Errico Malatesta
Azione e rivolta morale
di Franco Bertolucci
Gli ultimi dieci anni (1922-1932)
del rivoluzionario campano, segnati dalla vittoria del fascismo
e della sua trasformazione in regime dittatoriale. Il ruolo
della rivista “Pensiero e Volontà” (1924-1926)
con le collaborazioni di Luigi Fabbri, Carlo Molaschi e...
Malatesta,
alla fine del 1923, invia una circolare annunciando un nuovo
progetto di rivista con lo scopo di «indirizzare il pensiero
e la volontà dei nostri lettori verso» non le «idee
astratte» o le «aspirazioni teoriche» ma «soluzioni
pratiche e contingenti dei problemi che prevedibilmente si presenteranno
nelle varie fasi delle rivoluzioni che stanno per venire».
La circolare, partendo dalla considerazione sullo stato della
crisi del paese e dell'Europa intera e sulle condizioni delle
classi subalterne, giudicando la borghesia «incapace di
ristabilire un qualsiasi ordine», prefigura un «cataclisma
generale», «forse nuove guerre internazionali»
e la necessità per gli «oppressi» e gli «sfruttati»
di salvare se stessi e con essi tutta «l'umanità».
La rivista, pur essendo aperta a collaboratori e amici, è
di fatto la voce di un «gruppo di compagni», un
ultimo manipolo «perfettamente d'accordo sugli scopi e
sui mezzi» con un indirizzo unico ben determinato.
Il 1° gennaio 1924, nonostante l'Italia iniziasse a sentire
gli effetti della stretta repressiva e del controllo capillare
degli organi d'informazione, esce il primo numero di «Pensiero
e Volontà», ultima fatica editoriale di Malatesta.
La rivista, quindicinale, ripropone nel formato e nell'impaginazione
il modello del «Pensiero» – al cui titolo
in parte si richiama –, la rivista diretta da Fabbri e
Gori uscita nell'età giolittiana. D'altronde è
lo stesso Fabbri, principale collaboratore di Malatesta, a sopportare
con il “maestro” il peso redazionale della rivista.
“Un raccapricciante fenomeno di regresso
morale e politico”
Intorno alla redazione della rivista si stringono i principali
collaboratori di Malatesta: un piccolo gruppo di “menti
eccelse” – oltre a Luigi Fabbri, il giovane Camillo
Berneri, Carlo Molaschi, Luigi Bertoni, l'inseparabile Giuseppe
Turci, che si occupa dell'amministrazione e dall'agosto del
1924 assumerà la gerenza del periodico – e qualche
vecchio amico come Francesco S. Merlino.
Nell'editoriale del primo numero la redazione spiega con chiarezza,
e con un atto di fede, i suoi propositi e ribadisce («Pensiero
e Volontà», 1° gennaio 1924):
Anarchici, noi restiamo anarchici malgrado tutto e tutti.
Noi siamo stati vinti in quel periodo di lotta che si è
chiuso colla “presa di Roma” dell'ottobre 1922.
Ma non sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che
ci farà rinunciare alla lotta, né alla speranza
e certezza di vincere. Non vi rinunzieremo nemmeno per cento,
mille sconfitte, poiché sappiamo che nei progressi
umani è stato sempre a forza di perdere che s'è
finito col vincere.
Nel contempo, si critica la fiducia di molti anarchici nella
«spontaneità delle masse» e nel fatalismo:
due atteggiamenti superficiali che insieme a «questioni
tecniche di organizzazione e preparazione» hanno contribuito
alla sconfitta e alla demoralizzazione dei militanti. Una situazione
che per Fabbri è anche il prodotto della evoluzione politica
e sociale del momento, frutto di un profondo «decadimento
morale» che non ha eguali nella storia del nostro paese.
L'anarchico di Fabriano, in un altro articolo sempre nello stesso
numero della rivista, riferendosi direttamente al governo di
Mussolini scrive che tale ministero anche se attraversa una
fase instabile e «tanto faticoso è il suo trapasso
a forme reazionarie meno caotiche e più solide»,
non sembra avere un futuro di lunga durata perché erediterà
«parecchio dell'instabilità attuale». Fabbri
sembra incerto nella sua analisi compressa tra il pessimismo
razionale prodotto dalla sconfitta e l'ottimismo di una rinascita
legato alla sua fede coerente e cristallina. Non sembra accorgersi
che l'instabilità politica e sociale nata dal conflitto
sta producendo un fenomeno di impronta autoritaria che manifesta
nuove forme e concezioni del potere fino ad allora sconosciute.
Nettlau, come Fabbri individua la radice di questa nuova «offensiva
autoritaria» nella guerra mondiale – quando il «militarismo
demoliva i corpi ed il nazionalismo avvelenava gli spiriti»
– condivide il giudizio sulla «bancarotta morale
dell'autorità» borghese, auspicando il giorno della
riscossa. Malatesta, qualche mese dopo, avalla questa lettura
di Fabbri del fascismo definendolo un «raccapricciante
fenomeno di regresso morale e politico» («Pensiero
e Volontà», 15 agosto 1924).
Complessivamente, la rivista cerca di analizzare le cause della
disfatta operaia e del movimento libertario di fronte al sorgere
di governi autoritari e dittatoriali – non viene mai utilizzato
il termine totalitario, neologismo d'altronde coniato proprio
in quegli anni –, sia di natura reazionaria come quello
fascista che di natura rivoluzionaria come quello comunista.
Il nocciolo della questione della disfatta è individuato,
come detto, nella «questione morale». Malatesta
avrà modo in seguito di ritornare sulla questione etica
ribadendo che l'affermazione del fascismo è dovuta in
gran parte alla mancata «rivolta morale contro l'abuso
della forza brutale, contro il disprezzo della libertà
e la dignità umana, che sono la caratteristica del movimento
fascista».
Questa interpretazione del fascismo come «malattia morale»
della società, avrà negli anni seguenti un'ampia
diffusione tra gli intellettuali e gli storici europei di diversi
orientamenti politici e culturali. Ad esempio, per il filosofo
liberale Benedetto Croce il fascismo «fu uno smarrimento
di coscienza, una depressione civile e una ubriacatura, prodotta
dalla guerra». Va da sé però che l'interpretazione
crociana si discosta di molto da quella di Malatesta. Il filosofo
giudicherà il regime fascista come una momentanea e infausta
parentesi dal processo di costruzione dell'Italia liberale che
«aveva trovato il suo momento più alto nel compromesso
giolittiano» considerato un «capolavoro politico»
mentre è risaputo che Malatesta nel fascismo vede una
continuità di molti di quegli elementi istituzionali,
economici e culturali tipici proprio del sistema politico che
si era affermato con Giolitti.
Anche Carlo Rosselli, qualche anno dopo, utilizzerà questo
schema interpretativo considerando il fascismo come una «malattia
morale», prodotta da ataviche radici ben profonde nella
storia italiana. La riflessione di Rosselli, che trae origine
da quella di Gobetti e che ha qualche punto di contatto con
quelle elaborate in campo libertario da Malatesta e Fabbri,
vede l'affermazione del fascismo come l'esito di un processo
al cui centro vi è la mancata rivoluzione liberale ottocentesca
che non ha saputo affermare delle vere istituzioni democratiche
e che è affogata in un sistema di governo fondato sul
«paternalismo, clientelismo, trasformismo e autoritarismo».
Dunque, al contrario di Croce, per i giovani intellettuali antifascisti,
influenzati dalla cultura liberale e socialista e che dopo pochi
anni daranno vita al movimento Giustizia e libertà, il
fascismo è nato dalle contraddizioni e dalle aporie dell'Italia
liberale e si è affermato grazie a un'inedita alleanza
delle tradizionali burocrazie pubbliche con i ceti proprietari
e con quelle avanguardie reazionarie sostenitrici di un progetto
autoritario di società e di Stato.
Tema questo delle radici del fascismo condiviso anche dallo
stesso Fabbri che, a tale proposito, scrive («Pensiero
e Volontà», 15 dicembre 1924):
Metafore a parte, il fascismo è il prodotto logico,
l'ultimo sbocco della civiltà capitalistica che, giunta
all'epilogo della sua fase discendente ritorna alla barbarie
e, in certo modo, a rinnegare e divorare se stessa. Quel giornale
fascista che diceva essere il fascismo non un frutto sbocciato
all'improvviso dal 1919 al 22, bensì conclusione dell'ultimo
ventennio della politica italiana, non aveva tutti i torti.
Il fascismo c'era già nella corruzione dei partiti,
nell'utilitarismo e nell'egoismo trionfanti, nei difetti delle
spesse classi oppresse, in quello che allora si chiamava giolittismo
ma era qualcosa di più e di peggio del sistema d'un
uomo politico.
La guerra è stata l'incubatrice che ha fato sviluppare
più rapidamente e violentemente i germi del male; senza
la guerra ci poteva essere la speranza che il male potesse
esser vinto ancora in germe dalle forze novatrici e rivoluzionarie.
Ma il male c'era: un male del tutto costituzionale, insito
nell'ordinamento sociale che ha per base l'interesse, lo sfruttamento,
l'oppressione a vantaggio di pochi e a danno del maggior numero.
Il fascismo è l'ultima e più grande manifestazione
di questo male.
Fabbri esprimerà, quindi, un certo sconforto ed esitazione
nell'analisi politica – cosa che risulta comprensibilissima
date le circostanze –, questa in gran parte usa gli strumenti
concettuali impiegati fino ad allora – soprattutto quelli,
come abbiamo visto, relativi al conflitto di classe –
che ora risultano in parte non sufficienti a giustificare la
sconfitta epocale del movimento operaio, socialista e libertario.
La lettura di Fabbri, come è stato rilevato in campo
storiografico – al di là di alcuni limiti, peraltro
come già ricordato comuni ad altri esponenti della sinistra
italiana dell'epoca, basti pensare all'analisi classista del
fascismo di Amadeo Bordiga e dello stesso Gramsci – è
stata anche condivisa da altre riflessioni più articolate
effettuate alcuni anni dopo da Salvemini e Tasca.
Va ricordato che, in questi anni, sia Bordiga che Gramsci ritengono
che la crisi delle istituzioni monarchico/liberali con l'emergere
del fenomeno del fascismo possa giovare allo smascheramento
delle forze socialdemocratiche e aprire la strada alla rivoluzione.
Gramsci in particolare sottolinea la risultante di classe, l'esistenza
delle forze che stanno dietro le bande fasciste (la casta militare,
i proprietari agrari, il capitale finanziario) e rivolge anche
la sua attenzione e l'acume della sua invettiva agli aspetti
sociologici e psicologici dello squadrismo come frutto di tutti
i sedimenti parassitari e «barbari» della società
italiana, del suo costume e malcostume, ai caratteri della ubriacatura
ideologica che lo anima, tenendo sempre a fuoco l'esistenza
di una disgregazione in atto dell'autorità statale, specchio
di una disgregazione sociale. Di qui, l'esame del fascismo come
prodotto dell'irrequietezza della piccola borghesia urbana,
una delle sue componenti essenziali, non facilmente armonizzabile
con l'altra che Gramsci accosta, quella «agraria antiproletaria».
|
1°
luglio 1924 - Prima pagina di «Pensiero e Volontà»
listata a lutto per l'assassinio di Giacomo Matteotti |
“Nemici di qualsiasi governo”
Va altresì ricordato che mentre gli anarchici guardano
e criticano il fascismo, con tutti i loro limiti, in “presa
diretta” cercando di elaborare una strategia d'opposizione
concreta, molti degli esponenti delle opposizioni moderate arriveranno
ad una scelta e a una elaborazione della critica antifascista
più tardi rispetto all'affermazione di tale movimento
guidato da Mussolini. Come è stato rilevato in ambito
storiografico, molti esponenti del liberalismo (come Benedetto
Croce, Luigi Albertini e lo stesso Giovanni Amendola) e dei
popolari, ma anche alcuni esponenti del socialismo riformista
italiano, solo con la crisi di Matteotti abbracceranno in maniera
convincente l'antifascismo.
Le elezioni della primavera del 1924 sono un'arma in mano al
governo Mussolini per allargare il proprio consenso mentre le
opposizioni, divise e indebolite, hanno un atteggiamento, come
ricordato, esitante e contraddittorio. Fabbri battezza profeticamente
queste elezioni come le «elezioni del manganello»,
riprendendo alcune parole di un deputato fascista. Inoltre,
qualche settimana dopo la conclusione del turno elettorale,
oltre a denunciare le violenze fasciste, ribadisce attraverso
una critica puntuale che solo con l'astensione le opposizioni
avrebbero di fatto potuto svuotare la “vittoria”
fascista, accelerando il processo di «decomposizione»
del movimento e favorito il «mutamento del regime».
Malatesta, nello stesso numero della rivista, riafferma chiaramente
il suo punto di vista sulla questione della partecipazione del
partiti di opposizioni alle elezioni («Pensiero e Volontà»,
1° marzo 1924):
non riconosceremo mai le istituzioni, prenderemo o conquisteremo
le riforme possibili con lo spirito con cui si va strappando
al nemico il terreno occupato per procedere sempre più
avanti, e resteremo sempre nemici di qualsiasi governo, sia
quello monarchico di oggi, sia quello repubblicano o bolscevico
di domani.
Egli in questi mesi non si stanca di dare indicazioni ed elaborare
riflessioni sulla situazione politica per non far perdere l'orientamento
ai militanti e gruppi sparsi in Italia, che sopravvivono oramai
quasi nella semi-clandestinità. È un leader politico
cui il governo e i suoi “mazzieri” cercano in ogni
modo di impedire di svolgere qualsiasi azione. È strettamente
sorvegliato, i suoi amici, la sua famiglia sono continuamente
sottoposti a misure restrittive e ad atti intimidatori. Malatesta
intuisce la necessità di un cambio di marcia dopo le
elezioni che ridia spazio agli anarchici e li faccia uscire
dal loro isolamento.
La strategia di fondo del pensatore anarchico si delinea in
una visione graduale del processo rivoluzionario, durante il
quale gli anarchici a seconda della situazione sociale e politica
potranno spingere verso l'attuazione del proprio programma e,
se le forze glielo permetteranno, di attuare un'opposizione
intransigente e determinata anche in un contesto dove a primeggiare
siano forze socialiste e/o repubblicane autoritarie. La volontà
e l'esempio, per Malatesta, consentirebbero di mantenere un'autonomia
e indipendenza al movimento senza compromettersi ma mantenendo
saldi i suoi rapporti con le classi subalterne («Pensiero
e Volontà», 1° marzo 1924).
Siamo riformatori oggi in quanto cerchiamo di creare le
condizioni più favorevoli ed il personale più
cosciente e più numeroso che si può per menare
a bene una insurrezione di popolo; saremo riformatori domani,
ad insurrezione trionfante e a libertà conquistata,
in quanto cercheremo, con tutti i mezzi che la libertà
consente, cioè con la propaganda, con l'esempio, con
la resistenza anche violenta contro chiunque volesse coartare
la nostra libertà, cercheremo, dico, di conquistare
alle nostre idee un numero sempre più grande di adesioni.
A questo proposito Malatesta, nell'ipotesi della caduta della
monarchia e del fascismo con il ripristino della democrazia,
scrive («Pensiero e Volontà», 15 marzo 1924):
Non v'è dubbio, secondo me, che la peggiore delle
democrazie è sempre preferibile, non fosse che dal
punto di vista educativo, alla migliore delle dittature. Certo
la democrazia, il cosiddetto governo di popolo, è una
menzogna, ma la menzogna lega sempre un po' il mentitore e
ne limita l'arbitrio; certo il «popolo è sovrano»
è un sovrano da commedia, uno schiavo con corona e
scettro da cartapesta, ma il credersi libero anche senza saperlo
val sempre meglio che il sapersi schiavo ed accettare la schiavitù
come cosa giusta ed inevitabile.
Pur ribadendo la critica libertaria sia ai sistemi dittatoriali
che a quelli democratici, Malatesta sentiva la necessità
di mantenere vivo un dialogo soprattutto con le giovani generazioni,
anche quelle che guardavano con simpatia e sincerità
agli ideali democratici liberali, e tra questi i giovani repubblicani.
Fu un ulteriore tentativo di conservare un rapporto con quelle
forze genuine della gioventù disposte a opporsi energicamente
al fascismo, ma anche nel contempo a evitare che la bandiera
“antifascista” fosse issata e difesa solo da forze
moderate. Malatesta insistette su questo argomento di alleanze
con altre forze politiche vicine culturalmente, precisando che
questa ipotetica unità si doveva misurare con il «fatto
rivoluzionario». Se fosse caduto Mussolini, il nuovo governo
sarebbe stato probabilmente repubblicano, ma gli anarchici non
avrebbero riconosciuto alcuna «Costituente repubblicana»
(«Pensiero e Volontà», 1 giugno 1924):
Lasceremmo farla se il popolo la vuole; potremmo anche trovarci
occasionalmente ai suoi fianchi nel combattere i tentativi
di restaurazione; ma domanderemo, vorremo, esigeremo completa
libertà per quelli che la pensano come noi di vivere
fuori della tutela e dell'oppressione statale e di propagare
le loro idee colla parola e coll'esempio.
Rivoluzionarii sì; ma soprattutto anarchici.
Malatesta confida nella natura umana, nella volontà
rivoluzionaria e nel principio pedagogico dell'esempio con il
quale la nuova società fondata sulla libertà si
affermerà in contrapposizione al vecchio mondo autoritario.
Compito degli anarchici, per Malatesta, è dunque quello
di difendere ed estendere tutte le libertà, e nella fase
transitoria dal vecchio regime alla nuova società, dove
le varianti politiche e sociali potranno essere molte, gli anarchici
dovranno dunque restare tali «prima, durante e dopo la
rivoluzione» mantenendo al massimo le proprie capacità
di influenza morale e politica sulle classi subalterne. Lungi
dall'orizzonte dell'anarchismo ogni ipotesi che contempli l'imposizione
di una scelta autoritaria, confidando nello spontaneismo delle
classi subalterne liberate dalle catene della schiavitù,
l'anarchia si affermerà gradualmente nella misura in
cui le idee di libertà e di eguaglianza diventeranno
un patrimonio comune. Va altresì ricordato che anche
Berneri, con il suo approccio critico, cercò di superare
l'immobilismo teorico di gran parte del movimento. Alla fine
degli anni Venti, e durante tutti i primi anni Trenta, tentò
di svecchiare l'apparato teorico del movimento alla ricerca
di possibili alleati per un'eventuale insurrezione antifascista
in Italia, soprattutto avviando un confronto con gli ambienti
più aperti dei circoli dell'antifascismo democratico
come i giellisti e/o certe frazioni di socialisti e repubblicani.
In questo senso vanno letti i suoi contributi riguardanti la
questione dell'atteggiamento degli anarchici sul problema elettorale,
così come quello delle alleanze e le riflessioni sui
problemi della transizione da una società borghese a
quella rivoluzionaria.
|
Copertina del primo numero di «Pensiero e Volontà», 1° gennaio 1924 |
“Con il governo fascista, non si
tratta”
Ma non tutti sono d'accordo con la posizione di Malatesta e
dei suoi più stretti collaboratori della redazione, come
Luigi Fabbri. Ad esempio Carlo Molaschi propone un'alleanza
politica con i repubblicani di sinistra e anche altre forze,
al fine di convergere «intorno ad una bandiera che agitasse
l'idea federalista». Malatesta risponde a Molaschi confermando
la propria posizione e contestando l'idea che uno Stato federalista
sia meno autoritario di un Stato liberale o dittatoriale e sulla
necessità e l'urgenza di una lotta contro il fascismo
unendosi «con tutti quelli che vogliono agire, senza andar
cercando delle affinità che non esistono». Il pericolo,
per Malatesta, e che a forza di cercare affinità con
gli altri si cessi alla fine di essere anarchici.
Su questi argomenti tornerà ancora, con l'idea che «pensare,
studiare, prepararsi» sia la condicio sine qua
non per affrontare un tema così delicato e difficile
per gli anarchici. Per Malatesta («Pensiero e Volontà»,
1° ottobre 1925) gli anarchici non possono fare da soli
la rivoluzione ma è necessario unirsi a
[...] tutte le forze progressiste esistenti, con tutti i
partiti d'avanguardia ed attirare nel movimento, sommuovere,
interessare le grandi masse, lasciando che la rivoluzione
della quale noi saremo un fattore fra gli altri, produca quello
che può produrre.
La successiva drammatica vicenda del rapimento e dell'uccisione
del deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato
in parlamento con determinazione le aggressioni fasciste durante
la campagna elettorale dell'aprile definendo il fascismo come
il principale strumento politico e militare degli agrari padani
contro i diritti dei lavoratori della terra, colpisce profondamente
l'opinione pubblica e le forze politiche di opposizione, e per
un breve lasso di qualche settimana il governo Mussolini sembra
sul punto di cadere. Per gli anarchici e per lo stesso Malatesta
si apre forse l'ultima occasione per poter invertire la rotta
della storia.
«Pensiero e Volontà» apre il numero del 1°
luglio 1924 listato a lutto e con un articolo non firmato, ma
di Malatesta, dal titolo L'assassinio di Giacomo Matteotti
di cui vale la pena di riportarne il testo:
Il nostro ultimo numero era già in macchina quando
si seppe dell'assassinio di Giacomo Matteotti, e perciò
non potemmo parlarne.
Ma quelle sono cose che non si scordano: e noi siamo oggi,
come lo eravamo ieri e come lo saremo domani, tutti compresi
di sdegno e di orrore per l'atroce delitto.
Vada alla famiglia del martire l'espressione del nostro dolore,
e vada ai suoi amici e compagni di fede l'assicurazione che
le differenze d'idee che ci dividono non attenuano per nulla
la nostra simpatia pel luttuoso avvenimento.
Purtroppo il martirio inflitto al Matteotti da vili sicari
di più vili mandanti non è il solo, e forse
non il peggiore, dei delitti di cui si è macchiato
il fascismo. Roccastrada, Torino, Spezia, Reggio Emilia, Pisa...
tutta una litania di stragi! Cento e mille città e
borgate d'Italia han visto le gesti di questa masnada di delinquenti,
che colla protezione attiva o passiva del governo, ha devastato,
tiranneggiato, ucciso, senza ritegno alcuno, a sfogo di brutale
malvagità, in servizio di loschi interessi, per avidità
di denaro e di bassi piaceri.
E noi pensiamo, non senza un senso di vergogna quale uomini
e quale italiani, a questo fatto terribile di un paese di
40 milioni, con una storia ricca di glorie e di eroismi, che
in pieno secolo ventesimo si è sottoposto per lunghi
e lunghi mesi ad un simile regime.
Ma il delitto Matteotti, sia per la posizione ed i meriti
dell'uomo, sia per le circostanze ed il momento in cui è
avvenuto, ha commosso profondamente l'animo popolare e può
essere la goccia che fa traboccare il vaso ricolmo. E lo sarà,
se solamente le opposizioni sapranno isolare il governo negandosi
ad ogni contatto, ad ogni concorso positivo e negativo.
Col governo fascista non si tratta.
Non è questione di politica, ma di morale!
Dopo però il primo periodo di disorientamento, il governo
di Mussolini decide di dare un'ulteriore svolta restrittiva
alle libertà in genere e in specifico alla libertà
di stampa. Per stroncare la vigorosa campagna antifascista scatenata
da questo ennesimo assassinio, che commuove tutto il popolo
italiano e ha una profonda risonanza all'estero, Mussolini,
nella seduta dell'8 luglio 1924, fa deliberare dal suo Consiglio
dei Ministri l'applicazione piena e immediata del decreto sulla
stampa del 1923. Le norme di attuazione, contenute in un nuovo
decreto che porta la data del 10 luglio 1924, estendono la facoltà
di sequestro dei giornali anche nei casi di pubblicazione di
notizie false e tendenziose per i quali le disposizioni del
1923 prevedevano la sola diffida.
“Stupide misure di polizia”
«Pensiero e Volontà», proprio nel numero
del 15 luglio, giorno di pubblicazione del decreto restrittivo
sulla libertà di stampa, apre la rivista con un articolo
di Malatesta dal titolo Libertà!:
Un decreto «regio», che viola le leggi costituzionali,
ha soppresso quel po' di libertà di stampa che c'era,
sottomettendo tutta la stampa periodica all'arbitrio dei prefetti.
Noi non ce ne meravigliamo. La legge è fatta sempre
per il vantaggio dei dominatori, i quali regolarmente se ne
infischiano quando per avventura essa non risponde ai loro
interessi.
Naturalmente «i legalitari» continueranno ad aver
fiducia nelle leggi e ad invocarne di nuove. Ma noi sappiamo
per vecchia esperienza che cosa pensare della libertà
«garantita dalla legge».
Osserveremo solamente che queste stupide misure di polizia
sono sintomo di paura, ed hanno sempre proceduto di poco la
caduta di un regime – e perciò ce ne rallegriamo.
La rivista avrà ancora qualche occasione per far sentire
la voce e il pensiero dei libertari italiani poi, nel successivo
anno e mezzo, bersagliata dai sequestri ordinati dalle autorità
sarà di fatto costretta, come scrive Malatesta, a parlare
del futuro e di letteratura varia.
Nel frattempo, è ancora Fabbri che interviene con un
articolo in cui denuncia il fenomeno della recrudescenza della
violenza fascista che, diminuita dopo il periodo elettorale
con l'assassinio di Matteotti, ha ripreso ora con maggiore virulenza
(«Pensiero e Volontà», 15 settembre 1924):
Prendiamo le mosse da quell'orribile 10 giugno dell'assassinio
di Matteotti, da cui s'inizia la ripresa violenta del fascismo,
e notiamo che da quel giorno fino al 31 agosto u.s. i fascisti
uccisero ben 16 persone e cosiddetti sovversivi. [...] Abbiamo
contato 185 località ed episodi di bastonature e ferimenti,
numero certo inferiore al vero; se si pensa, inoltre, che
di rado ogni volta si batte una persona sola (nel Polesine
ultimamente se ne picchiavano a decine per volta) si arriva
a sommare a più centinaia, a migliaia anzi, gli italiani
sottoposti in appena ottanta giorni, ad una così odiosa,
degradante e provocatrice violenza.
Negli ultimi mesi del 1924, la rivista cerca di contribuire
in tutti i modi al dibattito sull'involuzione della situazione
italiana per individuare gli spazi di manovra del movimento
libertario. Molaschi, nel numero di settembre, pubblica un interessante
articolo sulla penetrazione del fascismo nelle campagne italiane,
dove il suo consenso coatto è ampio. Per Molaschi, la
politica agraria del fascismo ha lo scopo da una parte di contestare
ai popolari l'egemonia politica dell'universo agricolo italiano,
e dall'altra di arruolare con facilità la gioventù
contadina disillusa dalla politica liberale e infastidita dalla
propaganda massimalista delle forze di sinistra.
La questione dell'auspicata caduta del governo fascista e sulle
prospettive politiche che tale evento potrebbe aprire porta
di nuovo l'attenzione sul rapporto mezzi-fini e sull'uso della
violenza rivoluzionaria. A questo proposito Malatesta scrive
(«Pensiero e Volontà, 15 settembre 1924):
Moralmente, è evidente che lo spirito di odio e di
vendetta, che sta alla base di tutta la organizzazione autoritaria
della società non saprebbe generare l'amore e l'armonia
e quindi non può essere anarchico.
Politicamente è chiaro che non è possibile abolire
il governo, abolire il gendarme, se la pacifica convivenza
non diventa regola generale. Violenze e vendette ne avverranno
certamente visto l'odio intenso che i fascisti han suscitato
contro di loro; ma se esse dovessero durare troppo, andare
oltre deplorevoli ma inevitabili casi isolati e diventare
cosa sistematica valuta ed incoraggiata dai rivoluzionari,
la massa del popolo che ha bisogno innanzi tutto di vivere
e lavorare in pace, domanderebbe subito un governo forte ed
appoggerebbe il primo soldataccio che saprebbe dare la pace
togliendo la libertà.
E d'altra parte, noi stessi, se volessimo mettere in pratica
quei truci propositi e non pigliarne invece di darne, saremmo
costretti ad organizzarci militarmente, vale a dire a creare
un governo.
In un successivo articolo scritto alla fine del settembre
del 1924, Il terrore rivoluzionario, che porta un sottotitolo
allusivo alla situazione vissuta (“In vista di un avvenire,
che potrebbe anche essere prossimo”), scrive («Pensiero
e Volontà», 1° ottobre 1924):
Il fascismo ha accolto molti delinquenti e così ha,
fino ad un certo punto, purificato preventivamente l'ambiente
in cui si svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere
che tutti i Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti.
Vi sono di quelli che per una ragione qualsiasi non han voluto
o non han potuto diventare fascisti; ma sono disposti a fare
in nome della «rivoluzione» quello che i fascisti
fanno in nome della «patria». E d'altronde, come
gli scherani di tutti i regimi sono stati sempre pronti a
mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventare i più
zelanti strumenti, così i fascisti di oggi si affretteranno
domani a dichiararsi anarchici, o comunisti o quel che si
voglia, pur di continuare a fare i prepotenti e sfogare i
loro istinti malvagi.
Malatesta conclude con una frase serafica nella quale riafferma
la sua coerenza fra i mezzi e i fini e l'opposizione al “bene
per forza”, che sono cardini del pensiero di Malatesta
di sempre: «Se per vincere si dovesse elevare la forca
nelle piazze, io preferirei perdere».
Nel numero successivo della rivista, firma il suo articolo forse
più importante dal punto di vista politico di quel periodo,
in cui illustra la sua visione complessiva non solo sul ruolo
degli anarchici nella crisi attraversata, ma sulla condizione
del fascismo e dell'opposizione – che prende in quelle
settimane il nome di «secessione dell'Aventino»
–, così come si è venuta a delineare dopo
il delitto Matteotti.
Malatesta prende spunto da un articolo del quotidiano fascista
«Il Popolo d'Italia» che, commentando la convocazione
di una prossima riunione del gruppo degli “Aventiniani”,
ipotizza una nuova alleanza politica raffigurandola come un
«anello», che raccolga tutte le forze antifasciste
dal liberale Albertini all'anarchico Malatesta.
Per il rivoluzionario campano tale ipotesi in realtà
mostra l'isolamento in cui versano il governo di Mussolini e
il fascismo, in generale, fortemente osteggiati da gran parte
del paese, e dall'altra però pone il problema di una
necessaria chiarificazione per ciò che si intende per
opposizione politica.
Malatesta che ha ben chiara la differenza tra il conservatore
liberale Albertini e il fascista Mussolini, tratteggia i lineamenti
politici della scuola autoritaria liberale e le sue differenza
dagli «scherani» nero camiciati.
Il giudizio sui fascisti non si discosta dai precedenti («Pensiero
e Volontà», 15 ottobre 1924):
I fascisti invece, salvo le debite eccezioni individuali,
poiché anche tra loro vi sono, come dappertutto gl'ingenui
ed i ciechi, i fascisti sono soldati di ventura arruolati
dall'alta borghesia per arrestare la montante marea proletaria,
i quali quando si sentirono forti abbastanza s'imposero, come
fu sempre costume dei mercenarii, a coloro stessi che li pagavano
ed intendevano adoperarli come semplici temporanei strumenti.
Fedigrafi di tutti i partiti, traditori sempre pronti al tradimento,
spostati che la visione di un po' di denaro ubbriaca, gente
abituata ad esser comandata cui non parve vero di comandare
a sua volta e di vendicarsi sopra i deboli delle umiliazioni
subite dai forti, violenti per temperamento, non frenati da
nessuno scrupolo morale e da nessuna esigenza intellettuale,
incoraggiati dalla complicità delle autorità
che assicurava loro la preponderanza materiale e l'impunità,
assillati nello stesso tempo dalla paura di cadere da un giorno
all'altro e di dover pagare il fio dei loro delitti, essi
si sono buttati sulle terre d'Italia come un esercito invasore,
come una banda di briganti ed ha calpestato non solo ogni
specie di libertà, fino quella di passeggiare tranquillamente
per le strade del proprio paese o restare indisturbato nella
propria casa, ma hanno offeso la dignità, violato ogni
più elementare senso di umanità, hanno rinnovato
in Italia i peggiori costumi morali e politici delle più
nere epoche della nostra storia.
Malatesta continua a spiegare che le differenze morali e intellettuali
tra “costituzionalisti” e fascisti, politicamente
parlando, cioè considerati dal punto di vista della loro
azione sociale» li pongono sullo stesso piano, quello
di «difensori del privilegio e di tutte le turpitudini
che ne derivano».
Conclude infine con una considerazione politica che nasce dalla
necessità di battere il fascismo a fianco di chiunque,
senza «entrare in nessuna specie di anello coi costituzionali,
mirando sempre agli scopi nostri» avendo ben presente
che:
[...] la riconquista di quelle magre libertà che già
si erano guadagnate, libertà di parlare, stampare,
riunirsi, associarsi, gioverebbe certo alla causa del progresso
e darebbe mezzo di conquiste maggiori. [...] Ma badino bene
i proletari ed i rivoluzionari. Quelli che andranno al potere
dopo Mussolini, saranno probabilmente quelli stessi che crearono
ed alimentarono il Fascismo [...]
Se proletari e rivoluzionari non sapranno farsi valere, se
non saranno uniti, energici, e disposti alla lotta ed al sacrificio,
non si avrebbe né la restituzione delle libertà
elementari né l'amnistia; e la borghesia continuerebbe
a dominare ed a prepararsi per una nuova guerra ed un nuovo
fascismo.
La posizione di Malatesta, è quella di un internazionalista
anarchico convinto della necessità di una svolta rivoluzionaria
anche di fronte a un governo liberale; sono le stesse posizioni
di Fabbri che scrive contemporaneamente («Pensiero e Volontà»,
15 ottobre 1924):
Del resto la pressione sulla classe operaia è determinata
anche dalla crisi economica tremenda ereditata dalla guerra,
di cui la borghesia, risultata materialmente più forte,
vuol far pagare tutte le spese al proletariato. Finché
il potere rimane in mano alla borghesia, e la crisi perdura,
è utopistico sperare che un cambiamento di ministero,
il succedere di un partito capitalistico ad un altro, possa
far allentare quella pressione. Se anche un rimpasto ministeriale
riuscisse a far mettere il manganello in soffitta, non per
questo i lavoratori – a meno che da essi non si sprigioni
una forza autonoma nuova – avranno riacquistata la libertà
di movimento necessaria a far valere di più il proprio
lavoro.
L'anarchico di Fabriano conclude dicendo che non bisogna abbandonarsi
al pessimismo, che la speranza è riposta solo e solamente
nella capacità di autonomia e indipendenza del proletariato
e che cercare alleanza con i partiti liberali borghesi significherebbe
riconsegnare i proletari nelle mani del potere e delle sue catene.
Al contrario, solo la fiducia «in se stesso, ed in se
stesso soltanto, potrà dare al popolo la forza di rialzarsi
e conquistare la vera libertà».
|
Ultimo numero di «Pensiero e Volontà»,
10 ottobre 1926 |
22 luglio 1932 verso mezzogiorno
La successiva ripresa delle attività squadristiche in
tutte le città, compresa la capitale, si inquadra anche
in una contrapposizione tra le diverse fazioni del fascismo,
tese ognuna a cercare di confermare la propria egemonia. Come
detto, anche Roma non è esente da accogliere tali imprese,
tanto che alla fine del gennaio del 1925 lo stesso Malatesta
in una lettera a Fabbri ne racconta un episodio legato al proprio
quartiere:
In questi giorni, o meglio queste notti passate, delle bande
di ragazzacci in camicia nera hanno scorrazzato il quartiere
sbraitando e minacciando: niente di grave. Cantavano una specie
di canzone col ritornello: «Bisogna uccidere Baldazzi,
Banci, Lucchetti e Malatesta». Ma io passo spesso innanzi
alla loro sede, traverso i loro gruppi e nessuno mi dice niente.
È avvenuto che quando ne ho incontrato qualcuno da
solo, mi ha fatto il saluto militare! Non alla romana! [...]
Ieri nella giornata, dopo l'uccisione di Casalini, dei camion
di fascisti giravano per il quartiere gridando: Stasera
il Trionfale sarà un lago di sangue.
Va altresì ricordato che, in questo periodo, Malatesta
è colpito da un grave attacco di emottisi bronco-polmonare
che lo costringe drasticamente a ridurre i suoi impegni, anche
se cerca di rimettersi al lavoro nonostante il medico gli imponga
di riposarsi e di «star fermo, non parlare, non leggere,
non scrivere ecc.».
Nonostante la protesta e l'opposizione di tutte le pubblicazioni
antifasciste, Mussolini – con il noto discorso del 3 gennaio
1925 – impone ai prefetti un giro di vite nei confronti
della stampa con l'applicazione rigida dei provvedimenti di
controllo. Questa iniziativa porta alla soppressione e alla
sospensione di moltissimi giornali dell'opposizione; tra questi
ovviamente la stampa libertaria e «Pensiero e Volontà»,
che è, come già ricordato, bersagliato dai sequestri.
Malatesta, ancora nell'aprile 1926, scrive a Osvaldo Maraviglia
spiegando come «Pensiero e Volontà» sia una
parte fondamentale della rete libertaria ancora in piedi e strumento
di orientamento ideologico, manifestando ancora la speranza
per un cambiamento della situazione politica:
La rivista continua tra mille difficoltà. Tra i sequestri
ed il boicottaggio che ci fa la posta arriva nelle mani dei
compagni e degli abbonati ... quando può. Noi ci teniamo
a farla vivere anche se non possiamo dire quel che vorremmo,
perché serve come mezzo di collegamento e copre altri
lavori più importanti. E poi sarà bene, quando
le cose cambieranno, tener pronti ed avviati degli organi capaci
di far sentire la nostra voce e di dare al movimento un indirizzo
il più possibile rivoluzionario ed anarchico.
Ma l'opera di soppressione delle ultime parvenze di libertà
e di legalità si compie nell'autunno 1926, dopo gli attentati
di Lucetti (11 settembre) – Malatesta nell'occasione sarà
fermato dalla polizia e trattenuto in carcere per circa 12 giorni
– e Zamboni a Bologna (31 ottobre) che fornisce a Mussolini
l'occasione di porre fine a ogni forma residua di democrazia.
Il 1° novembre i prefetti sospendono tutti i giornali di
opposizione, senza distinzione di sorta.
Il Consiglio dei Ministri del 5 novembre delibera, fra l'altro,
la revoca della gerenza, e quindi la pratica soppressione di
tutti i giornali antifascisti. Il Testo Unico delle leggi di
pubblica sicurezza, reso pubblico il giorno successivo, stabilisce
il divieto di pubblicazione per tutti gli scritti, stampati,
ecc. «contrari all'ordine nazionale dello Stato e lesivi
della dignità e del prestigio nazionale e delle autorità».
Infine, il 26 novembre vengono emanati i provvedimenti per la
difesa dello Stato che istituiscono il Tribunale speciale e
ristabiliscono la pena di morte. Tra il febbraio del 1927 e
l'estate del 1943, il Tribunale speciale processerà 5.619
imputati condannandone 4.596. Gli anni totali di prigione inflitti
saranno 27.735, 42 le condanne a morte, di cui 31 eseguite,
3 gli ergastoli.
Malatesta, negli ultimi anni di vita, sopporta con dignità
e senza piegarsi l'isolamento e il marcato controllo poliziesco
che non gli permette alcun movimento.
Stessa situazione poco tempo dopo, un Malatesta non sottomesso,
non corrotto dallo spirito della sconfitta, convinto della necessità
di mantenere in vita un'opposizione libertaria al fascismo scrive
a Virgilia D'Andrea (3 aprile 1930) denunciando il suo stato
d'isolamento:
No, mia cara Virgilia, io non sento il bisogno di tranquillità;
soffro invece perché sono obbligato a restar tranquillo.
Non posso far nulla o quasi; ma almeno vorrei sapere quello
che avviene e quello che fanno gli altri sia per naturale interesse
alle cose nostre, sia per non trovarmi poi quando la situazione
sarà cambiata, come uno che è caduto dalle nuvole.
Oggi stesso, malgrado tutto, potrei, con uno pseudonimo se non
col mio nome, collaborare coi nostri giornali, se fossi al corrente
delle cose che in questo momento interessano i compagni, delle
correnti d'idee che agitano il nostro campo. Ma così
senza leggere i giornali, senza ricevere lettere che mi dicano
qualche cosa oltre il domandarmi notizie della mia salute ed
assicurarmi dell'affetto dei compagni, che cosa potrei scrivere
d'interessante? Manca la materia e la voglia.
Ancora pochi mesi prima di morire Malatesta scrive a Borghi
(7 marzo 1932):
Io sono più che mai isolato. È con grande difficoltà
che riesco a lunghi intervalli a vedere qualcuno. Il poco, pochissimo
che so lo apprendo da qualche giornale o ritaglio di giornale,
che capita nelle mie mani, e dalla corrispondenza epistolare,
la quale del resto è, come sai, severamente sorvegliata
e controllata. Avviene così che alle volte so qualche
cosa che accade in America o in Australia ed ignoro quello che
accade a mezzo chilometro da casa mia.
[...] Ho la testa piena di progetti, direi di visioni avveniristiche
e mi tormento per l'impotenza in cui sono: e, quel ch'è
peggio, incomincio a temere che mi mancheranno il tempo e la
forza per fare almeno un poco di quello che vorrei. Gli anni
passano, il corpo s'indebolisce, la salute vacilla... e forse
non potrò meritare l'affetto che i compagni hanno per
me. Ma lasciamo andare: viene la primavera, la mia salute rifiorirà,
si dissiperanno le idee lugubri che in questo momento mi si
affacciano alla mente ed io riacquisterò il mio abituale
ottimismo.
Malatesta muore a Roma, a causa di una broncopolmonite, il 22
luglio 1932 intorno al mezzodì, i suoi funerali si svolgono
il giorno successivo con un percorso prestabilito dalle autorità
per impedire ogni omaggio al vecchio combattente.
Undici anni dopo, nel luglio del 1943, il regime di Mussolini
collassa in seguito all'esito fallimentare della guerra imposta
agli italiani e dall'ondata di agitazioni e scioperi che nella
primavera hanno investito tutta l'Italia settentrionale, aprendo
un varco incolmabile tra il “popolo” – tanto
osannato dal regime – e il fascismo. Inizia la tragica
parabola della Repubblica di Salò: ultimo atto di quel
movimento nato nella fucina della Prima guerra mondiale e che
aveva fatto dell'esaltazione della violenza rigeneratrice un
tratto caratteristico della sua politica.
Il fascismo cade vittima della sua stessa violenza che tanto
aveva seminato per l'Italia e l'Europa dopo aver fatto –
come scrive Malatesta – strazio «della libertà,
della vita, della dignità di essere umani» («Solidarietà»,
n.u. 23 febbraio 1923)
Perciò la riscossa che aspettiamo ed invochiamo deve
essere prima di tutto una riscossa morale: la rivalorizzazione
della libertà e delle dignità umane. Deve essere
la condanna del fascismo non solo come fatto politico ed economico,
ma anche e soprattutto come fenomeno di criminalità,
come l'esplosione di un bubbone purulento che era andato formandosi
e maturando nel corpo ammalato dell'organismo sociale.
Franco Bertolucci
L'articolo è un estratto dal saggio Malatesta,
azione e rivolta morale contro il fascismo: 1922-1932
compreso nel volume Errico Malatesta un anarchico nella
Roma liberale e fascista, a cura di Roberto Carocci, Pisa,
BFS edizioni, 2018. Il libro raccoglie gli atti del convegno
di studi organizzato dall'Associazione d'idee “I refrattari”
tenutosi a Roma il 28 maggio 2016.
Il disegno di inizio pagina è di Fabio Santin.
|