rivista anarchica
anno 48 n. 425
maggio 2018


1968

Nata tre anni dopo

intervista di Mimmo Pucciarelli a Paolo Finzi


Più che ricordare il '68, vorremmo indagare su che cosa sia successo a partire da quell'anno simbolico, come si siano trasformati il mondo, le idee e le pratiche libertarie, ecc. Ne parliamo con un redattore di “A” (nata nel '71) l'ultimo del gruppo iniziale rimasto in redazione. Dal momento che “A” è nata nel febbraio 1971.


C'è una foto dell'aprile 1974 (qui di seguito) nella quale Paolo Finzi è ritratto insieme a diverse persone, tra le quali ci sono anch'io, ai funerali dei due redattori di Umanità Nova dell'epoca (Anna Maria Pietroni e Aldo Rossi) morti in un incidente stradale.
Per una quindicina d'anni abbiamo avuto stretti rapporti sia per delle ragioni familiari che per le lunghe chiacchierate che facevamo sull'anarchismo le idee libertarie, come inserirci in quel nuovo movimento che si trovava in bilico tra il rispetto della “famiglia” e la necessità di trovare nuove strade per arrivare... Sinceramente a vent'anni eravamo quasi sicuri che con la nostra energia, il buon senso, un po' d'immaginazione e tanto impegno avremmo visto sorgere il sol dell'avvenire.
Più di quarant'anni dopo, quando mi alzo la mattina, lo vedo il sole, ma anche tutte le nuvole che lo circondano, le problematiche inerenti alla complessità delle trasformazioni sociali e in special modo quelle spinte dalle alternative libertarie.
Le sue e le mie sono praticamente sempre state legate ad una attività culturale militante, lui con la rivista “A”, mentre io mi sono occupato prima di una rivista e poi anche di una casa editrice. Lui a Milano io a Lione.
Senza esserci persi di vista, i nostri rapporti si sono per tantissimi anni diradati, fino a quando Paolo mi ha chiesto se volevo partecipare più regolarmente alla vita di A. È quello che sto cercando di fare da qualche numero, da una parte perché dal 1971 leggo la rivista e mi sento molto vicino a quello che vi è scritto, e dall'altra perché sento ancora il bisogno, come quarant'anni fa, di trovare il modo affinché le idee libertarie assumano anche quel carattere di buon senso che ci permette di condividere non solo con i compagni e le compagne impegnati nei diversi movimenti ai quali ci sentiamo vicini, ma anche ai nostri vicini e vicine di casa, le persone che incontriamo quotidianamente nel nostro quartiere, al lavoro, in vacanza, ecc.
Abbiamo ripreso quindi con Paolo le nostre chiacchierate intense e senza troppi peli sulla lingua. Qui di seguito ne troverete una che spero permetterà di continuare la discussione e impegnarci per guardare la mattina il sole dalle nostre finestre.

M.P.

Roma 1974 - Paolo Finzi e (dietro) Mimmo Pucciarelli ai funerali
di Anna Pietroni e Aldo Rossi, militanti anarchici e redattori di Umanità
Nova, morti in un incidente automobilistico

Mimmo - Se dovessi raccontare per sommi capi questo mezzo secolo d'anarchia, diciamo dal maggio 1968 ad oggi, da dove inizieresti e quali sarebbero dal tuo punto di vista i punti salienti da ricordare?
Paolo - Trattandosi del cinquantenario del '68 e domandandomi tu quali sono i punti salienti da ricordare, partirei inevitabilmente proprio da lì. Una data che interessa tutti, non solo anarchici e libertari. Chiaramente con '68 non intendo solamente l'anno, ma i movimenti e le idee che in parte erano già nate negli anni precedenti in California o altrove. Penso che sia stato un momento fondamentale, per me lo è stato anche da un punto di vista personale.
Nello specifico, il '68 ha segnato la ripresa del movimento e delle idee anarchiche e libertarie. Ora, per quanto concerne il movimento anarchico, si tratta di una ripresa di un oramai piccolo movimento che aveva avuto, nei primi due decenni dello scorso secolo, una sua dimensione nell'ambito del movimento operaio. C'è da dire però che la ripresa di quelle idee ha interessato non solo quel piccolo, ma a noi caro, movimento anarchico, ma la cultura generale.
Volendo esagerare, direi che il '68 ci interessa innanzitutto per la ripresa della partecipazione, per le manifestazioni, per le piazze, perché ha segnato un periodo di accelerata crisi dei regimi dittatoriali comunisti, ma non solo. Ha anche riguardato la moda, i jeans, il rock, insomma tantissime cose in quel movimento di idee che ha accompagnato, dal nostro punto di vista, la crescita del movimento anarchico.
Inoltre, ritengo sia importante ricordare lo sguardo nuovo che viene dato al livello internazionale: teniamo presente che il '68 va anche a creare uno dei primi movimenti globali, che va dal Giappone al Perù, per intenderci.

Mi puoi fare degli esempi di come si sono materializzate queste idee?
Ad esempio, andavo a scuola a Milano, al liceo classico Carducci, e c'era il “Mister Giosuè” che era il giornalino scolastico diretto dal preside e della cui redazione facevo parte anch'io. E, anche in quel contesto, sono saltati tutti i vecchi meccanismi: il “Mister Giosuè” chiude, arrivano i tatzebao e tutta un'altra forma di comunicazione politica; ci sono le prime occupazioni nelle scuole e io vi partecipo.
In generale, c'era un clima che, dal punto di vista della militanza politica, riguardava una minoranza piccola della società, dalla quale però sono nate idee che in varia misura si sono allargate ben oltre i movimenti di lotta e sono andate ad incidere anche sul riformismo della società. Penso alle leggi sul divorzio e sull'aborto, rispetto alle quali gli anarchici avevano diciamo qualche perplessità, certo non sul tema, ma sulla metodologia del referendum. Noi di “A” fummo tra gli astensionisti.
Nell'Italia di quegli anni per la prima volta vengono creati degli organi di partecipazione, spesso molto burocratici e quasi inutili, che però permettono la partecipazione. Tutte queste cose possono essere considerate come un tentativo da parte del cosiddetto “sistema” di recuperare le istanze più rivoluzionarie, ma resta il fatto che la società nel suo insieme ne è uscita in qualche modo migliorata. E io sento che anche gli “estremisti”, anche gli anarchici, anche quelli che avevano delle impostazioni più utopistiche e la cui utopia non si è realizzata, se non magari su piccola scala, hanno contribuito a questo periodo di grande miglioramento della società, che nel corso dei successivi cinquant'anni, sopratutto negli ultimi trenta-quaranta, ha conosciuto dei tentativi di rivalsa anche dei vecchi metodi.
Purtroppo, tutte queste conquiste di libertà e anche di diritti civili, ecc., sono state e vengono rimesse in discussione.

Antinucleare, no-Tav, diritti sociali, ecologia, ecc.

Quali sono state in questi cinquant'anni le lotte per le quali gli anarchici hanno contribuito in modo significativo?
Intanto va notato che gli anarchici, che sono un ambiente non sempre facile da capire per le stesse persone che ci stanno dentro, e mi riferisco perlomeno a me stesso, hanno questa simpatica caratteristica di essere presenti in qualche misura in tutte le lotte sociali possibili. Per sociali intento lotte positive, come le lotte ecologiste, nel mondo del lavoro, ecc.
Per la dimensione, il settore ecologista è stato certamente uno dei più importanti. Gli anarchici in genere, per scelta, non partecipano agli aspetti legalitari delle lotte. Si noti però che se in Italia c'è stato un referendum che ha bloccato, dopo Chernobyl, il nucleare, è successo grazie a un movimento di massa molto diffuso, in cui gli anarchici erano presenti.
In tempi più recenti, ma neanche tanto perché è da venticinque anni che va avanti, la lotta contro l'alta velocità ha catalizzato intorno a sé, anche a livello simbolico, un grosso movimento di lotta che in questo caso, e non succede spesso, ha avuto per lunghi anni e ha tuttora un'intensa partecipazione delle popolazioni locali e anche, in parte, delle istituzioni locali.

Poco prima hai detto che gli anarchici non partecipano alle lotte legalitarie. Non ne sono convinto, perché ho potuto constatare, per esperienza diretta in questo mezzo secolo, che comunque partecipano un po' a tutte le lotte, anche a quelle che hanno come obiettivo quello di conquistare un pezzettino supplementare di legalità nel campo dei diritti sociali, così come delle libertà, dell'uguaglianza economica...
Sì, diciamo che gli anarchici amano pensare che ogni lotta sia una lotta parziale e in sé insufficiente, quindi tendono ad inserirla in una lotta di lunga durata e in qualche maniera rivoluzionaria. Anche se sull'argomento bisognerebbe discuterne molto.
Quello che io constato è che, una lotta come quella del No TAV ad esempio, non è di per sé rivoluzionaria. Ma gli anarchici tendenzialmente sottolineano come in parte il metodo assembleare di queste lotte, altrimenti detto autogestionario, costituisca già qualcosa di più del raggiungimento del blocco degli eventuali lavori. Anche se poi andrebbe sempre tutto verificato sul campo.
E questo perché, per loro, e di questo ne sono completamente convinto anch'io, la metodologia di partecipazione, di lotta, di coinvolgimento individuale è molto importante in queste iniziative, e non solo il raggiungimento dell'obiettivo.

In questi cinquant'anni la situazione politica in generale è cambiata moltissimo, e sicuramente anche il profilo sociologico degli anarchici e anarchiche che hai incontrato. Cosa ne pensi?
Ci sono due aspetti diversi. Uno è la trasformazione della società che a mio avviso non è facile da leggere: basta guardare i filmati degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta per renderci conto che mediamente qui in Italia, un paese del “primo mondo”, le condizioni di vita sono in parte sicuramente migliorate, così come la legislazione sul lavoro. Ma bisogna stare molto attenti, perché per esempio il fenomeno della precarizzazione, cioè il fatto che oggi non si trovi praticamente più, salvo eccezione, un lavoro di lunga durata, sottopone i lavoratori a delle condizioni di ricatto che tendono a riprodurre, in questo caso mi riferisco in particolare ai migranti, delle condizioni di quasi schiavitù.
Quindi la questione è curiosa, e anche contraddittoria, perché in questo mezzo secolo ci sono stati certamente dei miglioramenti, ma gli sviluppi sono stati così veloci, così imprevedibili e anomali, che hanno posto dei problemi completamente nuovi.
C'è da dire poi che l'avvento del computer, della civiltà 2.0 e di tutti i new media che sono entrati nel nostro quotidiano e anche nell'attività politica e sociale hanno cambiato molte cose. La facilità nella comunicazione, l'anonimato, la cancellazione delle distanze, ecco tutto questo ha posto dei problemi che come rivista ci interessano direttamente. Per esempio, come fare un resoconto di una manifestazione che oramai si vede in diretta dai telefonini dei partecipanti? E questo ha comportato un cambiamento generale.

Ma io pensavo anche al fatto che quando siamo arrivati nel movimento mezzo secolo fa, c'erano sicuramente ancora degli operai e qualche contadino come a Canosa... ed erano sempre un po' un punto di riferimento.
Beh, certo. Se nell'immediato dopoguerra il 45% della popolazione italiana era contadina, oggi credo che sia il 2 o 3%. È chiaro che questi cambiamenti di tipo sociale ed esistenziale hanno cambiato completamente le cose.
Certamente c'è stata una grossa trasformazione. Oggi siamo di fronte a nuove parole e nuove categorie sociologiche. Pensiamo ad esempio al fatto che vengono sempre più a mancare i lavoratori di tipo tradizionale. Gli anarchici, e non solo loro, continuano comunque ad andare ad identificare sfruttati e sfruttatori, perché questi esistono; i ricchi e i poveri ci sono sempre. Le realtà di fondo non sono cambiate, solo le modalità sono mutate, e non solo nel mondo del lavoro.
Lo stesso anarchismo oggi al livello internazionale è interessato da tutta una serie di tematiche, ambienti, lotte, riflessioni militanti, accademiche che lo rendono per certi aspetti più liquido. Per esempio, in Nord America negli anni '60 si è sviluppata la beat generation con il fenomeno di un diffuso anticonformismo e insieme ad esso gli anarco-trattino qualcos'altro; la stessa parola anarchia ha assunto dei significati parzialmente diversi.
Negli ultimi dieci anni il termine anarchico, come era successo prima in termini meno forti, va ad accompagnarsi a certe concezioni esterne come alle esperienze dei libertarian americani, altrimenti detti anarco-capitalisti, al primitivismo o altro, allontanandosi a mio avviso da quello che sostanzialmente è il nucleo, pur variopinto, dell'anarchismo.

Io vorrei sapere anche cosa pensi del fatto che gli anarchici e le anarchiche oggi appartengono a una classe media o medio-alta.
Diciamo che a partire dal principe Kropotkin ci sono sempre stati anarchici e anarchiche appartenenti alla “classe” medio-alta. Ma vorrei aggiungere che, a parte il fatto che è già di per sé difficile definire che cos'è la “classe”, possiamo dire, ad esempio, che che oggi in Italia molti anarchici fanno gli insegnanti. Che non sono più una categoria unica, ci sono quelli che hanno il posto fisso, ci sono i precari, c'è gente che a quarant'anni vede o non vede confermato il posto di lavoro. Gli anarchici in parte continuano a far parte della “classe operaia”, tant'è che ci sono sindacati o esperienze sindacali che coinvolgono anche gli anarchici.
Allora possiamo certamente dire che con l'anima sono sempre dalla parte degli ultimi, anche se magari non tutti sono ultimi, ci sarà anche qualche “primo” o “secondo”. Di certo sono spalmati nei vari ambiti o se, vogliamo, classi sociali.

Paolo Finzi

L'anarco-femminismo, “Non Una Di Meno”, ecc.

Senza andare alle origini e alle idee dei nostri “maîtres-à-penser” e alle fondamenta filosofiche del pensiero anarchico e libertario, ci puoi indicare quali sono stati i dibattiti all'interno del movimento che si sono susseguiti in questo lungo periodo che va dal '68 ad oggi?
I più interessanti sono stati quelli sulla situazione sociale e che quindi erano diversi di volta in volta. Cito, ad esempio, i dibattiti sulle questioni legate al nuovo “protagonismo” delle donne, al tentativo di superare il maschilismo non solo teoricamente (perché da un punto di vista teorico l'anarchismo è ben dotato su questo argomento), ma anche nella pratica quotidiana militante, nell'ambito familiare e sociale. Con sforzi assolutamente apprezzabili e risultati spesso inadeguati, nel senso che si tratta di questioni profonde da risolvere, e lo dico non per dare una giustificazione alle cose come stanno, ma per affermare che in realtà, come spesso succede, le cose sono molto più avanzate sul piano teorico che pratico.
Ecco, questo dibattito ci ha permesso di avere nuove relazione con i nuovi movimenti femminili che qui in Italia oggi si esprimono in “Non una di meno”, un movimento che mi sembra interessante soprattutto per il fatto che non è esclusivamente femminile, è aperto ai maschi, ma non certo alla cultura maschilista.
E poi le questioni di classe e le modalità delle lotte operaie, nel mezzo delle profonde trasformazioni nel mondo del lavoro.

Mi puoi indicare altri dibattiti? E qual è stato quello che ti ha appassionato di più?
Oggi, per esempio, si discute sul Rojava, sul Chiapas, cercando di comprendere le questioni positive, ma anche quelle negative. Ci furono dibattiti di questo tipo anche al tempo del Vietnam, perché la componente anarchica in genere ha sempre qualche distinzione rispetto alla sinistra. E mentre c'è sempre stato, in campo anarchico, chi si schiera quasi acriticamente da una parte, perché magari dà molta più importanza alla lotta di liberazione, c'è stato chi ha invece sempre sottolineato gli aspetti statali di quegli avvenimenti, assumendo atteggiamenti critici contro il governo del Vietnam del nord, che era una dittatura comunista, anche contro il generale Võ Nguyên Giáp. Insomma in questi ultimi cinquant'anni ci sono sempre stati dibatti sulle lotte di liberazione...
A me appassionano tutti i dibattiti, il che è dovuto non tanto all'oggetto del dibattito, ma a una metodologia di approccio critico che ci porta fra anarchici a confrontarci con la realtà e ad avere posizioni anche fortemente differenziate, come per esempio rispetto al Black Power americano. Dibattiti che si sono portati avanti in genere con civiltà, applicando categorie che, a mio avviso, sono universali.
Il fatto che ci siano tutti questi dibattiti è una cosa per noi positiva. Non abbiamo una concezione marxiana della “sintesi”, quindi lasciamo che ognuno abbia poi la propria opinione. Certo l'anarchismo ha sempre avuto dei tentativi di appropriazione ed è difficile fissare ciò che rientra o meno nel pluralismo. Ci sono alcune caratteristiche di fondo, come la solidarietà, l'umanesimo, ecc. che non possono abbandonare l'anarchismo, mai! E non possono nemmeno essere argomenti di dibattito, verrebbe da dire...
Ci sono a volte delle posizioni che mi fanno inorridire, come quella sull'appropriazione culturale, ossia l'idea che non si possa mai utilizzare oggetti o simboli di altre culture perché questo riproduce il colonialismo. Rispetto a queste concezioni si dovrebbero più che altro tenere dei chiarimenti, non dei dibattiti.

Ma ancora non mi hai detto qual è stato quello in cui tu sei molto implicato.
Diciamo che una tematica che mi ha interessato a livello personale, rispetto a posizioni che ho visto anche all'interno dell'anarchismo, è quello dell'antisemitismo. Il fenomeno è antico, in più è maldestramente incrociato con le vicende mediorientali recenti, e mi ha portato, questo in Italia che è un paese di cultura cattolica e quindi antisemita da millenni, a confrontarmi con l'argomento.
E poi mi sono occupato della questione dei popoli rom, sinti, degli zingari. Devo dire che anche in questo campo, come in altri campi (come quello sessuale) non sempre l'apertura che ci si aspetta dagli anarchici la si ritrova nei fatti e nei comportamenti.
Tu mi dirai: non mi hai elencato i dibattiti. In effetti ce ne sono stati tanti e ripeto a me interessano un po' tutti quelli che riguardano in modo specifico l'anarchismo, ma anche la società intera.
In realtà, ora che ci penso, quello che mi ha appassionato di più è stato quello sulla lotta armata e sulla violenza in generale. Io personalmente tengo a precisare che sono diventato sempre più critico con le pratiche di lotta armata, e soprattutto con la mitizzazione della violenza, come se essere più violenti equivalga ad essere più “di sinistra” o più anarchici.
Io credo che l'anarchismo abbia modo di dispiegarsi e realizzarsi meglio in situazioni dove non ci sia la violenza; questo che vuol dire che in situazioni di guerra, o per esempio di autogestione sotto la guerra, come era la Spagna tra il 1936-1939, le possibilità di sviluppare l'autogestione non sono assolutamente tante. Chiaramente la guerra, la violenza sono cose che esistono nella società a prescindere dagli anarchici. Ma io sono tuttora convinto, anzi sono sempre più convinto, che anarchismo e violenza sul piano teorico facciano a pugni, e che, per quanto riguarda la pratica, quasi sempre lo facciano.

Il ruolo dell'arte

L'anarchismo in questi ultimi cinquant'anni sembra abbia apportato qualcosa al dibattito culturale. Tu cosa ne pensi?
Intanto gli anarchici sono un movimento che da sempre ha avuto, nella migliore tradizione del movimento operaio, un grande amore per i libri, anche se oggi forse sono utilizzati di più i tablet. In genere se ci sono quattro anarchici, come si dice, hai almeno tre gruppi e due giornali.
L'anarchismo ha dato a questo ambito un contributo innanzitutto tramite delle persone, perché siamo un movimento che ama la dimensione collettiva, solidale, ma non si può cancellare il fatto individuale come dato principale. Ci sono personalità, delle persone che hanno dato un contributo anche alla cultura mondiale e che avevano atteggiamenti di simpatia o di adesione all'anarchismo. Penso a Murray Bookchin, ecologista per lunga parte della sua vita anarchico, anche se poi ha attraversato e fatto altre esperienze, così come pure Fabrizio De André, un cantautore che comunque si è sempre rivendicato vicino al movimento ed ha avuto un ruolo importante, come l'hanno avuto forse, per esempio, Leo Ferré e Georges Brassens in Francia.
In più gli anarchici organizzano regolarmente numerosi dibattiti e iniziative pubbliche in tutta Italia. Basta andare su internet per rendersene conto. E sono cose che non sono mai venute meno in questi ultimi cinquant'anni.
Quindi il dato culturale è un dato importante per l'anarchismo, anche perché l'anarchismo – ma potremmo usare anche la parola al plurale, gli anarchismi – è un grosso movimento culturale e questo lo vediamo in vari ambiti della cultura; nell'arte, per esempio, lo vediamo da sempre: penso a pittori come Pissarro. È un fenomeno che esiste anche oggi nelle nuove tendenze, come la street art, anche se io non me ne intendo tanto. Diciamo che in tutte le arti, ovunque ci sia creatività – poi ci sono delle persone esagerate che affermano che l'arte in se stessa è anarchica, che un artista è sempre anarchico, cosa che non è assolutamente vera, a mio avviso – c'è tutto questo mondo che esiste.

A” è nata probabilmente anche da quella che è stata la spallata che diede il '68 al mondo delle nuove idee e dei nuovi movimenti sociali. Essa si sta avvicinando al suo cinquantesimo anno di vita e tu ne hai portato il gravoso stendardo praticamente fin dall'inizio, prima con un gruppo di giovani compagni “milanesi” tra i quali Amedeo Bertolo, Luciano Lanza, Fausta Bizzozzero, Rossella Di Leo e poi molto sulle tue spalle.
Mi puoi dire come “A” ha cercato di accompagnare i dibattiti che si sono avuti in tutti questi anni e come vorrebbe o potrebbe continuare a dare spazio a questi “anarchismi” che cercano di proiettarsi in un quotidiano che tiene conto di tutti gli aspetti della vita sociale?

È difficile rispondere a questa domanda, perché “A” ha conosciuto una sua evoluzione legata sia ai cambiamenti dei tempi sia alla partecipazione dei vari redattori. Io sono rimasto l'unico dinosauro della prima redazione, però ci sono stati in questi quasi cinquant'anni decine e decine di persone che sono rimaste per poco tempo o per tanto tempo, dieci o vent'anni dentro la redazione, e che ne hanno segnato anche loro la storia e il contenuto, come, in maniera più flebile, tutti i suoi collaboratori. Noi abbiamo avuto dall'inizio a oggi circa quattromila persone, di cui diversi gruppi, che si sono espressi sulle pagine della rivista. Comunque “A” è molto cambiata. Nei primi anni era figlia degli anni Settanta, di una concezione militante nella campagna contro la strage di stato, per denunciare l'assassinio di Pinelli che era un compagno del gruppo che poi ha dato vita alla rivista.
Se i valori sono rimasti quelli dell'inizio, la rivista è cambiata insieme ai tempi. È cambiata anche rispetto ai suoi punti di interesse. La rivista non è stata né mia né degli altri che l'hanno prodotta. Anche quando avevamo una redazione ridotta ai minimi, noi abbiamo sempre contato molto sul coinvolgimento di altri compagni nel chiedere pareri, far vivere una redazione di fatto più larga.
Nel tempo abbiamo forse dimenticato il 95% delle cose importanti che sono successe, perché non riusciamo ad occuparci di tutto. Però a quel 5% di cui ci siamo occupati abbiamo dedicato di volta in volta articoli, dossier, approfondimenti seguendo non la moda, ma le sensibilità che c'erano intorno a noi.
Oggi ci troviamo a doverci confrontare con tutta una nuova serie di tematiche, come il veganismo, il transumanesimo e tutta una serie di pensieri che a volte facciamo anche fatica a capire, ma per i quali cerchiamo di tenere aperte le colonne di “A” senza ipocrisia, cioè senza dire che la rivista non ha una linea prevalente rispetto ad alcune tematiche.
Ecco, noi cerchiamo di tenere aperta la rivista stimolando anche i dibattiti e cercando, per ogni numero, di stimolare la ginnastica della riflessione e del dibattito, che mi sembra sia più importante del contenuto stesso dei dibattiti. Certo se alla fine dei dibattiti prevalessero più le opinioni naziste... è chiaro che io parlo sempre di un dibattito nell'ambito del movimento libertario!
Qui in Italia un tema che è stato discusso molto, anche perché si porta dietro considerazioni molto più generali, sono i vaccini. Quindi abbiamo dato spazio a diverse opinioni, dando spazio a entrambi i settori e facendoli arrabbiare entrambi: a chi rifiutava questa antipatica invasività statale, ma al contempo anche a quelli che erano contro il primitivismo antiscientifico. E così si è aperto il dibattito sulla scienza e sulla salute che è infinito, ma che va portato avanti. Io non sono di quelli che dibattono per il gusto di dibattere, ma per cercare di arrivare veramente all'identificazione di comportamenti concreti, perché è anche a questo che noi puntiamo. Non tanto alla rivoluzione finale, ma a una serie di trasformazioni individuali e sociali che migliorino l'ambiente e che, in ogni caso, possano anche preparare il terreno per soluzioni più avanzate.

Febbraio 1971 - La copertina del primo numero di “A”

Liberarsi dalla necessità di...

Cosa intendi per soluzioni più avanzate?
Provo a spiegare con questioni concrete. Noi di “A”, ad esempio, sosteniamo le lotte dei detenuti all'interno del carcere, che sono delle lotte di carattere riformista, perché non puntano direttamente all'abolizione del carcere, ma al miglioramento delle condizioni dei detenuti e delle detenute. Per noi è importante (per questo, sulla rivista, abbiamo dato una rubrica ad un ergastolano) che le persone prendano coscienza e che si interessino alla risoluzione di problemi concreti e non solo teorici.
Siccome sappiamo che i problemi della società sono complessi, in questo caso noi ci poniamo in un'ottica che sarebbe quella di volersi liberare dalla necessità del carcere, liberarsi dalla necessità delle forze dell'ordine.
A questo punto aggiungo che noi siamo tendenzialmente per il diritto di tutti ad esprimersi. Possono esserci eccezioni, e forse su questo si discute, ma noi non siamo quelli che impediscono agli altri di parlare. Noi cerchiamo di essere oltre che anarchici, libertari. Cioè per la libertà, che è innanzitutto la libertà degli altri, se no – se è solo la libertà per noi e per chi la pensa come noi – ha davvero poco significato.

Mimmo Pucciarelli