rivista anarchica
anno 48 n. 429
novembre 2018




Donne/
Una pittrice siciliana e le sue innovazioni

Il volume di Luisa Maria Leto, Lia Pasqualino Noto. L'artista che sfidò il suo tempo (Navarra, Palermo 2018, pp. 160, € 15,00) documenta le vicende umane e artistiche di un'importante pittrice siciliana del secolo scorso: e lo fa servendosi di fonti già note ma anche di un prezioso e inedito epistolario che testimonia la ricca trama degli interessi e delle relazioni di una straordinaria donna siciliana che, giovanissima, s'impone nella scena artistica della sua città, Palermo, per la sua bravura e per la sua capacità di superare in modo originale i vecchi schemi formali e contenutistici della pittura ottocentesca.
A cavallo degli anni '20 e '30, infatti, Lia Pasqualino Noto (1909-1998) espone con successo le sue opere e promuove, a Palermo, mostre di importanti artisti di fama nazionale e internazionale, col plauso e il sostegno del già noto e stimato pittore futurista Pippo Rizzo. La sua ansia di novità e la sua insofferenza verso la tradizione (peraltro diffidente verso le donne artiste) ha trovato modo di venir fuori liberamente, nella frequentazione di intellettuali e creativi: tra questi vi è il giovane medico Guglielmo Pasqualino, che diventerà suo marito e vi sono anche gli artisti Renato Guttuso, Nino Franchina e Giovanni Barbera, con i quali dà vita ad un sodalizio, stimolante e fruttuoso per la sua produzione pittorica improntata ad un rinnovato figurativo, che le darà notorietà nazionale.
I suoi lavori, però, dopo esaltanti momenti di entusiastica accoglienza, diventeranno sempre meno ricercati ed esposti, quando nel secondo dopoguerra le correnti astrattiste della pittura italiana conquisteranno i favori della critica, le gallerie, il pubblico. Un ritorno in auge della Pasqualino Noto si avrà negli anni '60 e '70, grazie ad una serie di mostre antologiche in varie città italiane, da Palermo a Milano, che ripercorreranno l'itinerario artistico della pittrice siciliana, accompagnate ovunque dai rilievi positivi dei critici. In occasione di una mostra di quel periodo, esattamente del '74, Raffaele De Grada scrive: “le necessità del mercato hanno spinto molti artisti all'alienazione.
Come a una catena di montaggio essi fabbricano quadri su quadri. La critica esercita poi una specie di supervisione del lavoro fatto, ma si sa bene come i critici, non per colpa loro, non siano spesso a loro volta espressione di una opinione pubblica, ma piuttosto di correnti di potere e di mercato. Così può capitare che una personalità come quella della Pasqualino Noto possa essere ancora oggi ignorata da gran parte del pubblico italiano, anche se chi ha una conoscenza effettiva della storia recente dell'arte italiana, ricorda bene il nome di Lia Pasqualino come uno di quelli che parteciparono al rinnovamento dell'arte italiana negli anni Trenta, quando dalla tecnica pesante del novecentismo si passò a una logica diversa del colore e della forma.
Raccogliendo gli esperimenti degli anni Venti, la Pasqualino cercò a sua volta una pittura più libera e più adatta ad esprimere non più il modello di studio ma i rapporti perfino stridenti negli accostamenti che venivano da un'analisi aperta del paesaggio siciliano e della figura nel paesaggio, con tutto lo studio di inusitati rapporti cromatici che venivano da accumuli di stoffe o da composizioni di oggetti. Questa ricerca delle dissonanze, che non può non suggerire paragoni con fenomeni consimili, per esempio la dodecafonia, in altre arti, è continuata dalla Pasqualino fino ad oggi quando certe nature morte nella loro apparente casualità rivelano invece un metodo quasi matematico sperimentale nell'accostamento dei colori”.
De Grada riscattava così da un ingiusto oblio la pittrice siciliana, coraggiosa nelle sue innovazioni, nell'arte come nella vita – come ben evidenzia la biografia della Leto – avendo dovuto lottare sempre, per potersi esprimere liberamente come donna e come pittrice, contro tenaci e retrogradi retaggi maschilisti e autoritari: in questo sostenuta e confortata dal marito, proprietario e direttore di una clinica privata a Palermo che negli anni ostili e tetri del fascismo diede rifugio ad ebrei e perseguitati politici: tra questi vi fu “un personaggio notevole che trovò riparo in clinica: l'anarchico Paolo Schicchi, che a causa delle sue idee e dei suoi comportamenti era stato condannato a dieci anni di reclusione, di cui quattro al confino, prima a Ponza e poi a Ventotene” come rivela, nel suo libro, la Leto, che trascrive la testimonianza diretta ed inedita di Beatrice Gagliardo di Carpinello Pasqualino, figlia della pittrice, che dell'anarchico Schicchi conserva sicura memoria e così ne racconta: “Schicchi era molto anziano e fiero della sua vita da ribelle.
Avendo avuto bisogno di un intervento chirurgico lo avevano portato in clinica. Due poliziotti gli facevano sempre da guardia. Una volta guarito si raccomandò a mio padre perché non voleva tornare sull'isola: non se la sentiva. Mio padre dichiarò che le sue condizioni di salute non gli consentivano di tornare al confino e che sarebbe stato imprudente perché aveva ancora bisogno di molte cure. Ottenne il permesso e per molto tempo le guardie continuarono a venire per controllarlo ma poi a un certo punto non vennero più. Paolo Schicchi rimase da noi per tutta la sua vita: aveva in clinica una minuscola stanzetta che le suore riempivano di immaginette con la Madonna e tutti i santi, sperando di riportarlo sulla via della fede, lui, che era un terribile mangiapreti”.

Silvestro Livolsi


Tecnologie/
Come una chiave inglese piantata nel terreno non potrà mai crescere

Ci sono libri, come questo, che servono da mappe per riuscire a orientarci meglio nel mondo in cui viviamo, ma che nello stesso tempo fanno molto di più: cambiano il nostro modo di guardare le cose. Tecnologie radicali di Adam Greenfield (Einaudi, Torino 2017, pp. 336, € 22,00), ci porta nel cuore di una trasformazione in corso che ha già cambiato in profondità la nostra vita quotidiana e il nostro modo di fare esperienza del mondo. Intanto che cos'hanno di speciale le “tecnologie radicali”? In breve si potrebbe dire che colonizzano e rimodellano la nostra vita quotidiana a partire da una sempre più imponente serie di dati raccolti da una rete sempre più fitta di dispositivi.
L'esempio sotto gli occhi (e tra le mani) di tutti è lo smartphone con cui lasciamo continuamente traccia dei nostri spostamenti, dei siti che frequentiamo, delle nostre preferenze. Ma lasciamo tracce anche usando il computer, andando al bar a prendere il caffè ripresi da telecamere ovunque, usando bancomat: per dirla in modo drastico, anche grazie a queste tecnologie radicali siamo in una società del controllo così capillare che nessuno stato prima d'ora avrebbe potuto mai neanche sognare di realizzare. Il punto più avanzato è forse il sistema del credito sociale cinese: sulla base dei dati il governo può punire, incentivare i cittadini che si comportano bene o male attribuendo loro un punteggio positivo o negativo a seconda delle azioni che compiono1.
Uno degli aspetti più interessanti che l'autore tocca è quello del riutilizzo da parte del dominio di tecnologie che erano state pensate in un'ottica di decentralizzazione, di democrazia diretta, addirittura di “anarchismo planetario”. Certo è facile smascherare come fa Greenfield il lato destro di un certo libertarismo. A proposito della piattaforma Ethereum creata dal mitico Victor Buterin, come rielaborazione del modello della Blockchain2, al cui interno si possono creare “organizzazioni decentralizzate autonome” (acronimo Dao che suona molto bene), che dagli entusiasti vengono proposte come il futuro dell'organizzazione politica dal basso, scrive Greefield: “a fare da forte contrasto a queste aspirazioni non ci sono solo il forte accento messo sulla proprietà e una certa definizione dei diritti di proprietà...”
É il wishful thinking (“pia illusione”) di chi vuole vedere nella tecnologia ciò che non riesce a realizzare nella realtà: “Vogliamo credere nella possibilità di una tecnologia che rivendichi nuovi potenti mezzi per l'azione collettiva, al di fuori del controllo dello Stato; siamo affascinati dall'idea che, una volta ricostituiti in un Dao, comitati di quartiere e gruppi di affinità possano intervenire nel mondo con la concretezza, l'efficacia e la continuità di qualsiasi altra impresa o organismo pubblico”
Prima decidiamo cosa vogliamo, poi organizziamoci per ottenerlo e qualche volta alcune tecnologie ci saranno d'aiuto per ottenere ciò che abbiamo progettato: “se vogliamo contestare il potere dello Stato, occorrerà compiere passi concreti per rivendicare localmente il potere decisionale, anziché sperare che qualcuno rilasci il codice di una struttura autonoma che renda istantaneamente obsoleti gli Stati”.
C'è un'altra questione interessante, toccata dall'autore. Tendiamo facilmente a dimenticare che dietro alle interfacce amichevoli c'è pur sempre una sequenza (lunga quanto si vuole) di 0/1 che rende senza alcun dubbio queste tecnologie più efficaci ma poco attente alle sfumature, alle contingenze e agli imprevisti. Non basta aggiungere una spruzzatina di fuzzy logic per cambiare questi assunti di base sottesi alla tecnologia contemporanea: “la vita quotidiana è qualcosa che dev'essere mediata da processi di misurazione, analisi e controllo messi in rete... l'accesso alle risorse e alle opportunità determinanti può essere equamente ripartito da un algoritmo... il discernimento umano non risulta più essere adeguato alle sfide della complessità che ci presenta il mondo”.
Il bello è che raggiunto un certo grado di complessità negli algoritmi genetici, nessuno è più in grado veramente di capire il perché di certe scelte. “ Molti dei sistemi che già stiamo usando ogni giorno funzionano in modi che i loro progettisti non capiscono completamente”.
Il che ci porta a uno dei tanti paradossi di questo mondo quotidiano: tanto più diventiamo potenti tanto meno capiamo come e perché, e tantomeno per quali scopi più generali. Solo per alcuni “visionari” lo scopo finale sembra essere chiaro: “trasvalutazione finale di tutti i valori messa in atto da un codice autonomo che si auto-esegue su una rete distribuita e globale di dispositivi di calcolo”. È l'ideologia transumanista dell'irrilevanza umana di fronte a cui ogni limite fisico, materiale carnale sembra dissolversi, la stupida intelligenza e arroganza.
Greenfield ci spinge a riflettere su ciò che è veramente importante per noi: l'IA ad esempio ci porta a indagare ciò che ci sembra irriproducibile da una macchina (un silenzio nell'esecuzione di un brano di Chopin, l'emozione che danno certe frasi apparentemente anodine nei romanzi di Elisabeth Strout, lo spazio del colore in una tela di Rothko).
Ma tutto questo sembra finito. Chi non vorrebbe ascoltare la prossima toccata di Bach, o guardare il prossimo quadro di Rembrandt?3 Ma nello stesso tempo sentiamo che c'è qualcosa di osceno in questi desideri, una sorta di necrofilia da una parte e una bulimia incolmabile dall'altra. Perché non dovremmo accontentarci del Bach (immenso) che abbiamo? E se pure ci sono rimasti pochissimi quadri di Vermeer perché non dovrebbero bastarci? Perché non si riesce a vedere nel limite qualcosa di grande? Perché la tecnologia nutre l'onnipotenza infantile, certo.
C'è qualcosa di più, la nascita di un potere senza sapere, di un'intelligenza meccanica che oltrepassa le capacità di comprensione umana. E il futuro dietro l'angolo è nell'integrazione di tutte queste tecnologie radicali in un modo che non solo ne aumenta enormemente la potenza e la capillarità, ma che apre scenari impensati e porta a una concentrazione del potere prima impossibile.
Dai piccoli e apparentemente ormai insignificanti oggetti che popolano il nostro paesaggio quotidiano l'autore arriva alla fine del libro a disegnare una serie di scenari globali, egualmente possibili ma non egualmente desiderabili. E ci mostra in modo convincente “che possiamo capire quello che davvero fanno le tecnologie e in che modo funzionano veramente soltanto se siamo in grado di fare un passo indietro e di soppesare le conseguenze per tutti gli ecosistemi sociali e naturali ai quali sono legate”.
Un libro acuto e sottile, capace di una critica radicale ma non tecnofobica della tecnologia che pone sul tavolo con chiarezza questioni così rilevanti che dovrebbero occupare il primo posto nella nostra agenda, mentre ci occupiamo delle chiacchiere da talk show.
Un sano esercizio materialista che ci invita a prendere le distanze da un pericoloso determinismo tecnologico guidato da forze impersonali e come un destino cinico e baro destinato a illuderci e a fregarci. Con in più, e non è poco, l'idea che tutti debbano almeno cercare di comprendere le poste in gioco della trasformazione in corso e non solo un gruppo di criptoesperti. Nelle ultime righe, senza trionfalismi e con tremore, Greenfield afferma che “un'epoca di tecnologie radicali richiede una generazione di tecnologi radicali” ma in questo processo siamo tutti implicati e che anche in questo caso abbiamo bisogno di cambiare la direzione dello sguardo, dalle vetrine scintillanti ai germi di modi di vivere alternativi, “semi di futuri possibili, semi che con impegno e cura potrebbero crescere e diventare un modo di vivere insieme sulla Terra più saggio, equilibrato, più giusto e più generoso”.

Filippo Trasatti

  1. Adam Greenfield, Tecnologie radicali, tr. it. M. Nicoli et al., Einaudi, Torino 2017, p. 300s.
  2. Troppo complicato da spiegare, chiedete a Ippolita. Oppure leggete la voce “Blockchain” in Ippolita, Tecnologie del dominio, Meltemi.
  3. So che non ci credete, ma guardate qui https://www.youtube.com/watch?v=IuygOYZ1Ngo. E ascoltate la conferenza del capo progettista https://www.youtube.com/watch?v=vxXb4BsEHPY.


Basaglia misconosciuto/
Psichiatria della miseria o miseria della psichiatria?

Benedetto Saraceno in un libro dal titolo perfetto - Sulla povertà della psichiatria (Derive Approdi, Roma 2017, pp. 192, € 18,00) mette a fuoco le principali distorsioni al pensiero di Basaglia che ne hanno inficiato la diffusione e la conoscenza e l'applicazione pratica non solo in Italia ma nel resto del mondo. Distorsioni del suo pensiero che l'hanno erroneamente assimilato a un antipsichiatra, a un ideologo, perfino a un filantropo.
Quanta distanza, invece, tra il pensiero e l'azione radicalmente antipsichiatrica di Laing e Cooper, mai agganciati a una prassi di liberazione e trasformazione collettiva, e senza ricadute concrete sulla legislazione psichiatrica del proprio paese, rispetto all'impresa basagliana che invece è “sopravvissuta alla sua morte” e che le ha avute eccome le ricadute legislative. Quanto è lontano Basaglia dalla “santificazione del folle” e dalla quasi identificazione dello psichiatra col malato, laddove i due – Laing e Cooper – arrivano a dividersi lo spazio – Kinksley Hall o Villa 21 – “salvo poi perire entrambi, antipsichiatra e paziente”. I due antipsichiatri che, scrive Saraceno, sono più vicini alla “tragedia di Artaud che alla battaglia di Basaglia”.
Basaglia non è interessato a santificare il folle, ma a farlo uscire “dall'ozio dello statuto di matto” per farlo “rientrare nel neg-ozio dell'inclusione sociale e dei diritti”.
Basaglia – ancora Saraceno – non fu ideologo. Fu un nemico dei modelli codificati, fu un trasformatore della realtà, senza mai fermarsi su un modello che potesse diventare la nuova tecnica, per questo motivo ricusò perfino la comunità terapeutica. Non ideologo ma pienamente scienziato, dove i suoi laboratori di trasformazione furono i manicomi di Gorizia e di Trieste. Non antipsichiatra non ideologo non filantropo. È sterile fare di Basaglia un filantropo indignato per la puzza di manicomio, per la condizione di internato del malato. La sua è pratica di trasformazione della realtà. Laddove il fenomenologo che lui accantona – non del tutto, lo radicalizza, semmai – e i fenomenologi del suo tempo, molti dei quali dirigevano manicomi senza discuterli, trovandoli sempre naturali – come la maggior parte dei fenomenologi del nostro tempo – sono splendidi inarrivabili narratori della realtà del folle, narratori ma non trasformatori, egli decise che questa realtà dovesse essere urgentemente trasformata, prima ancora che narrata.
Purtroppo, il pensiero basagliano, proprio per questo equivoco che connota Basaglia antipsichiatra ideologo e filantropo, a parte alcuni paesi, è misconosciuto. Vi sono paesi, nel mondo, alcuni contaminati direttamente dall'esperienza basagliana – come il Brasile, memore delle sue conferenze – altri in maniera indiretta, che stanno mettendo in atto processi di riforma, trasformazione, sviluppo, dei servizi di salute mentale, con spostamento del focus dell'intervento dall'ospedale al territorio. Ma nella maggior parte del mondo non vi è alcun processo di trasformazione nell'assistenza psichiatrica, se non aumentare enormemente la spesa sanitaria destinata all'acquisto dei costosissimi psicofarmaci di nuova generazione – e quanto è ignorante e in malafede questa politica, se si considera che a un costo sì tanto elevato dei nuovi farmaci non corrisponde una proporzionale efficacia? – domina il modello manicomiocentrico, oppure resta centrale l'ospedale generale a fronte di una limitata cura territoriale.
Questo succede nel mondo. Di questo ci dice il libro di Benedetto Saraceno Sulla povertà della psichiatria. Il titolo è bello, è puntuale. La povertà con la psichiatria c'entra, c'entra sempre. Perché la psichiatria è, essa stessa, povera. Povera quanto a epistemologia. Una tecnica che si spaccia per scientifica ma che è arrogante, e impoverisce molti psichiatri stessi che compiono, nonostante lei, nonostante la psichiatria, nonostante debbano dichiararsi psichiatri, un lavoro enorme con i pazienti. La povertà c'entra con la psichiatria perché dove c'è povertà c'è sofferenza psichica. Diceva Basaglia che il manicomio è l'ospizio dei poveri. In manicomio ci finisce chi non ha, perché il non avere risorse economiche lo fa non essere. Saraceno per dieci anni (1999-2010) ha diretto il dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze dell'OMS, per cui ha una visione planetaria come pochi del rapporto tra sofferenza psichica e povertà. Nel suo libro evidenzia la diversa aspettativa di vita tra un indiano un filippino e uno scozzese, i primi due muoiono circa venti anni prima. Nei paesi poveri si vive meno, e questo si sa. In realtà sono i poveri che vivono di meno. A Glasgow un abitante di un quartiere povero vive quasi trent'anni meno di un abitante di un quartiere ricco. Non è il paese, dunque, ma la povertà nell'ambito dello stesso paese a fare la differenza. Stesso discorso per la salute mentale. Povertà, disuguaglianze sociali, scarsa educazione e debiti sono fattori di rischio per depressione, abuso di alcol e droghe, suicidio, e altri disturbi psichici.
Stabilito che ci si ammala di più in povertà, il dato che riporta Saraceno è che se nei paesi poveri il 70% dei disturbi psichici non riceve una cura, nei paesi ricchi tuttavia la percentuale non è molto meglio, perché è il 50% che non viene curato.
Il dato interessante è che quando le persone ricevono le cure psichiatriche, sia nei paesi ricchi che poveri, queste, soprattutto per i casi più gravi – quelli che danno luogo a un ricovero – spesso sono umilianti, degradanti, disumanizzanti, lesive di diritti e dignità. La psichiatria hard dei paesi ricchi – anche se si attua in ospedali belli e attrezzati – è repressiva e concentrazionaria come la psichiatria hard dei paesi poveri. Come se la poca attenzione alla dignità e ai diritti umani fosse un dato intrinseco alla cultura psichiatrica, che non cambia a seconda che si applichi in Francia o in Marocco. Chiosa Saraceno: “C'è da chiedersi se sia meglio restare non trattati, se essere trattati significa essere mal-trattati”.
Continuo a dialogare a distanza con Saraceno attraverso il suo libro. Domanda: perché i processi di deistituzionalizzazione e presa in cura territoriale sono più complicati nelle città, quanto più grandi sono? Risposta: perché le grandi città sono “acceleratori di contraddizioni”. La sfida, qui, è rappresentata da “tre gruppi”: i giovani marginali che “sfidano il comune senso dell'ordine, della sicurezza” e vengono “fantasmizzati” e stigmatizzati dalla comunità egemone, le persone con disturbi psichici e i tossicodipendenti, che pure “sfidano la ragione comune e creano allarme”, e pure essi sono temuti come pericolosi, infine gli immigrati, che con le loro razze, lingue, religioni diverse alimentano pulsioni xenofobe e miti razzisti. Pertanto: marginali, matti e drogati, immigrati, rappresentano gli esclusi dalla città. Come fare per includerli? Come incorporare di nuovo questi vomitati dalla società?
Basaglia, con la sua critica all'ideologia escludente del manicomio, con la sua accusa dei luoghi a parte pensati apposta per escludere i miserabili – e la miseria di “chi non ha non è” – il pensiero lungo di Basaglia continua a esserci d'aiuto.
Domandarsi, scrive Saraceno, se un soggetto debole, per poter rientrare nella negoziazione, ovvero nel luogo dello scambio, debba diventare per forza forte, o invece può riuscirci anche da debole. Uno dei miti della riabilitazione psichiatrica è l'autonomia, il paziente che riesce a conseguire l'autonomia viene premiato, assecondando un modello riabilitativo darwiniano. Saraceno propone un diverso modello di riabilitazione, dove l'obiettivo non sia l'autonomia ma la partecipazione: non far sì che i deboli diventino forti e dunque autonomi, ma che i deboli possano stare insieme ai forti pur restando deboli. E propone alcuni principi, su cui costruire l'inclusione sociale dei deboli e dei poveri e degli esclusi. Tre assi.
Anzitutto l'abitare. Lavorare per includere l'escluso non può non cominciare dal provvedere a una casa dove abitare. Questo, quando si decide la terapia del paziente, pillole o colloqui, sembra marginale. I malati psichici quando sono gravi o acuti o cronici quasi sempre non abitano case ma “stanno” in luoghi anomici, negli innumerevoli non luoghi della psichiatria, SPDC ospedalieri cliniche private o convenzionate residenze comunità perfino dormitori, luoghi dove si sta, sopra o attorno a un letto, non si abita.
Non si può non cominciare un progetto terapeutico eliminando inconsciamente l'abitare. Stare si sta anche in carcere o su una barella di pronto soccorso. Si sosta. Abitare significa casa, casa è dopo la pelle una seconda pelle che struttura l'io di una persona. Mettiamo uno psicotico, senza confini dell'io, quanto può sentirsi scoperto, a sostare in un luogo dove ha solo un letto. Quanto può sentirsi alla mercé del mondo? Trasparente, esposto. “Tutti mi sentono” mi diceva una ragazza che sentiva le voci. Una casa è una seconda pelle, è una difesa, una corazza che rinforza una fragile identità.
I programmi detti di housing first, pensati apposta per dare a persone con disturbi psichici o senza casa una casa, sono di per sé terapeutici. Perché la casa deve essere data anche se la persona rifiuta le cure, non come premio ricompensa per la sua adesione alle cure. Perché la casa gli spetta anche se non decide di divezzarsi da alcol e droghe. Nella prospettiva che con una casa, e con una ritrovata contrattualità sociale, l'adesione a un programma terapeutico o il divezzamento da alcol e droghe sarà possibile, o verrà da sé.
Altro principio dell'inclusione è scambiare le identità. Cosa significa. Significa relazioni. Non necessariamente terapeutiche. Relazioni e basta. Significa vivere l'agorà. Scambiare parole con altre persone. Significa il mercato, cioè il luogo dove si fa il neg-ozio, dove si combatte si vince si antagonizza l'ozio, l'ozio che è solitudine che è ripiego nel mondo proprio, l'idios kosmos eracliteo, il mercato l'agorà è il luogo dove può declinarsi il koinos kosmos, antidoto alla vita psicotica. Ecco che se un luogo così non c'è, un servizio di salute mentale non medicale lo crea. Ne rappresenta un eccellente surrogato. Così, raccontano Franco Rotelli e Peppe Dell'Acqua, era stato concepito il centro di salute mentale triestino, luogo di scambio, non ambulatorio dove si erogano tecniche, psicoterapie o farmaci o pensioni, ma mercato, souk, piazza, bar, centro sociale, luogo sempre aperto anche di notte perfino a Natale e Capodanno dove trovare qualcuno con cui mettere in gioco la propria identità.
Altro principio per l'inclusione è il lavoro. Lavoro come mezzo di guadagno, di sostentamento, di autorealizzazione. Mai più l'ergoterapia che nella maggior parte dei centri diurni luogo di parcheggio propaggini manicomiali ancora si eroga sotto forma di fabbrica di ceramiche bricolage e altri prodotti da mercatini. Sì alle cooperative sì alle imprese sociali mai più terapia occupazionale. E dopo essere stati liberati dal manicomio è necessario diventare liberi di abitare, di mettersi in gioco, di scambiare relazioni, di lavorare, di essere cittadini con diritti, non più utenti infantilizzati.
Insomma, più che riabilitare gli individui, dopo aver riabilitato, in parte, la psichiatria, occorre riabilitare la società. Ecco cosa ci racconta, Benedetto Saraceno, in questo libro necessario.

Piero Cipriano


Errico Malatesta a Roma (e non solo)/
Atti di un convegno

Il libro curato da Roberto Carocci (Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, a cura di Roberto Carocci, BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 178, € 18,00) nasce dal convegno “Errico Malatesta. Un rivoluzionario a Roma” organizzato nel maggio del 2016 dall'Associazione di idee I refrattari al Cinema Palazzo Occupato a Roma. Il convegno ha visto una partecipazione di circa 200 persone e “una tensione che forse nessuno si aspettava e che ha costituito il fattore più prezioso e più stimolante dell'intero evento” (p.12).
Il libro riporta, riviste e ampliate, le relazioni esposte al convegno. I contributi pongono un'attenzione particolare al rapporto intercorso tra Malatesta e la città di Roma nel periodo liberale e durante la dittatura fascista, ma al tempo stesso esplorano questioni più profonde: il rapporto tra anarchici e il movimento operaio, la questione della violenza e del suo utilizzo, le forme di resistenza allo squadrismo, le interpretazioni e le letture che gli anarchici hanno dato del fascismo e della sua dittatura. Si tratta di interventi che pongono domande e indicano spunti per ulteriori ricerche, oltre a suggerire connessioni con temi di estrema attualità, e questo è uno dei punti di forza di questa pubblicazione.
Nel primo contributo Carocci offre un'utile panoramica delle idee di Malatesta sul rapporto degli anarchici con il movimento operaio e con le organizzazioni sindacali sottolineando come Malatesta, pur critico delle teorie sindacaliste (si veda il dibattito con Monatte sullo sciopero generale al congresso anarchico di Amsterdam del 1907) sia un forte sostenitore della partecipazione degli anarchici all'associazionismo operaio. Il pezzo si sposta poi sul rapporto di Malatesta con il movimento anarchico romano ed offre diversi spunti di riflessione. Il primo è la raccomandazione di usare cautela quando si investigano le divisioni all'interno del movimento anarchico romano su questioni di principio come la partecipazione alla lotta elettorale, una esortazione che va estesa anche ad altre realtà come quelle delle comunità anarchiche all'estero poiché il movimento anarchico era comunque molto fluido e spesso a forti divisioni si sovrapponevano anche forme di collaborazione. Un altro elemento di riflessione, sia dal punto di vista storico ma anche della militanza, che emerge anche nel contributo di Gentili, è la capacità di Malatesta di legare e costruire rapporti strettissimi con gli abitanti dei quartieri dove viveva, non solo a Roma, ma anche per esempio ad Ancona o a Londra dove fu la mobilitazione popolare del quartiere di Islington ad impedirne la deportazione nel 1912.
Ugualmente stimolante è il contributo di Sacchetti che analizza l'evoluzione del pensiero di Malatesta sul ruolo e l'uso della violenza nell'azione rivoluzionaria. Il saggio individua e analizza i passaggi chiave di questa elaborazione partendo dal superamento del metodo cospirativo di tradizione risorgimentale con quello dell'insurrezione di massa teorizzata da Malatesta nel 1884, per passare al sindacalismo rivoluzionario ed arrivare dopo l'attentato al Teatro Diana nel 1921 al concetto di “guerra civile dispiegata”, idea che andava ad agganciarsi anche all'esperienza degli Arditi del popolo nella lotta contro il fascismo. Il saggio si sofferma soprattutto sul primo di questi passaggi chiave focalizzando l'attenzione sui tentativi insurrezionali degli anarchici italiani negli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento e discute, necessariamente in breve, il passaggio al sindacalismo rivoluzionario, il regicidio di Monza, la Settimana Rossa e l'attentato al Teatro Diana, suggerendo tuttavia diverse aree da approfondire.
All'interno del saggio Sacchetti sviluppa un'importante riflessione sull'inadeguatezza del termine “terrorismo” come strumento analitico e metodologico. Quest'inadeguatezza non riguarda solo lo studio di Malatesta, ma anche la sua applicazione al movimento anarchico in generale che, in modo perlomeno discutibile, è stato recentemente indicato su riviste accademiche come precursore del terrorismo jihadista e di Al-Qaeda (si vedano gli articoli sulla rivista “Terrorism and Political Violence”, 20:4, 2008).
Più breve il contributo di Gentili incentrato su Malatesta e gli Arditi del Popolo che sottolinea lo stretto rapporto che l'anarchico intrattenne con le sezioni romane dell'organizzazione antifascista, nonostante vi facessero parte molti ex interventisti di sinistra e legionari fiumani. Gentili rimarca l'appoggio che l'anarchico diede al progetto politico-militare dell'arditismo, a differenza dei dirigenti socialisti e comunisti che ne boicottarono l'organizzazione e quindi l'efficacia.
L'analisi delle interpretazioni e delle letture che Malatesta diede del Fascismo e di come combatterlo è il fulcro del contributo finale che si incentra sull'ultimo decennio della vita di Malatesta, dal suo trasferimento nella capitale nel 1922 fino alla morte nel 1932. Malatesta, come ricordato anche nel saggio di Gentili, era comunque un convinto fautore della necessità di organizzare, sia politicamente che militarmente, la difesa contro il Fascismo. Bertolucci offre un'acuta analisi delle letture elaborate al tempo non solo da Malatesta ma anche da altri esponenti di spicco dell'anarchismo italiano - Fabbri, Berneri, Bertoni e Borghi - che vedono il Fascismo come prodotto della Prima Guerra Mondiale, ne denunciano la funzione di “controrivoluzione preventiva” in difesa degli interessi di industriali e agrari, e ne intuiscono la natura eversiva e anticostituzionale. Al tempo stesso il saggio sottolinea anche i limiti di queste analisi e l'incapacità di comprendere appieno le profonde differenze del Fascismo dal precedente sistema liberale, come per esempio la sua capacità nella mobilitazione delle masse, o nel percepirlo come un fenomeno di carattere temporaneo.
Un punto di interesse che lega il contenuto del libro con la realtà odierna è la lettura di Malatesta del Fascismo come caduta etica. Per Malatesta una delle ragioni del successo del fascismo era dovuta “alla mancata rivolta morale contro l'abuso della forza brutale, contro il disprezzo della libertà e delle dignità umana che sono la caratteristica del movimento fascista” (p. 92). Caduta di carattere etico e morale che oggi sembrerebbe dilagare di fronte alla questione dell'immigrazione, del razzismo, della violenza di genere e che rende evidente quanto difficile sia da contrastare un tale processo. La seconda parte dell'intervento si sviluppa attorno al giornale Pensiero e Volontà i cui scritti rappresentano “il maggior lascito, dal punto di vista teorico” di Malatesta che “forse possono essere anche interpretate come una sorta di testamento politico” (p.76).
Il libro si conclude con un'utile appendice – per gli studiosi e non – dell'indice del giornale Pensiero e Volontà che permette di avere una panoramica dei temi trattati nel giornale e dei suoi principali collaboratori. Il libro è corredato da alcune affascinanti fotografie che facevano parte della mostra che ha accompagnato il convegno.
La pubblicazione di questo volume offre sia agli studiosi sia ai lettori che si avvicinano per la prima volta a Malatesta e al suo pensiero uno stimolante strumento di ricerca e conoscenza che offre molti spunti di riflessione soprattutto perché indaga un periodo della vita di Malatesta e il suo rapporto con la città di Roma che deve essere ancora adeguatamente studiato. E questo libro rappresenta un ottimo primo passo in questa direzione.

Pietro Di Paola


Federazione Anarchica Italiana/
Una storia d'amore e di anarchia

Il corposo volume Con l'amore nel pugno. Federazione Anarchica Italiana. Storia e documenti (1945-2012) (a cura di Giorgio Sacchetti, Milano, 2018, Zero in condotta, pp. 367, € 25,00) ispirato nel titolo a una nota poesia di Leo Ferré è opera di quattro autori e affronta la storia della terza fase dell'anarchismo, qui racchiusa cronologicamente tra 1945 (anno della costituzione della FAI) e 2012 (anno delle mobilitazioni No MUOS e No terzo valico), attraverso il filo conduttore della storia della Federazione Anarchica Italiana. Esso si compone prima di tutto di una Nota del curatore, nella quale si chiarisce senza indugi oggetto, obiettivo e metodo del volume – mettere “sotto rigorosa osservazione” la FAI “in quanto soggetto politico e culturale, archetipo di sociabilità libertaria del secondo Novecento e in quanto comunità” (p. 7) tendendo ad una “Storia reale che deve essere fatta e raccontata anche attraverso fonti diversificate, «ufficiose» ma vive, raccolte e interpretate con criteri multidisciplinari” (p. 8) –, e vengono date al lettore le coordinate necessarie per orientarsi nella lettura dei tre grandi capitoli “descrittivi” (p. 7) e “corrispondenti ad altrettanti cicli dell'anarchismo” (p. 9), che seguono.
Il primo e il secondo capitolo, intitolati rispettivamente Eretici e libertari. FAI: Dal dopoguerra al Sessantotto (1945-1973) e I nuovi anarchici. FAI: Dagli anni Settanta alla «fine del comunismo» (1974-1991) sono opera di Giorgio Sacchetti, che è anche il curatore del volume. Lasciatosi alle spalle il buio della guerra e le vicende resistenziali, l'autore riprende la storia del movimento che ora – scrive – si “rigenera in una sorta di «neo anarchismo» attraverso contaminazioni culturali con la sinistra eretica degli anni Cinquanta, con i movimenti libertari del decennio successivo” (p. 15) e che tra le questioni salienti che lo attraversano annovera, appunto, la costituzione della FAI, sin dall'inizio percorsa da divisioni interne quanto spinte provenienti dall'esterno. Sacchetti ripercorre così il fitto elenco di congressi, incontri e discussioni, che acquisiscono corpo e significato grazie al sapiente intreccio qui proposto con le vicende che attraversano la storia politica nazionale e internazionale. Il '68 merita un paragrafo a sé stante: “per la Federazione è [...] il periodo di metabolizzazione delle rotture dolorose” e per il movimento il tempo di un evidente ripiegamento su sé stesso (p. 43), ma “il rapporto fra «neo-anarchici» e anarchismo otto/novecentesco si consolida, ed è questa una tappa fondamentale per future azioni comuni e reciproche «contaminazioni»” (p. 46), che anticipa la manifestazione di “pratiche libertarie diffuse che, sebbene non specificatamente promosse dal movimento anarchico, si dimostrano capaci di coinvolgerlo almeno in parte, se non di travolgerlo”, con sorprendenti effetti rigeneratori (p. 49). Il clima incandescente con cui si arriva e che segue i fatti di Piazza Fontana segnerà una battuta di arresto per il movimento, che, mantenuto “a tutti i costi [...] sul banco degli accusati”, ripiega su posizioni difensive (pp. 57-58), mentre la FAI registra il maggior ricambio generazionale fra le fila dei suoi militanti attivi ed è costretta “a ridiscutere le modalità di rapporto sia con le formazioni dell'estrema sinistra italiana [...], sia con i gruppi giovanili anarchici stranieri” (p. 65). Con il 1973 – termine ultimo dell'”«età dell'oro» delle società occidentali” (p. 72) – si apre il secondo capitolo del volume e “una nuova era del capitalismo” (p. 72) nella quale “l'occidente si resetta” in direzione di una globalizzazione mondiale (p. 73). Ma di questo capitolo mi limito a segnalare il merito di aver dato qualche spazio a temi di grande impatto sociale riportando, ad esempio, gli interventi di Aurora Failla e Umberto Marzocchi sulla legge Fortuna-Baslini, e di aver almeno citato il punto 5 del XIII Congresso FAI (1977) “Femminismo e suo rapporto con le lotte sociali” (p. 79), anche se avrebbe meritato qualche cenno sia la deludente mozione che ne seguì sia le battaglie politiche delle militanti, in questi anni attente ed attive guardiane della rivoluzione civile in atto (si vedano al proposito i documenti 33.1-4 del CD); eccellente anticipazione del capitolo a venire la ricostruzione di luoghi e momenti delle prime lotte ecologiche (pp. 93 ss.) che, inaugurate il Italia con il disastro di Seveso (1976), tanto spazio avrebbero avuto nella storia più rece te del movimento.
Il terzo capitolo, Libertà, uguaglianza, autogestione. FAI: Movimenti sociali antiautoritari e globalizzazione (1992-2012), opera di Massimo Varengo, seguita il racconto a partire dal 1992 con l'apertura della sessione straordinaria del XX Congresso della FAI, l'inizio della stagione di Tangentopoli, la fine dell'Unione Sovietica e la caduta del muro di Berlino; è soprattutto una sfida, prima di tutto storiografica, che rilancia e anzi alza la posta rispetto alle ultime e nefaste analisi sul tema. Il movimento, e la FAI, si sintonizzano con le emergenze politiche del momento e così mentre immigrazione e mondializzazione diventano gli slogan politici del potere, antirazzismo, ambientalismo, anticlericalismo e antimilitarismo tornano prepotenti emergenze dell'attivismo dei militanti anarchici.
Chiudono il volume una utile e puntuale rassegna cronologica e biblio-documentaria – Cronologia e Bibliografia e fonti – a cura di Antonio Senta e un corposo apparato di materiali – Iconografia e Documenti – offerto ai lettori (insieme al volume in formato pdf) in CD, con relativo Soggettario per la consultazione, frutto del paziente e certosino lavoro di Massimo Ortalli e del supporto tecnico di Claudio Mazzolani; sarebbe a mio avviso utilissimo mettere on line questi strumenti di lavoro per sfruttarne appieno il potenziale e invitare alla lettura dei capitoli storiografici. Curiosa, poi, la sezione intitolata Gli autori, che va oltre i dati meramente professionali e colloca politicamente gli autori che ora diventano «osservatori partecipi» (p. 14) di questa storia, quindi non solo studiosi del movimento anarchico ma anche soggetti attivi che hanno attraversato e sono stati attraversati da queste vicende, quindi fonte di studio essi stessi.
Il volume non è sicuramente di agile lettura, la dovizia di dettagli con cui vengono descritti gli appuntamenti ed elencati i temi, del movimento in generale e della FAI in particolare, possono scoraggiare un lettore svagato, ma è indiscutibilmente uno strumento seducente per gli appassionati e chi intende approfondire la storia degli anarchici dal 1945 al 2012. Per questo non limiterei la sua importanza alla sola analisi della FAI, ma estenderei il suo valore a quell'ormai ampio apparato bibliografico che vede come termine ante quem il testo di Pasquale Iuso (Gli anarchici nell'età repubblicana, BFS 2014) e termine post quem l'ultimissimo libro di Fabrizio Giulietti (L'anarchismo in Italia, Galzerano editore 2018) e che ora attende monografie più attente a temi specifici, e perché no persino al femminismo anarchico.

Elena Bignami


Luigi Galleani/
Un anarchico militante sulle due sponde dell'Atlantico

Il genere biografico, fra tutti, è quello che più ci intriga. Perché connette le coordinate spazio-temporali in maniera quasi sempre sorprendente; perché, stabilendo un punto di equilibrio fra “i tre tempi” della storia (geografico, sociale, individuale) ci risolve metodologicamente il problema dei nessi singolare / plurale e del rapporto tra iniziativa personale e necessità sociale. Perché, infine, mentre aggiunge la sua insopprimibile dimensione esistenziale, ci fa guardare i fatti non solo con gli occhi del protagonista, ma anche immergendoci a pieno nello spirito dei tempi.
Punto di arrivo di un approfondito e prolungato lavoro di ricerca, questo volume si inserisce nell'ambito di una ricca e importante produzione scientifica dell'autore volta a indagare, con particolare acribia, sia il tema dell'anarchismo di lingua italiana negli Stati Uniti che la nota vicenda di Sacco e Vanzetti. Da segnalare, in tal senso, la curatela dell'edizione italiana (sempre con Nova Delphi) del famoso libro di Paul Avrich dedicato ai due emigrati italiani assassinati sulla sedia elettrica nel 1927.
In questa nuova, corposa, pubblicazione (Luigi Galleani. L'anarchico più pericoloso d'America, introduzione di Sean Sayers, Nova Delphi Libri, Roma 2018, pp. 290, € 14,00) Senta ricostruisce vita e pensiero dell'anarchico “più pericoloso d'America”: Luigi Galleani (1861-1931).
Per mezzo secolo sulla breccia del sovversivismo anarchico e quindi dell'antifascismo, pubblicista e autore prolifico, rivoluzionario votato all'azione febbrile egli marca, con la sua presenza e le innumerevoli iniziative politiche e culturali che promuove in differenziate situazioni ambientali, il radicalismo operaio e socialista in due secoli e tre continenti. Direttore e fondatore di importanti giornali come «Cronaca Sovversiva», autore di veri e propri best seller per l'epoca – tra cui La fine dell'anarchismo? e La salute è in voi! (manuale per dinamitardi) – il protagonista è noto agli studiosi di anarchismo come capofila di quella corrente di pensiero del movimento che, vantando migliaia di aderenti negli Stati Uniti, prendeva da lui il nome soprattutto caratterizzandosi per le posizioni risolutamente violentiste e insurrezionaliste.
Su «Carmillaonline» Roberto Carocci, recensendo questo medesimo titolo, ha opportunamente notato come Galleani, “a differenza di Malatesta, introiettò l'utilizzo della violenza come elemento positivo” e necessario. In tal senso – prosegue Carocci – “gli episodi furono molteplici, come il reiterato spingere alla rivolta gli scioperi operai, così come l'inviare ripetutamente numerosi pacchi bomba a giudici, industriali, poliziotti, sindaci ed esponenti governativi”. Ma si deve, a onor del vero e per l'opportuna contestualizzazione, precisare che erano gli anni della cosiddetta “paura rossa” e delle forti, e altrettanto violente, repressioni statali antisovversive.
Accurata e completa questa biografia, seconda dopo quella pubblicata da Ugo Fedeli nel 1956 (Quarant'anni di lotte rivoluzionarie), non solo colma un vuoto storiografico inglobando e aggiornando anche testi di autori precedenti che, in varia forma e misura, si erano occupati di studiare e/o raccontare la vita dell'intellettuale vercellese – da Pier Carlo Masini a Mariella Nejrotti, a Marco Scavino più recentemente sul Dizionario biografico degli anarchici italiani – ma si qualifica soprattutto come originale ricerca condotta compulsando un'importante mole di carte d'archivio. Si va dai Jacques Gross Papers e dai Fedeli Papers custoditi all'Istituto di storia sociale di Amsterdam al fondo L'Adunata della Boston Public Library, dai documenti di polizia dell'Archivio Centrale dello Stato a quelli del Ministero degli affari esteri a Roma, dai National Archives di Washington alla Gallica di Parigi, all'Archivio Berneri di Reggio, all'ASFAI di Imola e al Centro Studi Libertari di Milano... Il volume si struttura in ben trenta capitoli nei quali si snoda la vita errabonda di Galleani, agitatore senza frontiere, così suddivisi: una prima parte dedicata all'attività svolta in Italia; un intermezzo sul suo soggiorno in Egitto; una seconda parte relativa alla presenza in America (fondamentale e che dura quasi vent'anni); e un epilogo sul ritorno in Italia (dal “biennio rosso” al fascismo). L'introduzione è interessante perché racchiude, insieme, memoria di famiglia e fonti orali. Ne è autore Sean Sayers, biografo mancato del suo nonno materno.
“Qualche anno fa – scrive Sayers – ho cominciato a compiere delle ricerche più sistematiche su mio nonno [...] Quando mi sono reso conto di che personaggio importante e interessante fosse, ho deciso di scrivere la sua biografia, così iniziai a leggere e a raccogliere materiale. Ma lavoravo da solo e presto fui sopraffatto dall'enorme mole di informazioni che andavo accumulando e dalla difficoltà del compito in cui mi ero imbarcato. Stavo iniziando a disperare quando venni messo in contatto con Antonio Senta che, come me, stava facendo delle ricerche su Galleani e voleva scriverne la biografia. È molto più qualificato di quanto lo sia io e presto concordammo che sarebbe stato lui a scrivere mentre io l'avrei aiutato con le ricerche, se e quando avessi potuto. Questo libro ne è l'eccellente risultato...”.

Giorgio Sacchetti


Autobiografie/
Donna curda dalle mille vite (e dai tanti miracoli)

Nella lingua curda esiste una persona verbale che somma in sé le persone della lingua italiana, dall'io al loro, includendole tutte in un'unica azione. Una sorta di collettività estrema che va oltre il “noi”, perché non lo contrappone alle altre persone plurali; al contrario, lo ingloba in un insieme capace di comprendere ognuno, intraducibile letteralmente ma pieno e ricco di suggestioni e utopie.
L'ho imparato leggendo una nota a margine di una poesia di Ezel Alcu, a pagina 92 di Senza chiedere il permesso – il mondobastardo (Edizioni END, Gignod - Ao 2018, pp. 124, € 12,00). Mi ha colpito molto, mi è sembrato che questa peculiarità linguistica potesse spiegare non solo quel verso, ma il libro e con esso il mondo, la terra, la storia di Ezel; e insieme, la nostra. D'altronde in questo libro tutto, ma proprio tutto, è collettivo e plurale.
È un testo di prosa, poesia, narrazione e fotografia; è un'autobiografia scompigliata e cruda, drammatica e ironica; narra di rivolta, fuga, gioco e gratitudine; la sua autrice ha due nomi, due date di nascita, due paesi. Il libro di Ezel è molti libri, perché Ezel è molte donne. Né potrebbe essere diversamente, dato che a 28 anni ha già vissuto l'equivalente di molte vite.
Ezel Alcu è un'attivista curda, rifugiata politica in Italia dal 2009.
Nata in una famiglia di attivisti segnata da tortura fuga e povertà, Ezel è l'ottava di dieci figli, la quinta femmina. “Figli da battaglia”, come li definisce il padre. Da crescere a pane (poco) e coraggio, per dare forza al popolo curdo e cuore alla sua rivoluzione.
Così la storia di Ezel è la storia tenera scanzonata di una bambina in precoce crisi d'identità a causa dei suoi due nomi – Ezel, che in lingua farsi significa “universo infinito”, e Ceylan che significa “gazzella” – con un padre politico e una madre dittatrice; ed è insieme la storia drammatica e difficile di un popolo tormentato da guerre e massacri, da sempre alla ricerca della propria autonomia e da sempre perseguitato da chiunque, da Saddam Hussein all'Isis, da Erdogan all'occidente.
Una terra-non terra, l'antica Mesopotamia, bellissima e ricca di suggestioni; aspra e montuosa, distesa tra fiumi leggendari, orlata di monti mitologici, come l'Ararat – che in lingua turca, guarda caso, significa “montagna del dolore”; fertile di grano e di cultura millenaria.
Terra senza dignità geografica, senza un posto ufficiale nelle carte e nei mappamondi, condannata ad esistere clandestinamente e solo in virtù del suo popolo fiero e combattivo, protagonista di una rivoluzione che non ha eguali nel mondo – poiché le comprende tutte.
Un paese che, come scrive Ezel, da qualche anno a questa parte sta vivendo la terza guerra mondiale, scoppiata per il petrolio, raccontata poco e male dai media occidentali, gestita da burattinai più o meno oscuri che non amano sporcarsi le mani e preferiscono servirsi di strumenti disumani come l'Isis, cancro cresciuto da cellule nutrite di paure e stereotipi. Una guerra “che non si combatte più dichiarandosi, ma facendo finta di non combattere... magari le nazioni non schierano eserciti, ma foraggiare chi ci bombarda equivale a fare la guerra e questo è ciò che succede”.
Migliaia e migliaia di morti, giovani, donne e bambini; la massa spettrale di interi villaggi scomparsi, lo sguardo impietrito e la voce furiosa di chi sopravvive, fiumane di persone costrette ad emigrare, usate come merce di minaccia e di scambio, private di radici e dignità.
“Non sono una ragazza piena di miracoli” dice di sè Ezel nella prefazione. Ma se non è un miracolo, senza dubbio quella che si sprigiona dai suoi occhi scuri è un'energia che pare inesauribile, tremendamente contagiosa.
Finita in carcere all'età di 13 anni, per vincere la paura – tanta – Ezel si inventa un gioco:
“Quando cadeva il buio, mi mettevo vicino alla finestra dove potevo vedere solo il cielo e i condomini altissimi che stavano vicino al carcere. Cominciavo così a sentire il fischietto del militare e contavo dodici fischi: ogni quindici minuti i militari si comunicavano con il fischietto per dire che tutto andava bene. Con il buio facevo io il primo fischio poi seguivano gli altri dodici fischi dei militari, così succedeva un casino perché i fischi erano tredici, non più dodici, e continuavo a fischiare così tutta la notte”. Niente male, come debutto nell'età dell'adolescenza.
Da lì in avanti (non che prima non lo fosse) la sua vita diventa una sequenza di (dis)avventure senza fine: fughe, scontri con la polizia, arresti, dolore per la perdita violenta di tanti compagni, altro carcere con l'accusa di essere una kamikaze. Finché la famiglia la spinge a trasferirsi in Italia; così Ezel a 19 anni diventa una curda valdostana.
Rifugiata in un paese dove “non c'è lavoro neanche per gli italiani”, in mezzo a tanta bella gente che “non è razzista ma”. Tra le Alpi di Heidi studiate a scuola, in una città che ai suoi occhi è minuscola (Aosta), dove il centro è finito dopo cento passi. Dove il caffè è la colazione, non una sciccheria borghese come nel suo paese, e la pasta non è una torta, come nella sua lingua, ma è “makarna”, i maccheroni. Dove impara a dire le parolacce e un sacco di cose che non si possono dire, e chissà perché poi, dato che invece si dicono. Scontrandosi con una lingua che si ostina a dividere i generi, il maschile dal femminile, mentre Ezel al genere non attribuisce importanza alcuna.
Perché lei è per l'uguaglianza, lei dà importanza all'essere vivente, non al genere! “Mia sorella mi dice: Vai a provare. L'Europa è bella, è grande l'Europa... la democrazia e l'uguaglianza, i servizi sociali e i diritti umani!”
Ezel ora lo sa, che non è proprio così. Che l'Europa è come “la scena di un circo: quando si chiudono i tendoni non si parla più di democrazia”. Lo ha imparato in fretta, che pure in Europa e in Italia si deve lottare ogni giorno per mantenere conquiste che parevano acquisite, riconquistarsi diritti dati ingenuamente per scontati. Lo sa, lo ha imparato, abbracciando a cuore aperto le ribellioni di qui, i nostri no, le lotte per riprenderci la terra che ci appartiene, la Valsusa, l'acqua, l'umanità.
Ezel lo ha imparato, noi dobbiamo muoverci. Dobbiamo inventarci anche noi, nella nostra lingua, un pronome collettivo estremo. Perché, tra le altre cose, Senza chiedere il permesso è dedicato “a chi piace combinare guai”.
A Ezel piace. A noi pure, piace, lo so.
Spas, Ezel, grazie per questo libro, per la tua rabbia e per la tua incoerente allegria.

Claudia Ceretto


Il '68 in Italia/
Movimento (anarchico) e movimenti

Diego Giachetti con il suo lavoro Il '68 in Italia le idee, i movimenti, la politica (BFS edizioni, Pisa 2018, pp. 218, € 20,00) completamente rinnovato rispetto alla edizione di vent'anni fa, ha scritto uno dei migliori libri sul quel periodo. La bibliografia, l'indice dei nomi citati, dei periodici, dei movimenti e dei partiti politici aggiungono un ulteriore pregio al libro, per chi volesse approfondire le diverse tematiche trattate.
L'autore ritiene che il '68 sia stata la conseguenza della scolarizzazione di massa e dei nuovi equilibri geopolitici dovuti alle migrazioni di massa degli anni '50/'60 dal Sud al Nord, nel triangolo industriale del nostro Paese.
In sintonia con il vento di rivolta contro l'autoritarismo dei padri e delle società ingessate dell'epoca, che andava sollevandosi fra la gioventù studentesca, sia ad Est che ad Ovest della cosiddetta cortina di ferro, anche in Italia, nel '67, nacquero movimenti giovanili ribelli. Essi si riferivano alle esperienze dei Provos olandesi, dei Beats nordamericani, sentivano l'eco che proveniva dal movimento della libera parola iniziato alla Università di Berkeley nel 1964. Successivamente prevalse l'aspetto politico della contestazione.
Il lavoro si articola attorno a diversi nuclei tematici, dei quali qui se ne citano soltanto alcuni: l'opposto giudizio sulle conseguenze del '68, le ragioni della nascita della sinistra extraparlamentare, il fenomeno del leaderismo e la critica puntuale degli anarchici al movimento studentesco inteso come mezzo di affermazione in funzione dirigente del ceto medio intellettuale a scapito delle precedenti classe egemoni, le relazioni tra il '68 studentesco ed il '69 operaio, la figura sociale dello studente e quella del coetaneo operaio, l'operaio-massa della catena di montaggio della FIAT, la repressione, la strategia della tensione, le differenze tra il movimento del '68 e quello del '77, i caduti dell'uno e dell'altro movimento, la nascita e l'evoluzione dei gruppi extraparlamentari di sinistra e del terrorismo di sinistra, il fenomeno delle Riviste che hanno preceduto ed accompagnato il '68 e che sono state il terreno di formazione dei leader del '68.
Molto interessante è il capitolo “La sociologia dei gruppi della nuova sinistra”, che mostra in modo chiaro la complessità e le intricate vicende dei gruppi. L'autore spiega che la nascita dei gruppi fu dovuta all'esigenza di non vedere dispersa l'imponente disponibilità studentesca dopo l'apice di partecipazione alle occupazioni e alle manifestazioni sulle questioni studentesche ed esprime un giudizio positivo su questo tentativo di organizzazione dei vari gruppi marxisti della sinistra rivoluzionaria. Attribuisce la loro disgregazione e dissoluzione all'emergere del femminismo, della nuova tipologia giovanile e alla sconfitta nelle elezioni politiche del 1976, quando i gruppi si contarono sul piano parlamentare.
Agli anarchici sono riservate pagine molto chiare che fanno giustizia ad una presenza nel movimento, quasi sempre tenuta sotto traccia nelle trattazioni sul '68. Non sono dimenticati i radicali e i movimenti dei diritti civili. L'ultimo capitolo “Dal '68 al '77”, che tratta il passaggio da un movimento all'altro, che definisce i caratteri salienti del movimento del '77 e che individua un confronto tra i due movimenti, conclude il libro nel quale non si evidenzia alcun intento celebrativo dell'anno di svolta della società contemporanea.
L'autore fornisce ragioni e spiegazioni di come questo grande movimento di rinnovamento esistenziale si sia politicizzato in Italia e di come, diversamente dal Maggio Francese, sia durato pressoché dieci anni, cosi da meritarsi l'appellativo di maggio strisciante.
Diego Giachetti affronta nodi storiografici, non ancora sciolti, concernenti la domanda su che cosa sia stato il '68 in Italia. Un movimento che interessò buona parte degli anni '70, al quale il blocco di potere dell'epoca rispose con la feroce repressione che conosciamo, recuperandone gli aspetti più appariscenti e di costume. Non si può che condividere la precisazione di Giachetti che scrive: “L'odierna società è nata dalla sconfitta della contestazione dei movimenti degli anni '60”.
A questo punto ci si chiede se il non avere raccolto in termini progressivi, da parte della classe dirigente dell'epoca, la grande partecipazione civile e politica che il '68 rappresentò per quasi 10 anni, non sia stata davvero un'occasione mancata per la modernizzazione e lo sviluppo civile del nostro Paese.

Enrico Calandri


Emigrazione anarchica/
Calabresi in Argentina

Il libro di Paolo Attanasio e Angelo Pagliaro (Libertari cetraresi in Argentina. Dall'Aggruppazione libertaria cetrarese a Umanità Nova (1923-1932), Edizioni Erranti, Cosenza 2018, pp 256, € 15,00) ricostruisce la storia del “Gruppo libertario cetrarese” e dei suoi aderenti nel decennio a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, precisamente tra il 1923 e il 1932. È un periodo cruciale, quello che coincide con la fase matura dell'associazione, la più consistente e rilevante tra quelle create dagli anarchici calabresi in Argentina.
Negli stessi anni, infatti, il paese latinoamericano vive la fase tormentata del passaggio dai governi del radicale Hipolito Yrigoyen, che sembra farsi interprete dei bisogni delle classi popolari suscitando attorno a sé un grande entusiasmo a quello ben più autoritario di José Fèlix Uriburu, salito al potere con il golpe del 1930 e dimessosi appunto nel febbraio 1932. Mentre in Italia, negli stessi anni, il fascismo passa dalla parvenza di legalità successiva alla Marcia su Roma alla vera e propria dittatura edificata dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti. Gli italiani che animano l'associazione vivono dunque, oltre alla loro condizione di esuli, una realtà politica che, sia nella vecchia patria che nella nuova, gli è avversa e contro la quale combattono.
I calabresi fondano in Argentina associazioni (molte delle quali, come il nucleo cetrarese, si richiamano nel nome ai paesi d'origine, ma hanno una forte connotazione politica), giornali, sodalizi artistici; creano occasioni di incontro e iniziative culturali, animano le discussioni politiche ed entrano ben presto nell'immaginario collettivo come emigrati e ribelli e con questa connotazione vengono per lo più descritti dalla letteratura e dai canti popolari. Nel testo, che riprende il filone di ricerca già percorso dai due studiosi, le vicende del gruppo si intrecciano alle storie di vita dei suoi affiliati, così come le storie di vita dei più noti Errico Malatesta, Pietro Gori e Severino Di Giovanni convivono con quelle dei molto meno noti e con quelle dei senza storia.
In tal modo, Ciccio Barbieri, Angelo Antonucci, Salvatore Niesi, Salvatore Cortese e Francesco Attanasio, assieme a tanti altri, compongono l'umanità diversificata e complessa, a tratti sofferente, nella quale tutti hanno uguale dignità e concorrono, tra vittorie e sconfitte, tra fraternità e divisioni, tra scontri e riappacificazioni, al tentativo di realizzare il grande sogno. Accanto ai nomi, ci sono i volti. Il testo è infatti arricchito da numerose foto d'epoca che mostrano le facce, l'atteggiamento, in parte il linguaggio non verbale dei corpi, l'abbigliamento, gli elementi del paesaggio, tutte testimonianze non accessorie, ma – al contrario - fondamentali per la comprensione più profonda dei fatti narrati. Anche la riproduzione del materiale di propaganda (per lo più volantini e fogli di giornale, ma anche lettere autografe) rende più attuale la materia trattata. Completano il lavoro le biografie degli appartenenti al gruppo tratte dai fascicoli personali del Casellario politico centrale, che costituiscono la sintesi delle loro esistenze oltre che della loro attività politica, per come emerge dalle carte di polizia.
Assieme alle vicende umane, tanti altri fili, di diverso spessore, si riannodano. Fatti noti come la semana tragica, l'introduzione della Ley de residencia, l'attentato al Consolato generale d'Italia, la vicenda di Sacco e Vanzetti si intrecciano con la quotidianità e le battaglie degli anarchici cetraresi. Proprio per questo, il lavoro di Attanasio e Pagliaro ha il merito di illuminare e rendere coerenti vari aspetti: gli orientamenti dell'opinione pubblica, i rapporti con i compagni, la vita familiare, i ruoli femminili e maschili, il comportamento che il governo assume nei loro confronti nel corso degli anni e delle differenti situazioni e molto altro ancora. Come ad esempio l'esperienza del teatro militante grazie alla costituzione della filodrammatica “Senza patria”, che serve non solo all'autofinanziamento, ma soprattutto a svolgere l'azione di educazione e propaganda e a rafforzare la crescita culturale caratteristici dell'anarchismo. Come pure l'attenzione e la capacità di dar vita a pubblicazioni che esprimono la linea politica del gruppo e che vengono diffuse e distribuite dai militanti in un'opera di incessante proselitismo.
L'impressione che si ricava scorrendo anche solo rapidamente il testo è quella di un grande affresco al cui interno si svolgono i destini degli uomini e le parabole dei processi storici. Lo sfondo che, allo stesso tempo, li racchiude e li contestualizza, è la Grande Emigrazione, la vera protagonista di questa e di altre storie. È il grande esodo a fornire la spinta iniziale, a fungere da detonatore. È nei luoghi di arrivo, dove emigrano in cerca di lavoro e di una vita migliore, che i calabresi, per gran parte, si politicizzano, confluendo nelle organizzazioni libertarie al cui interno ricoprono ruoli spesso importanti. La storia dell'anarchismo calabrese si svolge in effetti quasi sempre fuori dalla regione: nel resto d'Italia e, soprattutto, all'estero.
Gli anarchici calabresi scelgono in gran parte l'Argentina e la sua capitale come patria d'adozione. Sono braccianti, operai, ma soprattutto artigiani (calzolai, sarti, barbieri, tipografi) i soggetti verso i quali si indirizzano le attenzioni dei tutori dell'ordine e della legalità del paese che li accoglie. La loro capacità di inserimento e di reazione politica, nelle mutate condizioni socioeconomiche, sorprende per la rapidità e per la convinzione con le quali si esprimono.
Circa l'influenza dell'immigrazione italiana sul movimento anarchico argentino è stato detto e scritto molto. La presenza e l'azione di personaggi come Errico Malatesta e Pietro Gori tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento contribuì in maniera determinante all'affermazione dell'associazionismo operaio e sindacale di ispirazione libertaria, fornendo ai lavoratori una risposta concreta alle loro richieste e alle loro aspettative. Teorizzando strategie di lotta alternative rispetto ai metodi praticati dalle organizzazioni sindacali di orientamento riformista, il movimento anarchico riuscì a incanalare energie e consensi intorno a un progetto di democrazia diretta, di solidarismo e di azione rivoluzionaria che intendeva fornire una risposta concreta alle richieste pressanti degli ultimi. In un paese in cui i lavoratori salariati erano automaticamente esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica, con un sistema politico-istituzionale fondato su una ristretta base sociale, la protesta contro le istituzioni era assoluta e trovava la sua forma naturale di espressione nei metodi propri dell'anarchismo. Lo stile con il quale le vicende vengono ripercorse e analizzate è immediato, lontano da quello del libro di storia tradizionale e del trattato scientifico. Ma non per questo superficiale.
Quella che si coglie è – accanto alla passione per la ricerca - la vivacità dei particolari, la visione potremmo dire a colori degli avvenimenti e delle persone, delle quali emerge un vissuto individuale e collettivo ricco di sfaccettature, dove l'esperienza individuale fa parte e si collega a elementi di identità sociale e collettiva più o meno forte. Il testo che viene dato alle stampe costituisce un ulteriore tassello di quella storia diversa che i due studiosi – ne sono certa – continueranno a scrivere.

Katia Massara