La morale del rischio
1.
Nello stesso giorno in cui gli è stata regalata la temibile
“PlayStation” – una sorta di obbligazione
sociale e l'accettazione implicita di un regime –, a mio
nipotino Leonardo è stato regalato anche “Monopoli”.
Il fatto di averlo trovato, il mattino dopo, intento a giocarci
mi ha concesso fin un respiro di sollievo: nel gioco simbolo
del capitalismo – dove la logica, chiarissima, è
quella della concorrenza spietata fino al prevalere sugli avversari;
che l'uno si mangi con l'altro –, riscontro almeno quella
necessità di conoscenza – e condivisione –
di regole cui, nell'approccio ai giochini elettronici, si può
anche non far caso. Nel decidere fra speculazioni in alternativa
e nel maneggiare denaro ci vedo perlomeno l'esercizio di un
briciolo di intelligenza. Perfino nel dipendere entro certi
limiti da un lancio di dadi ci vedo l'eventualità di
qualche avvedutezza nonché una moralità maggiore
rispetto all'annichilimento virtuale di grumi elettronici o
loro palliativi. Può darsi che io ne sappia troppo poco,
ma a me sembra che le strutture narrative tipiche dei giochi
da playstation comprendano essenzialmente metafore di morte,
sia che trovino applicazione verso simulacri di fantasia che
verso rappresentazioni più o meno naturalistiche –
agguati, inseguimenti dietro un mirino, deflagrazioni organiche,
polverizzazioni, sterminii, ottenuti tramite gesti irriflessi
ad un ritmo di frenesia che non ammette pensiero, tantomeno
se critico o venato di qualche moralità.
2.
Nei confronti del rischio il giudizio morale dei benpensanti
è ambiguo. Un esempio perfetto ce lo mostra Thomas Mann
ne I Buddenbrook. Ad un dato momento della sua epopea
le cose cominciano ad andar male e la grande famiglia borghese
sta perdendo pezzo dopo pezzo. Suggerita da una sorella più
facile al pragmatismo, al fratello maggiore che si fa scrupolo,
viene offerta l'opportunità di risollevarsi approfittando
di un dissesto altrui, ma lui reagisce in malo modo: “Non
capisci che mi stai consigliando un'azione estremamente indegna,
un maneggio poco pulito? Vuoi ch'io peschi nel torbido? Che
sfrutti brutalmente il mio prossimo? Che scanni un inerme approfittando
dell'imbarazzo in cui si trova? Che lo costringa a cedermi a
metà prezzo il prodotto di un'annata per incassare un
profitto da usuraio?”.
Poco tempo dopo, tuttavia, questo “galantuomo” –
questo rappresentante della borghesia “illuminata”
–, torna sui suoi passi e riconsidera con altri argomenti
“l'occasione di raddoppiare il capitale”: ecco,
allora, il “cenno del destino”, l'“invito
a risollevarsi”, il “buon colpo” – “un
primo colpo” fortunato, accettabile perché “il
rischio che vi era collegato forniva una nuova confutazione
di tutti gli scrupoli morali”. Il rischio, il rischio
della scommessa, compensa, allora, l'immoralità della
speculazione.
3.
Un secolo e mezzo dopo, “Gratta e Vinci”, estrazioni
di numeri al Lotto tutti i giorni e più volte al giorno,
slot machines, virtualità varie e altri marchingegni
veloci e non necessitanti né di pensiero né di
abilità alcuna da parte dell'utente – marchingegni
promossi alla luce del sole da tutti i governi che si sono succeduti
nel nostro disgraziato Paese – rispondono ad un'esigenza
ben più ampia di quella che, in qualche misura, può
essere ricondotta alla consapevolezza individuale. Ho l'impressione,
infatti, che costituiscano il sintomo di una tendenza più
generale che, già ben presente nella società italiana,
spinge a più non posso il pedale del consumismo americanizzante.
Come se, nella testa di noi tutti, avesse preso il sopravvento
l'atteggiamento probabilistico-casualistico a tutto danno dell'atteggiamento
deterministico. Questi lunghissimi anni di crisi economica –
molto più lunghi di quanto ci racconta la maggior parte
di coloro che ambiscono a rappresentarci politicamente –
ci hanno quasi costretti ad una frettolosa ricerca del “colpo
fortunato” (al “Lucky strike” che, non a caso,
è il nome di una sigaretta americana) – a scommesse
senza calcolo il cui senso sfugge nell'attimo.
Questo,
allora, a mio avviso, è il risultato di un processo di
lungo periodo. Ha a che fare con la crisi della coscienza sociale
oltre che con la crisi economica, con la rassegnazione al malgoverno
ed alla corruzione che hanno portato all'abbandono di ogni partecipazione
politica perché è sempre più diffusa la
convinzione di non contare alcunché – che, in un
modo o nell'altro, con le buone o con le cattive, chi comanda
deve continuare a comandare e chi ubbidisce a ubbidire. E tutto
ciò, infine, ha a che fare con il credito perenne in
cui ci sentiamo con il sistema democratico. Se la diagnosi è
corretta, ahimé, stiamo per consegnarci – mani
e piedi, figli e nipoti – al “medioevo prossimo
venturo” (per citare il profetico titolo di un libro di
Roberto Vacca, pubblicato nel 1971).
4.
Che la tendenza suddetta fosse già presente in alcuni
ambiti della società italiana è facilmente desumibile
da un noto episodio del nostro cosiddetto “risorgimento”.
Come racconta Denis Mack Smith, Garibaldi entra a Napoli il
7 settembre del 1860 e, come prima cosa, deve cercare di superare
la diffidenza dei napoletani cui, dell'“Unità d'Italia”,
importava pochino. Per sua fortuna, come arriva, si liquefa
subito il sangue di san Gennaro; la seconda sera si fa vedere
al teatro San Carlo e grida “Viva Vittorio Emanuele”
dal palco; cerca di non inimicarsi i preti e via così
paciosamente e ottimisticamente. “La breve dittatura di
Garibaldi”, dice Mack Smith, “fu una completa novità
per Napoli: una parentesi coloratissima e quasi di sogno della
sua storia”. Propose riforme sociali, volle liberalizzare
l'educazione, pensò di aumentare i posti di lavoro dando
il via a costruzioni ferroviarie e – fedele all'idea di
realizzare equità sociale –, contrariamente a quanto
hanno fatto i suoi successori, per conferire un'impronta di
grande moralità al suo governo, pensò di abolire
il gioco d'azzardo – lotto compreso, ovviamente. Gli fecero
subito capire che la cosa non andava fatta; che il sogno del
“colpo fortunato” e il lungo sonno sociale all'interno
del quale cresceva questo sogno non andavano disturbati. Per
farla breve: due mesi dopo, il 9 novembre, Garibaldi se ne torna
a Caprera.
5.
Mentre mi compiaccio del fatto che Leonardo impari qualche regola
– se passi in Vicolo Corto paghi di meno che se passi
in Parco delle Vittorie, gli alberghi possono essere costruiti
soltanto dopo le case, se vai in prigione rimani fermo un giro,
e via normando –, mi capita di dare un'occhiata al coperchio
della scatola. Sulle prime non credo a quel che leggo, poi,
rileggendolo tale e quale, devo accettare le cose come stanno:
“Monopoli”, non si chiama più così,
ma si chiama “Monopoly” con la i greca finale. Avessero
almeno spostato l'accento – avrebbero messo sulla strada
giusta per capire anche un bambino –, no. L'hanno normalizzato,
l'hanno reso più adeguato a quel linguaggio degli attuali
padroni del mondo di cui fanno parte anche le playstation.
Felice Accame
Nota
I brani da I Buddenbrook, nella traduzione
di Anita Rho (Einaudi, Torino 1992, pag. 418 e pag. 434. Per
il periodo “napoletano” di Garibaldi, cfr. D. Mack
Smith, Garibaldi (Lerici, Milano 1959, pagg.
95-102).
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