Storie in penombra: Santin, Felici, Cormio
“Campo 97” il nuovo fumetto di Fabio Santin
Il lavoro di Fabio Santin è una grande risorsa per la
cultura del movimento anarchico italiano degli ultimi decenni.
Placido, paziente, infaticabile, questo grafico, pittore, designer,
scrittore, è assieme una memoria storica e un fomentatore
di mille nuovi spunti, proposte, ricerche. Il suo gusto squisito
è (insieme a quello del suo e nostro compagno Rino de
Michele) il pilastro di quell'esperienza editoriale storica
che è ApArte, rivista libertaria di arte, la cui bellezza
e imprevedibilità l'ha fatta andare molto oltre i confini
del nostro battagliero mondo: ApArte è apprezzata da
tutti gli amanti delle riviste d'arte come un ultimo scampolo
di avanguardia artistica, nel nostro Paese tutto dedito alla
retroguardia.
Fabio
Santin ha però il grande “difetto” degli
artigiani, quello di trovarsi più a suo agio nella penombra
che sotto i riflettori, di divertirsi molto di più a
lavorare al servizio di un progetto collettivo, di essere in
una parola troppo attento e troppo schivo. Per questo lo si
trova in secondo piano dietro moltissime produzioni ed eventi,
che esulano anche la pur larga cerchia delle arti grafiche e
dell'arte applicata, come la musica (ha persino collaborato
col Club Tenco) e il teatro, vista l'antica comunanza d'idee
e di vita con l'attrice e regista Paola Brolati.
Ma c'è almeno una delle sue attività nella quale
Fabio non disdegna di guadagnare il primo piano: il fumetto.
Un'idea di fumetto militante, tutto dedito alla restituzione
delle storie occulte del movimento operaio, le storie degli
anarchici.
Di questi tempi potete trovate in libreria decine di Graphic
Novel di tematica storica, o inchieste del cosiddetto “Graphic
Journalism” sugli argomenti “difficili”. Possiamo
considerare Fabio Santin un vero pioniere di questo genere di
narrazione visiva, dal momento che pubblicò “La
rivoluzione volontaria”, una sorta di monumentale biografia
di Errico Malatesta, nel lontano 1980. Dopo una lunga pausa
(riempita di mille cose) Fabio nel 2006 pubblicò un fumetto
su Gaetano Bresci. Finalmente ci arriva fra le mani anche questo
“Campo 97”.
Oggi il fumetto è molte cose, dunque possiamo chiamare
anche quello di Fabio un fumetto, anche se io preferirei di
gran lunga chiamarlo “Storia per immagini”. Una
ricchissima staticità, plastica nelle forme e malinconica
nelle atmosfere, è lo stile peculiare di Santin, che
in questo libro ha raggiunto forse il suo apice espressivo,
perfettamente affrancato eppure pregno della grande tradizione
dei maestri italiani Pratt e Battaglia.
Forse in quest'opera l'uso del tratteggio ci rimanda soprattutto
a Sergio Toppi, ma l'elaborata decoratività del grande
maestro qui è sobriamente ricondotta alle perentorietà
delle incisioni e al panneggio severo di certi bassorilievi:
lo stile trova sempre la sua maturità andando direttamente
alle fonti. Come nei fumetti di Toppi la scansione in vignette
è sovente disarticolata in paginoni, e la figura intera
domina sul primo piano o sul particolare. Ma questa scelta stilistica,
che prevede una grande maestria di esecuzione, si sposa perfettamente
col progetto editoriale che vuole mescolare linguaggi eterogenei,
mettendo affianco narrazione e documenti.
La traccia narrativa principale è il diario inedito (e
realmente esistente) del sovversivo anarchico veneziano Corrado
Perissino e, appunto come in un buon Journal, vi confluiscono
molti materiali: pagine scritte, disegni di disegni (ovvero
riletture di disegni originali di pittori slavi internati nei
campi), pagine di giornali, ipotetiche o reali fotografie di
gruppo dei deportati.
La narrazione è spezzettata ma avanza con un intenzione
corale, e Paola Brolati ha cucito una sceneggiatura che riesce
a stare in bilico fra la fiction e il documentario. Una puntuale
introduzione di Giorgio Sacchetti e un'appassionata postfazione
di Andrea Merendelli rendono ancor più prezioso questo
libro.
La storia descritta più che narrata è quella del
Campo 97 di Renicci d'Anghiari, che negli anni fra guerra di
Spagna e fine del Secondo conflitto mondiale, fu un campo di
concentramento che riunì prigionieri politici e deportati
slavi. Fra i politici gli anarchici furono in tanti (incontriamo
in queste pagine noti militanti storici quali Failla, il pittore
Giandante X, Tommasini, ecc.) e vennero liberati per ultimi,
assieme agli slavi. Centinaia di persone vi trovarono la morte
per le tragiche condizioni igieniche e alimentari, le violenze,
le vessazioni.
Questi ultimi giorni del tempo che viviamo sono stati funestati
dall'emersione di un razzismo condiviso nel popolo italiano,
pronto a emergere - sempre meno contrastato anche solo formalmente
- col suo volto più assassino: il fascismo. Sono giorni
lividi, preoccupanti. Gli anarchici più di altri sanno
che ogni volta che un'enclave dell'umanità è in
pericolo, loro anche lo sono, per questo sono sempre fra i primi
a schierarsi senza tentennamenti con le vittime. Con ogni mezzo
e, grazie a Fabio Santin, anche col fumetto.
Un cantante e molti figli dell'emigrazione
“A
proposito di Brassens e degli altri figli d'italiani”.
Diremo subito che queste righe trattano di un libro tanto pregevole
quanto pubblicato in francese e non reperibile in italiano.
Lo ha amorevolmente curato Isabelle Felici, studiosa che insegna
nell'Università di Montpellier, e che si occupa di storia
e cultura dell'anarchismo e dell'emigrazione italiana in Francia.
Questi due filoni hanno com'è noto parecchi punti di
incontro.
Il libro di cui vogliamo parlare - presentato anche al pubblico
italiano nell'ultima Vetrina dell'Editoria Libertaria di Firenze
- prende spunto da un assunto forse non troppo noto, Brassens
il più francese dei cantautori francofoni - se consideriamo
che della triade “sacra” Brel era belga e Ferré
monegasco - era in realtà di madre italiana.
“Napolitane” diceva lui tagliando corto, per la
verità dei recenti studi hanno ricostruito la zona di
provenienza del suo ramo materno, Marsico Nuovo in provincia
di Potenza. “Napoletani” erano semplicemente tutti
i migranti dal Sud Italia e Brassens non sembrava avere in fondo
molto a cuore risalire la corrente delle origini, chissà,
forse ancora troppo fresca la ferita, le umiliazioni. Perché
no, forse urlava nel suo sangue materno una paura ereditaria:
a pochi chilometri dalla sua città natale di Séte,
precisamente ad Aigues Mortes, nel 1893 i lavoratori italiani
erano stati vittima di un selvaggio Pogrom.
La curatrice Isabelle, che in questo libro firma proprio il
saggio sull'italianità di Brassens, si spinge alla ricerca
delle radici italiane della musica di Georges, ma alla fine
deve convenire che, se è assodato che i cannelloni della
mamma abbiano senz'altro connotato i suoi gusti, decrittare
le materie prime della sua arte è più complesso
e senza soluzioni definitive. Forse l'italianità di Brassens
sta tutta nel suo feroce rifiuto, ai limiti della contumelia,
del patriottismo sciovinista.
Oltre questo primo scritto, ci si apre sotto gli occhi un florilegio
di testimonianze dell'emigrazione italiana in Francia, che ci
stupisce innanzi tutto per risultarci in grandissima parte proveniente
dalle regioni del Nord Italia (Lombardia, Friuli, Veneto, Toscana
e soprattutto Piemonte), e in secondo luogo per un'incandescenza
emotiva che ci fa commuovere.
Sono storie intense di un'umanità in viaggio, sono storie
belle di malinconia senza rancore, sono storie di legami spezzati
e mantenuti. Sono spesso i figli o i nipoti ad aver interrogato,
ad aver frugato nelle memorie, ora esibite ora reticenti, di
un'italianità, grano di spezia nella gran cucina della
società francese. Qualche fotografia punteggia le testimonianze,
e noi cerchiamo in quegli occhi la risposta a ciò che
sappiamo benissimo. Fummo migranti, chissà lo saremo
ancora, proviamo ad abbracciare ogni uomo che intraprende un
viaggio lungo, perché questo vorrà dire avere
la tavola apparecchiato per il ritorno di noi stessi.
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Claudio Cormio foto di Silvia Zuffi |
Il mio amico Claudio Cormio, cantore e montatore
Qualcuno lo sa, sono parecchi mesi che mi dedico con una certa dedizione e una certa fatica a un libro ancora in fieri – non c'è quel minimo di anticipo che permetta di concentrarcisi, e dunque è un lavoro che va fatto strappando ore ad altri impegni remunerati - una biografia di Ivan Della Mea, il mio maestro d'arte di vita e di canzoni. Mi sono preposto di approntarla per il 2019, decimo anniversario della sua scomparsa.
Non è però di lui che vi sto parlando – ce ne sarà tempo e modo nei prossimi mesi. Oggi mi piaceva l'idea di dedicare qualche rigo in forma di ritratto a uno dei più rigorosi amici, collaboratori ed esecutori di Ivan. Si tratta di Claudio Cormio, una personalità straordinaria, ma tutto sommato timida: pur avendo passato buona parte della vita sui palchi a cantare e suonare, non ha mai sgomitato, non ha mai preteso caratteri cubitali o anche solo il nome in cartellone. In compenso lo si trova sempre pronto al servizio delle belle idee, dove c'è solidarietà da portare, e dove lo stare assieme prevede suoni e canti. Claudio sa bene che essere antifascisti, antirazzisti, compagni, non è sgranare, perla dopo perla, il rosario del lutto, bensì fare festa anche con chi non c'è più. A questa festa Claudio è sempre pronto a partecipare, non necessariamente per salir sul palco, ma nemmeno si sottrae se gli viene richiesto. Questo è un bell'insegnamento per la nostra urgenza espressiva, che talvolta sconfina nella mania di protagonismo.
Claudio si avvicinò nella prima metà degli anni Settanta, poco più che adolescente, all'Istituto Ernesto de Martino e ci racconta « mi misi a disposizione per trascrivere i nastri delle registrazioni sul campo... ma capirono presto che quella era una scusa, ciò che volevo davvero fare era suonare e cantare ». Claudio canta con una bella voce profonda, e suona bene la chitarra, divenne presto uno degli accompagnatori fissi di Ivan Della Mea, per bilanciare e stabilizzare il fervore sonoro e il fantasismo rumorista di Paolo Ciarchi. Con loro partecipò a spettacoli e dischi quali “Su da Dio, Giù da bestia”, “Ho male all'orologio”.
Claudio è una memoria storica in carne e ossa, tiene a mente centinaia di canzoni, e in un ambito nel quale il virtuosismo è quasi più un vizio che una virtù, ha trovato la sua cifra espressiva in una grande intensità emotiva: vederlo suonare è necessario per cogliere il suo impegno fisico, la passione che vale più del preziosismo, la convinzione che accompagna il suono di certe parole.
Quando negli anni Ottanta vivere di musica è diventato difficile, Cormio si è impadronito della tecnica del montaggio cinematografico, divenendo uno dei più stimati professionisti del settore, attivo con film d'autore (Davide Ferrario) e produzioni mainstream (Aldo Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese). « Anche come montatore rimango un musicista: innanzi tutto c'è il ritmo, in un film come in una ballata ».
Negli ultimi tempi la recrudescenza di un antico problema deambulatorio – sempre affrontato con dignità e con una noncuranza che rasenta l'audacia - ne hanno un po' limitato gli spostamenti, ma quando gli metti la chitarra in mano, la passione resta quella di sempre e il repertorio spazia in tutto lo scibile popolare, sociale, cabarettistico. Un giorno, mentre eseguivo la mia ballata in omaggio a Ivan, nella quale si cita anche Paolo Ciarchi, mi disse « però il mio nome non l'hai fatto! » non era una rivendicazione, ma una notazione quasi divertita. Caspita, pensai, è vero... non tutto ciò che portiamo in cuore, ne esce al momento giusto.
Alessio Lega
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