migranti
L'indifferenza, non la frontiera
reportage di Mirko Orlando
A ucciderli non è la frontiera, come molti dicono, ma la nostra indifferenza, l'indifferenza di chi finge di non vedere ciò che accade sotto i propri occhi. La denuncia di una volontaria, attiva a Ventimiglia, Italia. Dove ogni giorno il senso di umanità soggiace alla logica implacabile della fortezza Europa.
Non c'è civiltà
che non abbia dovuto fare i conti coi flussi migratori (e a
dirla tutta non c'è civiltà che non ne abbia tratto
vantaggio per arricchire la propria cultura), eppure a partire
da quelle che ricordiamo come le “Primavere arabe”
l'Europa continua a parlare di emergenza. Ebbene un'emergenza
evidentemente c'è, ma non riguarda i numeri, riguarda
piuttosto la gestione politica e strategica di questi numeri.
Non c'è nessuna invasione in atto, in Italia quanto in
Europa, ma c'è certamente una mala gestione dei flussi
migratori di cui l'Europa dovrà prima o poi assumersene
la responsabilità. Il punto è che il mondo cambia:
cambia il valore di mercato di alcune risorse, cambia il costo
della manodopera, cambiano le ragioni che spingono le persone
a spostarsi in cerca di lavoro, diritti, opportunità,
o semplicemente per restare in vita. Stiamo ridisegnando un
nuovo planisfero e sembriamo non accorgercene, oppure fingiamo
di non accorgercene per difendere la roccaforte Europa che tanto
è costata ai nostri padri.
Ebbene la nostra Europa è costata anche ai padri di quanti
oggi cercano di entrarvi, perché è attraverso
stragi e genocidi che abbiamo costruito le nostre democrazie,
le quali non sono state il prodotto delle nostre più
alte ambizioni, ma il risultato dei nostri più profondi
rimorsi. La “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”
l'abbiamo scritta al culmine della nostra disumanità.
Questo è quanto accaduto, ma lasciamo perdere la storia,
lasciamo da parte i rimorsi coloniali e le responsabilità
politiche dell'Occidente affinché non si stabilizzino
i governi dei paesi del terzo mondo.
La paura dello straniero
Lasciamoci alle spalle le riflessioni sociologiche e le critiche
all'Europa e parliamo di noi. Parliamo dell'Italia, dove un
tempo i leader politici tentavano di sedurre l'opinione pubblica
promettendo un milione di posti di lavoro, mentre oggi promettono
600.000 immigrati in meno. Parliamo di quanto la paura dello
straniero sia diventata la carta che tutti i politici, di destra
e di sinistra, stanno giocando per ottenere consenso. Parliamone,
ma lasciando da parte i clandestini, gli irregolari, quelli
che si sottraggono al nostro sistema di controllo. Parliamo
di quelli che hanno collaborato con le istituzioni facendosi
identificare, di quelli che hanno ottenuto un documento (asilo
politico, protezione sussidiaria, ma più comunemente
un permesso di soggiorno per motivi umanitari).
Parliamo di loro, alcuni dei quali, al termine dei progetti
di accoglienza, si ritrovano gettati per strada, senza una dimora,
e senza reali opportunità di lavoro. Succede proprio
sotto i nostri occhi, e sotto il cavalcavia sul fiume Roja a
Ventimiglia. I ragazzi dell'associazione Alharaz (vicini ai
migranti di Ventimiglia da circa due anni) mi fanno sapere che
sulle rive del fiume ci sono almeno 200 ragazzi, di origine
straniera, alcuni dei quali, al termine del periodo di accoglienza
(nella provincia di Imperia) si sono ritrovati senza nulla tra
le mani.
Questa condizione rende loro ancor più difficile rinnovare
i documenti, trovare lavoro, e ovviamente gli impedisce di raggiungere
altre destinazioni europee. Parliamo di loro perché la
retorica del clandestino non serve ad altro che a coprire l'inefficacia
di un sistema che non riesce a tutelare neppure chi ha requisiti
per ottenere lo status di rifugiato, per cui prima ancora che
su questioni morali è sulla corretta gestione e applicazione
delle norme che siamo deficitari. Ciò, chiaramente, non
ha nulla a che vedere con la “guerra tra poveri”
di cui tanto si parla, ma con la solita “guerra tra ricchi
e poveri”, dove qualcuno continua a speculare sulla pelle
degli indigenti, italiani o stranieri che siano. Infatti i fondi
per coprire i progetti di accoglienza ci sono e vengono erogati,
ma vengono gestiti male... talvolta colpevolmente.
Proprio dove mancano le opportunità finanziarie, iniziative
di libero soccorso promosse dai comitati di volontari o da piccolissime
associazioni no profit riescono dove falliscono le istituzioni.
Cose semplici: coperte, vestiti, legna per scaldarsi, pasti
caldi, informazioni. Cose semplici ma fondamentali per sopravvivere
in attesa che la lenta burocrazia italiana faccia il suo corso
e decida se un singolo individuo ha diritto o meno allo status
di rifugiato. Sulle sponde del fiume vivono alcuni bambini e
comunque molti minori non accompagnati, e nell'insieme quasi
tutti sono passati dalla Libia.
Quando ne parlano, ne parlano come di un inferno, e la Libia
post-Gheddafi lo è diventata davvero. “Lì
la vita di un uomo non vale niente”, mi dice T., “un
ragazzino di dodici anni può spararti per prenderti le
scarpe, un orologio, forse anche solo per le sigarette”.
“Quando scoppiavano gli scontri in strada ci rintanavamo
nelle case, due, tre giorni... si fermava tutto. Poi lentamente
qualcuno riapriva la bottega, mettevi la testa fuori e ricominciavi
daccapo, in attesa che tutto si ripetesse ancora”. Alcuni
di loro sono stati letteralmente trattati come schiavi e torturati.
J. ha 19 anni, ed è stato in un centro di accoglienza
per migranti in Libia. Mi dice che era un massacro, e che lui
aveva il compito di ripulire la stanza dopo che vi erano state
malmenate delle persone.
“Vita semplice: lavorare, mangiare...”
Stipati come bestie le giornate si ripetevano un sopruso dietro
l'altro, e questi sono i 19 anni di J., che ora mi dice non
riesce a smettere di fumare hashish e bere. “non cerchiamo
soldi” mi dice S., “non vogliamo diventare ricchi
o roba del genere. Vita semplice: lavorare, mangiare, magari
una serata con gli amici. Qui, in Francia, in Germania, è
uguale. Questa è la vita che c'è per noi, ciò
che cerchiamo disperatamente di ottenere... dove non importa.
Vita semplice”.
Prima di ripartire passo all'ospedale di Sanremo, dove è
stato ricoverato un ragazzo malato di tubercolosi. Sta male,
malissimo, e nell'ospedale non c'è nessuno che parli
l'arabo. Non un mediatore, non un addetto, non un infermiere.
Dall'ospedale chiamano direttamente Musa (il mio contatto dell'associazione
Alharaz) che volontariamente (gratuitamente) media tra i medici
e il malato perché si possa procedere con le cure. H.
soffre moltissimo, e soffre lontano da casa, dalla sua famiglia,
da tutti, e persino dalla possibilità di dire il suo
dolore.
Sara (volontaria di Alharaz) ha ragione: “A ucciderli
non è la frontiera, come molti dicono, ma la nostra indifferenza.
L'indifferenza di chi finge di non vedere ciò che accade
sotto i propri occhi, l'indifferenza di chi vede ma non ha il
tempo di fare perché troppo impegnato a pontificare sulla
pelle degli altri, l'indifferenza di chi strumentalizza la disperazione
a proprio vantaggio lasciando volontariamente i ragazzi schiavi
dei propri aiuti. Forse la verità è che i migranti
e gli immigrati li stiamo lentamente uccidendo”.
Mirko Orlando
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