismo e illegalismo: qualche annotazione
di Giorgio Fontana
È uno dei tanti temi da sempre discussi
in campo anarchico: il rapporto tra pensiero anarchico, azione e leggi. Un nostro collaboratore propone qui alcune sue riflessioni. Il dibattito (manco a dirlo) resta, come sempre, aperto.
Come dovrebbe porsi l’azione anarchica nei confronti della
legge di uno Stato democratico? Una delle rivendicazioni più
elementari è proprio quella di superare lo schema legalitario,
visto che è (anche) frutto di oppressione di classe, e
comunque emanazione di uno Stato di cui ogni libertario farebbe
volentieri a meno. Questo però ha portato alcuni compagni
a difendere l’illegalismo in generale, come mezzo principe
di protesta e propaganda: più efficace e meno ipocrita
delle varie modalità d’azione che rientrano nei confini
della legge contemporanea. Ho alcune osservazioni da fare al riguardo.
Innanzitutto, l’elogio senza precisazioni dell’illegalità
mi sembra spesso un esercizio di audacia fine a se stessa, non
inserita in un coerente progetto di lotta. Quando si rivendicano
simili gesti celebrandoli sempre come disobbedienti e contrari,
si dimentica un punto chiave: quale illegalità
si vuole difendere, di preciso? L’illegalità in
quanto tale, mero ideale contrario alla norma costituita? Ma
allora perché non scegliere le regole della ‘ndrangheta?
Perché non quelle dei fascisti? Perché non andare
contromano in autostrada, dato che anche questo fatto è
sanzionato dal codice?
So già cosa mi si risponderà: il punto non è
affatto questo; il punto è invitare a costruire un sistema
di regole alternativo, e non temere di compiere gesti di disobbedienza
quando è necessario. Pensa a Cédric Herrou, il contadino
francese che è andato contro il codice per avere aiutato
gli immigrati a superare il confine italo-francese. Pensa a Rosa
Parks, che nel 1955 rimase seduta nel posto dei bianchi su un
bus di Montgomery, Alabama, violando la legge e dando una spinta
significativa al movimento dei diritti civili. E così via.
E io sono perfettamente d’accordo: ma è bene precisarlo.
Perché non sarà certo un libertario a tirarsi indietro
di fronte al bisogno di mostrare le contraddizioni della legge
vigente e del modo in cui viene esercitata. Tuttavia lo sguardo
etico del libertario, almeno per come l’ho sempre inteso
io, non può tollerare formule banalizzanti che rischiano
di condurre i compagni lungo strade sbagliate, ammirate perché
semplicemente “illegali”: in questa notte dove tutte
le vacche sono nere si perdono in fretta il senso della misura
e la coerenza tra mezzi e fini.
Su questo tema si era espresso con attenzione già Errico
Malatesta, in un articolo intitolato Gli anarchici e la
legge (“Pensiero e Volontà”, 16 settembre
1925). Scriveva Malatesta:
La legge esistente, in ogni dato momento, è il risultato
di un numero indefinito di fattori vari e spesso contraddittori.
Essa è certamente fatta soprattutto per difendere la
permanenza al potere ed i privilegi dei dominatori dell’ora,
ma deve pure, per farsi accettare dalla massa dei sudditi, consacrare
certe massime morali divenute retaggio comune dell’umanità
e rispettare certe libertà e certe garanzie conquistate
a forza di lotte, spesso cruenti, dalle generazioni passate.
Quindi, se respingiamo la legge, e quando possiamo ci ribelliamo
contro di essa, lo facciamo per raggiungere qualche cosa di
meglio e non già per lasciar mano libera al più
sfrenato dispotismo e ritornare alle epoche selvagge, in cui
la forza brutale dominava senza limite alcuno.
Sarebbe assurdo il pensare che noi, perché non riconosciamo
la legge, troviamo buono tutto quello che la legge proibisce.
La legge, per esempio, proibisce l’omicidio, lo stupro,
la frode.
Noi pensiamo che i mezzi che la legge adopera per impedire quei
reati sono selvaggi ed inefficaci, pensiamo che la stessa legge
crea per altro verso le circostanze che generano e favoriscono
i mali che poi vorrebbe distruggere a forza di sanzioni penali;
ma ciò non vuol dire che noi vorremmo che si sia liberi
di assassinare, stuprare, ingannare.
Quel fattore psicologico
Già. Esercitare un diritto riconosciuto dallo Stato non
significa elogiare le sue forme repressive, né pensare
che tale diritto sia “meno giusto” perché
anche quella fonte di potere lo garantisce. Inoltre, di questi
tempi è bene avere un minimo di lucidità e realismo
in più. Leggi sono anche i diritti dei lavoratori o lo
ius soli: purtroppo (purtroppo per un anarchico) sono questi
i mezzi con cui occorre fare i conti al momento. E se vogliamo
che la nostra pratica sia efficace, dobbiamo prenderne atto.
Di nuovo, ciò non implica abdicare al fine dell’anarchismo
o annacquare gli ideali e le pratiche del movimento in un blando
riformismo. Si tratta invece di riattualizzare la lezione gradualista
che già fu di Malatesta, ed evitare le sirene del “tanto
peggio, tanto meglio”.
Perché nella rivendicazione di atti illegali in quanto
tali può agire un fattore psicologico tutt’altro
che secondario: l’idea che l’illegalità rechi
di per sé il marchio dell’azione rivoluzionaria,
in quanto comunque opposta al potere statale. E non solo: anche
l’idea che chi adotti metodi legali sia un pigro, un finto
alleato degli umili e delle masse – in buona sostanza
un nemico. Sono concetti seducenti a prima vista per qualcuno,
ma vecchi ed errati da un secolo: soprattutto perché
sostituiscono la pigrizia e le formule precotte, spesso sgradevolmente
machiste, alla riflessione e al pensiero critico. Anche nel
migliore dei casi e nella più limpida delle intenzioni,
azioni del genere restano comunque miopi se prive di dettagli
e criteri.
Ora, è straniante ricorrere a un marxista come Lukács
per illustrare il punto: ma il suo scritto su Legalità
ed illegalità del 1920, poi ripubblicato in Storia
e coscienza di classe, contiene alcune osservazioni utili
al nostro tema. Questa su tutte:
Nella misura in cui i mezzi ed i metodi illegali di lotta
ricevono una particolare aureola, l’accento di una particolare
“autenticità” rivoluzionaria, alla legalità
dello Stato esistente viene attribuita ancora una certa validità
e non un essere meramente empirico.
Infatti, se ci si ribella alla legge in quanto legge, se si
dà la preferenza a certe azioni per via del loro carattere
illegale, ciò significa che per colui che agisce in questo
modo il diritto ha mantenuto il suo carattere di validità
vincolante. Mentre se vi è una piena spregiudicatezza
comunista nei confronti del diritto e dello Stato, la legge
e le sue prevedibili conseguenze non hanno né più
né meno importanza di qualsiasi altro fatto della vita
esteriore, di cui si deve tener conto nella valutazione della
eseguibilità di una determinata azione; ed il fatto di
trovarsi in condizione di trasgredire la legge non può
quindi ricevere un accento diverso, ad esempio, da quello di
perdere, in un viaggio di particolare importanza, una coincidenza
ferroviaria.
Quando le cose non stanno così e si preferisce il pathos
della violazione della legge, ciò indica che il diritto
ha conservato la sua validità – sia pure con segno
rovesciato –, che esso è in grado ancora di influire
internamente sulle azioni, che non si è compiuta ancora
la vera emancipazione, l’emancipazione interna.
Lukács ha ragione nel criticare questo appello al “pathos”.
Certo, è appena il caso di ricordare che la legalità
può ben includere norme ingiuste, e persino elevare a
ordine il crimine: basti pensare al nazismo. Ma, senza scomodare
Montesquieu, è pur vero che una società democratica
vi siano leggi che incarnano lo spirito di un momento fondativo:
basti pensare alla Costituzione.
Aggiungiamo che nessuna società umana può darsi
senza regole: la sfida dell’anarchico non è quella
di esercitare l’illegalismo a mo’ di avanguardia
della ribellione, ma di convincere chi ci sta accanto che norme
più sensate siano rispettate liberamente e secondo ragione,
abolendo il gendarme (come amava dire Malatesta) e i tremendi
costi sociali del sistema punitivo.
In sostanza, criticando radicalmente la legalità
per impostare una nuova concezione, non-violenta, del diritto.
Certo: sul piano pratico si tratta di una questione assai complessa
e di lungo corso. Richiede molta pazienza, molta buona volontà,
e una visione disincantata del reale, per non ricadere nel facile
ideologismo cui basta criticare o abbattere, invece di affrontare
a mente sgombra i problemi di una norma anarchica e delle sue
devianze. Alcuni spunti a riguardo sono contenuti nel bel volume
di Marco Cossutta, Errico Malatesta. Note per un diritto
anarchico, Trieste 2015: rimando anche alla recensione
di Giorgio Sacchetti uscita su “A” di ottobre
2017.
Una forma di romanticismo
Tutto ciò però non può renderci ciechi
cantori dell’illegalità in quanto tale. Essa, proprio
come la legalità, è frutto di contesti storici
e politici; esistono dunque come polarità indivisibili,
l’una determinata sulla base dell’altra. Infrangere
una legge comporta dei costi umani precisi, e ancor più
dei costi in termini di immagine davanti a un popolo che di
anarchico non ha molto, e potrebbe facilmente scambiare il ribelle
per delinquente. (Sempre che non si cerchino solo gli applausi
di alcuni compagni; ma qui ricadiamo nel discorso sul machismo
e il “gesto esemplare”). Non è dunque cosa
che vada fatta alla leggera, pensando che ogni norma si equivalga
moralmente all’altra e dunque siano tutte aggirabili allo
stesso modo.
Insomma: farsi scudo dietro la retorica dell’illegalismo
senza analizzarla oltre è una forma di romanticismo.
Le parole acquistano invece improvvisa concretezza quando si
ha da decidere, caso per caso, se un’azione illegale ha
senso perché opposta a una norma ingiusta, o ha come
finalità il semplice tornaconto personale. E qui abbiamo
mille esempi che vanno dal rapinatore al manager che stringe
affari con la criminalità organizzata al padrone che
per risparmiare nega protezioni agli operai di un reparto chimico.
Anche questa è illegalità, anche questi sono modi
per andare “contro lo Stato”. Ma chi mai si sognerebbe
di difenderli? E saremo sempre sicuri di poter distinguere fra
un’azione illegale di carattere morale e rivoluzionario
da una fatta per gretto egoismo o desiderio di spettacolarizzare
il conflitto?
Per evitare simili confusioni – soprattutto in un momento
delicato come questo, in cui il desiderio di punire è
tristemente ai massimi livelli – è bene rinunciare
agli automatismi e agli slogan e argomentare con maggiore calma
e chiarezza. Se di azioni illegali si tratta, che siano sempre
fatte con coscienza e fermezza, con lo spirito di una sana disobbedienza
civile, nitide nelle ragioni e nell’esempio, con mezzi
rigorosamente coerenti ai fini: l’opposto di quella retorica
che ogni tanto circola, e ricorda i tempi più bui dell’individualismo
amoralista.
Giorgio Fontana
Alla Statale di Milano/ Dieci minuti in carcere. Così, per provare
Senti
una voce stridula chiamare un numero. Te ne accorgi appena.
Il numero viene ripetuto ad un tono più alto. La
persona accanto ti fa segno di alzarti. Ti alzi. La voce
ripete il numero: 10147, seguito da un perentorio “avanti”.
Ti avvicini, devi depositare tutti i tuoi averi, vieni
perquisito e spogliato; d’ora in poi sarai quel
numero. Solo quel numero, perdi la tua identità.
Vieni condotto davanti ad una cella: VI Raggio Lato B
numero 124, e ci entri. Ci sono tre persone ma non sai
chi sono: condivideranno lo spazio con te. Uno è
sdraiato sul letto, gli altri due stanno giocando a carte
sul tavolo, tu non sai dove metterti, non c’è
posto per te. Quello sul letto ti sorride e ti dice: “Tranquillo
siamo fortunati siamo solo in quattro.”
Questo è quello che “Diritti verso il futuro”,
una nascente associazione studentesca dell’università
Statale di Milano, ha provato a far vivere ai visitatori
della loro installazione. Per una settimana nel mese di
settembre è stata esposta una cella (vagamente)
simile a quelle del carcere di San Vittore presso la sede
principale dell’università.
L’obiettivo è stato quello di provare a scuotere
le coscienze, facendo vivere per una decina di minuti
l’esperienza del carcere, una realtà troppo
assente dal dibattito pubblico. L’iniziativa ha
voluto essere la dimostrazione di una realtà tangibile
e attuale. Una volta entrati nella cella, le reazioni
dei visitatori sono state diverse: dalla perplessità
allo sbigottimento, dal diniego alla volontà di
modificare una situazione invivibile per chiunque.
È evidente che una cella di otto metri quadrati
scarsi per sei non è adatta a dare ai detenuti
la possibilità di cambiare e vedere un modo di
vivere diverso da quello da loro perseguito. Questo è
confermato dalla recidività. Per comprendere che
questa realtà non serve.
Luca Vanzetti |
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