Eritrea/
Fino alla prossima ribellione
Nei confronti dell'Eritrea dovremmo, noi nati sul suolo italiano,
nutrire uno smodato interesse, visto che così profondamente
si intrecciarono pochi anni or sono i destini e le vicende delle
due terre. Invece niente. Come tutti quelli che vivono lontano
dal Corno d'Africa, di quel paese che ha la sfortuna di tappare
l'accesso del gigante etiopico al Mar Rosso non sappiamo nulla.
Il libro di Michela Wrong (I didn't do it for you –
Come le nazioni del mondo hanno usato e abusato di un piccolo
stato africano, Colibrì, Milano 2017, pp. 398, €
18,00) ci soccorre con un lavoro denso di informazioni inedite
o di difficile reperibilità che accompagnano una ricostruzione
storica scorrevole e a tratti persino appassionante.
A partire dall'epopea di Ferdinando Martini, rigoroso anticolonialista
trasformatosi in apostolo del regno espansionista, governatore
che mise in pratica le tecniche di dominio sperimentate pochi
anni prima nel conquistato Regno delle Due Sicilie, ricalcando
quelle di più solide potenze imperiali e trovandosi di
fronte problemi inaspettati. Da uomo arguto, vista la velocità
mostrata dai ragazzi eritrei nell'apprendimento delle lingue,
Martini nei suoi diari annotava: «L'indigeno fanciullo,
troppo più agile e pronta ha l'intelligenza del fanciullo
bianco». Grave problema, in quanto: «la superiorità
dell'uomo bianco, che costituisce la base di ogni regime coloniale,
viene minata alle fondamenta».
Il separatismo, che così odioso ci è parso negli
Usa e in Sudafrica, venne già applicato dai governanti
italiani, che d'altronde erano convinti – bizzarria dei
tempi – che la razza nera fosse destinata a scomparire,
soppiantata da quella bianca. Assai peggio fu poi la rinnovata
e aggressiva politica imperiale di Mussolini che invase l'Etiopia
e produsse il risultato più ripugnante, ispirato alle
normative antisemite, le leggi razziali che accanendosi sui
figli delle innumerevoli unioni miste rappresentarono forse
il punto più basso e spregevole del fascismo. Dopo aver
sconfitto le armate italiane e assunto il controllo dell'intera
regione, gli inglesi lasceranno in vigore quelle leggi per ben
quattro anni, a dimostrare che la pasta dei dominatori era tutto
sommato la stessa. Con delle differenze, non marginali.
Il governo italiano si era imbarcato in un'impresa che era economicamente
fallimentare, rivolta piuttosto alla stabilità di un
sistema politico–militare, dove la vasta colonizzazione
da parte della popolazione italiana e lo sfruttamento delle
ricchezze del luogo rimasero sulla carta, mera propaganda, mentre
gli inglesi erano abilissimi nel vampirizzare le colonie. Inoltre,
come raccontato da uno storico eritreo: «Alla fine della
dominazione italiana in Eritrea c'erano migliaia di 'meticci'.
Non mi risulta invece che si sia mai registrato sia pure un
unico caso in cui un ufficiale britannico abbia generato un
figlio di sangue misto».
Ma il libro è ricco di altre sorprese, alcune davvero
succulente. La storia della femminista innamorata della causa
etiope Sylvia Pankhurst (e dietro di lei l'ombra discreta di
un colto anarchico italiano, Silvio Corio, perché in
ogni storia che si rispetti sappiamo che almeno un anarchico
italiano ci deve essere) e dei suoi deliri cospirazionisti sulla
rapacità dell'amministrazione inglese. Così immaginari
che le indagini portate avanti successivamente dal figlio mostrarono
che la Pankhurst aveva sbagliato, è vero, ma per difetto.
Coloro i quali sostengono a ogni piè sospinto che tutto
è evidente, niente può esser nascosto e non bisogna
perder tempo con dietrologie e cospirazioni troveranno qui altri
validi motivi per abbandonare tale ingenua (per essere gentili)
convinzione. Ad esempio, pochissimi negli anni tra il 1946 e
il 1972 sapevano quale fosse la vera ragione per cui gli Usa
fornirono al tiranno etiope Hailé Selassié oltre
180 milioni di dollari in aiuti militari. Guerra fredda, controllo
dell'area orientale del continente, tutto vero.
Ma c'era una ragione molto più concreta, con un nome
preciso – Kagnew – ignota al mondo fino a che divenne
tecnologicamente obsoleta. Questi sono solo degli accenni alla
ricchissima documentazione riportata dalla Wrong, che riesce
a mantenere un buon equilibrio nelle valutazioni tra le diverse
potenze che sostennero l'Etiopia nel lunghissimo conflitto con
gli indipendentisti (i russi, innanzitutto, e diversi altri)
e ad esercitare un saggio disincanto nella sua simpatia per
la causa eritrea. In chiusura, un'altra lezione, questa volta
per coloro i quali confondono la lotta per la libertà
con quella per la formazione di un nuovo stato. L'eroica resistenza
delle formazioni armate eritree, che alla fine riescono a sconfiggere
il mostro militare etiope e a guadagnarsi l'indipendenza, sembrava
avere tutte le carte per fare dell'Eritrea un modello da seguire
per l'Africa intera.
Ma come accade sempre, chi lotta per il potere non riesce più
a distinguere i mezzi dai fini, e quella gente d'immenso coraggio
e abnegazione si è oggi trasformata in un'inamovibile
casta di despoti guerrafondai. Inamovibile fino alla prossima
ribellione di un popolo poco incline alla rassegnazione.
Giuseppe Aiello
New York 1969-72/
Voci (forti) dall'etere
Il
giornalista, animatore culturale e creativo americano, Howard
Smith, curò, dal 1969 al 1972, un programma radiofonico
per l'emittente newyorchese WABC. Smith che era già abbastanza
conosciuto, per la sua collaborazione alla rivista The Village
Voice, molto letta dai giovani e dagli alternativi della
'grande mela', caratterizzò il suo programma, che andava
in onda in una fascia oraria notturna e che aveva per titolo
The Howard Smith Scenes, come un contenitore di interviste
(a personaggi della musica, dello spettacolo e della controcultura
che avessero cose nuove da dire e da proporre agli ascoltatori)
e di buona musica, perché, come affermò David
Amram, in una delle prime interviste di Smith, “c'è
un'intera generazione di persone che hanno fatto della musica
un'esperienza nuova e profonda, e davvero la sanno ascoltare,
sanno rispondere, e certe categorie oggi non servano più”.
Le interviste di Smith, realizzate a cavallo tra i '60 e i '70,
in anni che sconvolsero il mondo, sono state recuperate qualche
anno fa: trascritte e pubblicate in America nel 2015, sono da
poco uscite in Italia per i tipi dell'editrice torinese Edt
(The Smith Tapes, Torino 2017, pp. 432, € 26,00).
Nelle interviste che Smith realizzò e propose dai suoi
microfoni radiofonici, emerge tutta l'energia e la voglia di
cambiamento di una generazione 'di fuoco', di 'rivoluzionari'
che seppero creare e offrire idee, tendenze, gusti e comportamenti,
che, criticando l'esistente, il mondo capitalista, razzista
e sessista, del loro tempo, prefiguravano una nuova umanità,
libera da tutti i dogmi (del produttivismo e del consumo, dell'ideologia,
etc.) e ricca delle sue diversità. Così, per esempio,
le voci di Floyd Red Crow Westerman e di Michael Benson, denunciano
la condizione di ghettizzazione degli indiani d'America, emarginati
nelle loro riserve; al contempo, si fa sentire, con forza e
decisione, in diverse interviste, la voce dei neri contro le
prepotenze e le tendenze segregazionistiche dei bianchi: tra
i tanti, oltre a Kathleen Cleaver, esponente di spicco delle
pantere Nere, alle domande di Smith rispondono Amiri Baraka
(cantante beat di riconosciuta fama a New York, che ha deciso
di ritornarsene nella sua cittadina nel New Jersey, a Newark,
contribuendo all'elezione di uno dei primi sindaci neri degli
States, Ken Gibson) e Dick Gregory, comico americano che, scoperto
l'impegno politico, ha intrapreso importanti campagne contro
la discriminazione razziale, conquistando notorietà e
consenso politico, al punto da presentarsi, provocatoriamente
alle elezioni presidenziali del 1969.
Nella sua intervista, spiega così il montare sempre più
intenso e aggressivo della rabbia del povero 'cafone bianco',
il cittadino americano di condizione medio–bassa, afflitto
dalla sottoccupazione e dalla subalternità sociale, nei
confronti dei 'negri': “Lui è sempre stato il negro,
solo che non lo sapeva. Non aveva niente per cui combattere,
visto che alla peggio poteva guardare me e darmi del negro.
Ora però non può più. Quando guarda la
televisione, al telegiornale sente di quei tali, neri, che hanno
rubato due milioni di dollari del programma contro la povertà,
a Boston... Una cosa e l'altra e l'altra, alla fine conclude
che l'unico che non fa una vita da bianco, guarda un po', è
lui. Finisce per scoprire che l'unico negro rimasto è
lui... I bianchi potranno avercela avuta a morte con i neri,
comunque la mia mamma da loro l'hanno sempre fatta lavorare.
E poteva rubare una bistecca, portare a casa un paio di scarpe
decenti. Il nostro cafone bianco, invece, meglio che non si
faccia beccare in un raggio di dieci miglia dalla casa di qualche
bianco ricco. Insomma, eccolo lì, non ha mai avuto niente,
mai avuto un paio di scarpe come si deve, tanti di loro non
hanno mai visto un biglietto da cinque dollari. E arriverà
prima o poi il momento in cui comincerà ad innervosirsi,
perché vede che non ha nessuna di quelle cosette da negro
che gli spetterebbero – no? – chiunque lui sia”.
Per l'etere americano, dai microfoni dello studio di Smith,
prendono voce le rivendicazioni, le esperienze e le proposte
di chi si batte per i diritti civili e l'emancipazione e la
parità delle donne (da Jim Fouratt, del Gay Liberation
Front, alla nota attrice Jane Fonda), di chi s'adopera a 'sovvertire'
la letteratura (Allen Ginsberg), l'arte (Andy Wharol), la musica
(Lou Reed, Jim Morrison, Janis Joplin, Franz Zappa, etc.) e
di quanti, come Jerry Rubin, Abby Hoffman, John Lennon, raccontano
con concretezza e passione delle proprie opere e giorni, delle
proprie azioni e gesta per una rivoluzione non violenta che,
in nome dell'amore e della pace, ponga fine alle perenni guerre
dettate dalla ricerca dell'avido profitto di quella cerchia,
sempre più ristretta, di speculatori e industriali senza
scrupoli, che diventano sempre più ricchi e sempre più
padroni del mondo. Annunci e proclami di gente che cambia la
propria vita e che vuol contagiare del proprio entusiasmo e
delle proprie speranze, il mondo intero, avvengono e trovano
ampio spazio, nelle notti piene di musiche e dense di conversazioni
del programma di Smith, che intervista, incuriosito, il sodale
londinese di Mary Quant, David Sassoon, che “deve la sua
fama all'invenzione del taglio corto geometrico”; che
manda in onda, nel marzo del '70, in prima mondiale, l'acetato
del nuovo 45 giri dei Beatles, Let It be, portato in studio
da Pete Bennet, discografico e già addetto stampa della
casa discografica della band inglese, la Apple Records; che
ascolta, approvandola, l'enunciazione di James Taylor, sempre
del marzo del 1970, sui soldi: “mi pare che se uno guadagna
più di quel che gli serve per le cose più tangibili:
pagare l'affitto, comprare la casa, comprare della terra, avere
un'auto, che funziona, nutrirsi a sufficienza, riscaldare la
casa... quello che si guadagna oltre queste necessità
reali è tutto peso morto. Da lì in poi fare soldi
diventa un'astrazione, sono i soldi tanto per i soldi, ed è
una malattia”. E così via.
Le testimonianze (più di cinquanta), contenute in The
Smith Tape, come scrive Ezra Bookstein, nell'introduzione al
volume, “inquadrano un tempo che è stato insieme
puro e impenitente” e hanno, davvero, ancora valore, per
il presente e per il futuro.
Silvestro Livolsi
Opinioni/
E se il potere statale fosse “anarchico”?
“La
vera anarchia è quella del potere.” Questa è
la frase che Pasolini mette in bocca a uno dei gerarchi del
suo film su Salò. Il filosofo Giorgio Agamben da molti
anni ha preso sul serio l'affermazione del regista di cui fu
amico, indagando la possibilità di un'an–archia
svincolata dal potere sovrano. Nel suo ultimo libro Creazione
e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalista
(Neri Pozza, Milano 2017, pp. 144, € 12,50), il pensatore
colloca tale tentativo sullo sfondo della critica alla società
spettacolare in cui viviamo.
Secondo Agamben tanto il marxismo che l'anarchismo (che nell'Internazionale
si spaccarono sui mezzi della dissoluzione del potere statale)
hanno mancato di interrogarsi su una terribile realtà.
La realtà che è lo stesso potere statale a essere
“anarchico”, e in particolar modo lo è l'ordine
capitalistico. Per questo motivo ogni forma di vita autenticamente
an–archica dovrà innanzitutto divincolarsi dall'anarchia
del potere stesso.
Anarchico, come tutti sanno, vuol dire “senza comando”
o “senza governo”, ma anche “senza origine”
poiché in greco arché significa allo stesso
modo entrambi. Però, misurarsi con l'origine del comando
(e col comando dell'origine) non è una cosa da poco,
ma implica un pensiero che sia insieme politico e ontologico,
come sa chi ha letto il libro di Francesco Codello La condizione
umana nel pensiero libertario.
La via che segue Agamben è quella di un'archeologia alla
Foucault per mostrare l'origine dei dispositivi di governo.
Per questa via egli evidenzia come al loro centro vi sia sempre
una sorta di “vuoto di potere” (per dirla ancora
con Pasolini), di spazio anomico ed eccezionale che permette
il funzionamento delle leggi e delle norme. Sarebbe complicato
riassumere qui il contenuto dei nove libri di Homo sacer,
ma in breve è come se la legge avesse bisogno, per potersi
applicare, di un potere anomico che lo stato in qualche modo
ingloba come un Leviatano. Un potere violento e arbitrario che
si scatena, per esempio, durante lo stato di eccezione.
Che cos'è lo stato di eccezione? La normale vigenza delle
leggi, propria di ogni tipo di governo, può essere sospesa
dal potere sovrano di fronte a un pericolo presunto o reale.
In tale situazione la legge viene sospesa, ma resta in una vuota
vigenza in cui fatti e norme si sovrappongono. È la situazione
tristemente nota delle leggi speciali e dei colpi di stato militari.
Ma lo stato di eccezione è qualcosa di più: è
il meccanismo fondamentale con cui la legge si instaura, ed
è inseparabile da essa, anche nella forma democratica.
Tale meccanismo ha il suo modello nella volontà divina
di cui parla la teologia, la quale è assoluta e all'origine
di ogni comando: in una parola è anarchos.
E proprio come dio, che è il modello della volontà
assoluta che crea e governa il mondo, anche il capitalismo spettacolare
pretende di farsi religione e ricevere la gloria, al punto che
oggi sembra impossibile distogliere lo sguardo dalla merce,
sia essa un'opera, un politico, uno sportivo, o una star televisiva.
C'è una via d'uscita da un potere come questo? Agamben
segnala almeno due tentativi del passato: i francescani che
rifiutarono radicalmente la proprietà e i situazionisti
che provarono a riunificare la vita spezzettata dalla società
spettacolare.
Ma l'autentica destituzione an–archica del potere sovrano
non può che essere una forma–di–vita fuori
dalla legge e dal diritto.
Ermanno Castanò
Milano, anni '70 e '80/
Mitica l'occupazione di via Correggio 18
Il libro Le radici del glicine di Massimo Pirotta (Agenzia
X, Milano 2017, pp. 286, € 15,00) nasce per la richiesta
da parte di molte persone giovani di ridare voce ai primi anni
dell'occupazione di via Correggio 18 a Milano, tra il 1975 e
i primi anni '80 (l'esperienza si concluderà nel 1984),
perché non ancora raccontati e rischiavano l'oblio. Un'abitazione
e uno stabile “comunardo” in cui si sono susseguite
almeno tre generazioni di occupanti. Giovani e meno giovani,
militanti della sinistra rivoluzionaria, famiglie proletarie.
Poi, la breve ma alquanto significativa parentesi degli spazi
del Vidicon, particolarmente dedita ai nuovi fermenti socio-culturali
dell'epoca ed infine l'approdo, magnificamente raccontato in
“Costretti a sanguinare” di Marco Philopat (sempre
Agenzia X), degli anarco-punx. Anni in cui questo luogo diviene
una tappa obbligata per il circuito di “punkaminzioni”
autogestite. Musicali e non solo.
Nella
prefazione, lo storico Nicola Del Corno scrive: Si dice che
via Correggio 18 fu un'utopia, io direi piuttosto che fu un'eutopia:
utopia significa infatti “non luogo”, eutopia “buon
luogo”. La casa del glicine fu concretamente un “buon
luogo”: un luogo di libertà creativa e di esplorazione
che è giusto ricordare ancora con un libro come questo.
Mentre nella intro “Dall'eskimo al chiodo”, scritta
a quattro mani da Marco Philopat e da Massimo Pirotta si va
alla ricerca di nuovi input onirici e visionari in cui il “provate
a immaginare...” diventa la linea guida. Un concentrato
di libertari, famiglie di senza tetto, anarchici, hippie, comunisti,
femministe, cattolici del dissenso, operai riottosi, ragazzi
di strada ed ex partigiani. Che convivono, praticano l'arte
degli incontri, si confrontano giornalmente, fanno della tolleranza
la loro arma migliore.
E così la casa occupata, con ampi spazi e situata in
un ex area industriale dismessa (in precedenza c'era la Mellin,
una ditta che produceva alimenti per l'infanzia), diviene un
punto di equilibrio tra nomadismi (l'incessante va e vieni),
pratiche stanziali, punti di vista magari inizialmente divergenti
ma alla fine convergenti (un ruolo rilevante lo gioca l'assemblea
settimanali del giovedì).
Il libro scivola via leggero ed intrigante, grazie soprattutto
alle 26 testimonianze degli occupanti della prima ora. La vita
quotidiana dentro e fuori la casa, i diversi contesti che si
alternano e mutano velocemente. Sono storie singolari, al singolare
che diventato collettive, dall'impronta fortemente proletaria,
delle microstorie che assemblate insieme si fanno macrostoria.
All'interno, c'è anche un articolo recuperato dalla rivista
“Primo Maggio” del 1984, intitolato “Correggio's
Graffiti” scritto da Cosimo Scarinzi e Fabio Treu, che
offre una graffiante analisi politico-sociale degli anni dell'occupazione.
Nel libro nulla è censurato e, tramite una scrittura
orale, tutto è raccontato senza remore. A seguire, ci
sono la cronologia degli avvenimenti più importanti nella
Milano e nella provincia di quel periodo (le altre occupazioni,
le lotte nei luoghi di lavoro, le autoriduzioni ai concerti,
gli appuntamenti culturali, le manifestazioni di protesta per
il diritto alla casa, la lotta contro il nucleare, ecc.) che
è corredata da una selezione di dischi e film che hanno
la metropoli milanese come elemento comune. Quindi, un inserto
fotografico in bianco e nero di 38 pagine ed infine una bibliografia
atta a soddisfare altre curiosità per chi vuole immergersi
in quegli anni e saperne ancora di più.
A 40 anni di distanza, quei vissuti, tornano attuali. Il sapore
non è quello nostalgico ma quello animato in egual misura
da fisicità e spiritualità. A suo modo, una “favola
reale” in cui vengono ricordate persone scomparse ma il
cui ricordo è ancora vivo e messo “bene a fuoco”,
il transitare e convivere di centinaia di persone in periodi
più o meno lunghi della loro vita. Nessuna “nazionalità”
e diverse attività a cui hanno partecipato migliaia di
persone. Pagine che vogliono essere una testimonianza per chi
non c'era, non tanto con l'intento di farne una austera pretesa
storica ma piuttosto la scommessa di fare emergere l'anima di
quella vita in comune. Mettendo al centro le diverse sfumature
affinchè siano di nuovo stimolo per positivi e magari
inediti cambiamenti contro-culturali, socio-politici ed economici.
Vitalità, il vero senso, il nocciolo dell'intera vicenda.
Con tutti i colori dei glicini interni alla casa e che sono
stati una sorta di “manifesto programmatico” di
quella occupazione.
Marco Butti
Per non dimenticare Gino (Veronelli)/
Le sue battaglie
Ben venga ogni libro che ci ricorda l'importanza e la grandezza
di Luigi Veronelli, Gino per gli amici, amico e compagno caro.
La sovversione necessaria. Battaglie civili e impegno politico
in Luigi Veronelli (Altreconomia edizioni, Aa.vv., Milano 2015,
pp. 144, € 13,00) è un libro incentrato sul Veronelli
politico, quello degli ultimi anni della sua vita, quello delle
lotte condotte insieme ai “ragazzi estremi” dei
centri sociali, ai new globals, agli anarchici, ai disubbidienti,
cioè ai portatori di un grande valore: un'individualità
esigente. È un Veronelli lucido, mai domo e sempre pronto
a non retrocedere di fronte a quello che per lui è il
male implacabile: il sistema industriale.
Il periodo trattato è quello di t/terra e libertà/critical
wine, delle lotte per il prezzo sorgente, l'autocertificazione,
le De. Co., della lucida battaglia per l'olio... Un libro utile
per chi si avvicina al suo pensiero per la prima volta, ma anche
per chi ha amato il grande enologo, fermandosi solo a quell'aspetto.
Una
vita, la sua, di “semplice” coerenza, tesa a rivalutare
le eccellenze, le individualità, la vita vera, la natura,
il piacere contro questo mondo dominato dalle industrie, non
solo alimentari, che tutto appiattiscono, usando ogni mezzo,
occulto o meno, legale o meno, per persuaderci a consumare le
stesse cose in ogni angolo del mondo. Sono proposte semplici,
normali (questa è la loro forza) che in questa società
assumono una valenza rivoluzionaria. Perché non deve
essere normale sapere il percorso di un cibo? Con quale olive
si produce il tal olio? Quanto è importante l'originalità
di un prodotto attaccata continuamente da vari consorzi e presidi
che mescolano le carte certificando una asfittica qualità?
Quale?
Torna alla mente un altro grande del '900 che già negli
anni '50 ci ammoniva dicendoci “attenti perché
pensate di essere liberi, ma nella realtà vi condizionano
talmente che non fate altro che cercare ciò che trovate
già pronto, solo quello. Non è vero che siete
liberi di scegliere”. Lo diceva il situazionista Guy Debord
e Gino ha combattuto la stessa battaglia per tutta la vita in
campo alimentare, che poi non è altro che volere garantire
la salute, la gioia, la libertà di perseguire il piacere
e di rivendicare la dignità di ognuno di noi.
Leggere Veronelli fa sempre un grande effetto. Padrone della
lingua come pochi, acuto osservatore, lucido, semplice e soprattutto
diretto. Ogni suo scritto è un arricchimento utile, una
ginnastica mentale indispensabile che ci porta per mano verso
un mondo migliore, verso l'utopia intesa non come l'irraggiungibile,
ma come meta da raggiungere. Quando il “nemico”
è così grande e politicamente protetto, non esiste
altro, ci dice chiaramente Gino, che la sovversione, una sovversione
ferma e, ribadisce con fermezza, nonviolenta.
Con chi allearsi? Con chi crede nel valore dell'individuo e
chi vuole ancora guardare avanti. E Veronelli trova i giusti
alleati in quei “giovani estremi” che il mondo della
politica ufficiale tende a snobbare e a criminalizzare. Sono
loro i catalizzatori che possono accelerare quelle lotte che,
sole, possono salvare il piccolo produttore e la nostra individualità
rispetto alla grande omologazione. Per vincere, è per
questo che si lotta, bisogna conoscere e vigilare e lo si può
fare, ci dice in una “coraggiosa” lettera aperta,
se si è dentro, se ci si sporca le mani, perché
il potere va controllato da vicino. Perciò propone anche,
creando un grande trambusto nel mondo anarchico e antagonista,
di presentare una lista alle elezioni.
Nel libro il suo percorso politico è documentato ampiamente.
Ogni capitolo tratta un punto essenziale del suo pensiero e
delle sue lotte. Un limite, certo non definitivo, lo si può
trovare nello spezzettamento e in certe amputazioni, certamente
non dolose, nei suoi scritti, spesso ridotti ad estratti. Un
esempio si ha nella proposta del suo “testamento”
pubblico, scritto poco prima di morire, in cui, dopo il commovente
ricordo della prigionia e della sorte di Gaetano Bresci, non
compare la straordinaria invettiva contro la famiglia Bacardi.
Gino non perdeva mai l'occasione di scagliarsi contro l'industria.
Dopo questa invettiva eccolo tornare a un finale denso di emozione
e che merita di essere ricordato: “avete capito, giovani
lettori: questo è un testamento. Entro in clinica oggi
per una operazione da cui di solito non si esce. Per la prima
volta ho la gioia di essere stato il vostro maestro”.
Il vecchio leone sa di avere seminato bene.
Le interviste inserite nei vari capitoli perdono invece di attualità
e capita anche che ci siano stanche ripetizioni commemorative.
L'eredità di Veronelli non va commemorata, ma vissuta
e sostenuta attraverso le esperienze concrete di chi ha seguito
e partecipato alle sue lotte.
Rimangono sul tappeto alcune questioni di cui non si ha più
notizia. Vorremmo saper che fine ha fatto la rivista “Ex
vinis, vini, cibi, intelligenze”, depositaria della sua
vitalità, del suo pensiero in continua evoluzione, delle
sue lotte, delle sue eccellenze, del suo mondo. Che ne è
dei ragazzi dei centri sociali e delle lotte intraprese con
Gino? Chi continua le sue battaglie e quali? Cosa ci possono
dire i sindaci che hanno adottato le De(nominazioni) Co(munali)?
E poi come si muove il Seminario Veronelli? Insomma c'è
qualcosa di Veronelli che continua? Solo così si evita
il rischio di prossime sterili antologie e di continue commemorazioni.
Solo così Gino non finirà nel “Giardino
dei frutti dimenticati”.
Diego Rosa
Ana Canovas Navarro e Carlo Aldegheri/
Due vite ribelli, tra Europa e Brasile
In
Brasile il Núcleo de estudos libertários Carlo
Aldegheri e il Centro de Cultura Social hanno da poco pubblicato
Carlo & Anita Aldegheri. Vidas dedicadas ao Anarquismo,
che contiene brevi cenni biografici dei due militanti (lui italiano
e lei spagnola) seguiti da due interviste a Carlo realizzate
negli anni Novanta, l'ultima pochi anni prima della sua scomparsa,
e foto provenienti dall'album di famiglia.
Carlo nasce nel 1902 a Colognola ai Colli (Vr) e nel 1922 si
rifugia in Francia per evitare il servizio militare. Qui si
avvicina agli ambienti anarchici, nel 1924 rimane ferito a un
polmone da un proiettile sparato dalla polizia durante una manifestazione
di protesta davanti al consolato italiano di Parigi e finisce
qualche tempo in carcere. Nel 1934, per sfuggire al controllo
poliziesco, si trasferisce in Spagna dove conosce Ana Canovas
Navarro (nata nel 1906), che diventa sua compagna di vita e
di militanza.
Al termine della Guerra civile di Spagna, a cui Carlo partecipa
nella Milicia alpina (nell'estate de 1937 viene fatto prigioniero
dai falangisti ma riesce a evadere) e Anita lavorando in fabbrica
e come volontaria nelle operazioni di soccorso, i due riparano
in Francia dove sono costretti a separarsi. Solo quasi al termine
della guerra mondiale riusciranno a riunirsi in Italia, dove
Carlo era infine riuscito ad arrivare dopo cinque anni trascorsi
alternando libertà a detenzioni in almeno 10 campi di
prigionia (da Argèles-sur-Mer, a Renicci d'Anghiari fino
a Bolzano, dove riuscì a sopravvivere grazie al proprio
mestiere di calzolaio).
Dopo un primo dopoguerra di stenti, nel 1950 Carlo decide di
emigrare in Brasile, dove due anni dopo lo raggiungono Anita
e la loro figlia quattordicenne Primavera. In Brasile prendono
contatti con il locale movimento anarchico, a cui parteciperanno
fino alla fine delle loro vite. Anita nel 2005 è ancora
la prima a contribuire nella raccolta di fondi per una sede
del Centro de Cultura Social di São Paulo, morirà
all'età di 108 anni.
Nel 2010, nella città di Guarujá dove si erano
stabiliti gli Aldegheri, gli anarchici hanno dato vita al Núcleo
de estudos libertários Carlo Aldegheri (NELCA).
Per l'acquisto del libro, o maggiori informazioni, contattare:
Nucleo di Studi Libertari Carlo Aldegheri: nelca@riseup.net
Centro di Cultura Sociale di São Paulo: ccssp@ccssp.com.br
Furio Lippi
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