Donne/
Una pittrice siciliana e le sue innovazioni
Il volume di Luisa Maria Leto, Lia Pasqualino Noto. L'artista
che sfidò il suo tempo (Navarra, Palermo 2018, pp.
160, € 15,00) documenta le vicende umane e artistiche di
un'importante pittrice siciliana del secolo scorso: e lo fa
servendosi di fonti già note ma anche di un prezioso
e inedito epistolario che testimonia la ricca trama degli interessi
e delle relazioni di una straordinaria donna siciliana che,
giovanissima, s'impone nella scena artistica della sua città,
Palermo, per la sua bravura e per la sua capacità di
superare in modo originale i vecchi schemi formali e contenutistici
della pittura ottocentesca.
A
cavallo degli anni '20 e '30, infatti, Lia Pasqualino Noto (1909-1998)
espone con successo le sue opere e promuove, a Palermo, mostre
di importanti artisti di fama nazionale e internazionale, col
plauso e il sostegno del già noto e stimato pittore futurista
Pippo Rizzo. La sua ansia di novità e la sua insofferenza
verso la tradizione (peraltro diffidente verso le donne artiste)
ha trovato modo di venir fuori liberamente, nella frequentazione
di intellettuali e creativi: tra questi vi è il giovane
medico Guglielmo Pasqualino, che diventerà suo marito
e vi sono anche gli artisti Renato Guttuso, Nino Franchina e
Giovanni Barbera, con i quali dà vita ad un sodalizio,
stimolante e fruttuoso per la sua produzione pittorica improntata
ad un rinnovato figurativo, che le darà notorietà
nazionale.
I suoi lavori, però, dopo esaltanti momenti di entusiastica
accoglienza, diventeranno sempre meno ricercati ed esposti,
quando nel secondo dopoguerra le correnti astrattiste della
pittura italiana conquisteranno i favori della critica, le gallerie,
il pubblico. Un ritorno in auge della Pasqualino Noto si avrà
negli anni '60 e '70, grazie ad una serie di mostre antologiche
in varie città italiane, da Palermo a Milano, che ripercorreranno
l'itinerario artistico della pittrice siciliana, accompagnate
ovunque dai rilievi positivi dei critici. In occasione di una
mostra di quel periodo, esattamente del '74, Raffaele De Grada
scrive: “le necessità del mercato hanno spinto
molti artisti all'alienazione.
Come a una catena di montaggio essi fabbricano quadri su quadri.
La critica esercita poi una specie di supervisione del lavoro
fatto, ma si sa bene come i critici, non per colpa loro, non
siano spesso a loro volta espressione di una opinione pubblica,
ma piuttosto di correnti di potere e di mercato. Così
può capitare che una personalità come quella della
Pasqualino Noto possa essere ancora oggi ignorata da gran parte
del pubblico italiano, anche se chi ha una conoscenza effettiva
della storia recente dell'arte italiana, ricorda bene il nome
di Lia Pasqualino come uno di quelli che parteciparono al rinnovamento
dell'arte italiana negli anni Trenta, quando dalla tecnica pesante
del novecentismo si passò a una logica diversa del colore
e della forma.
Raccogliendo gli esperimenti degli anni Venti, la Pasqualino
cercò a sua volta una pittura più libera e più
adatta ad esprimere non più il modello di studio ma i
rapporti perfino stridenti negli accostamenti che venivano da
un'analisi aperta del paesaggio siciliano e della figura nel
paesaggio, con tutto lo studio di inusitati rapporti cromatici
che venivano da accumuli di stoffe o da composizioni di oggetti.
Questa ricerca delle dissonanze, che non può non suggerire
paragoni con fenomeni consimili, per esempio la dodecafonia,
in altre arti, è continuata dalla Pasqualino fino ad
oggi quando certe nature morte nella loro apparente casualità
rivelano invece un metodo quasi matematico sperimentale nell'accostamento
dei colori”.
De Grada riscattava così da un ingiusto oblio la pittrice
siciliana, coraggiosa nelle sue innovazioni, nell'arte come
nella vita – come ben evidenzia la biografia della Leto
– avendo dovuto lottare sempre, per potersi esprimere
liberamente come donna e come pittrice, contro tenaci e retrogradi
retaggi maschilisti e autoritari: in questo sostenuta e confortata
dal marito, proprietario e direttore di una clinica privata
a Palermo che negli anni ostili e tetri del fascismo diede rifugio
ad ebrei e perseguitati politici: tra questi vi fu “un
personaggio notevole che trovò riparo in clinica: l'anarchico
Paolo Schicchi, che a causa delle sue idee e dei suoi comportamenti
era stato condannato a dieci anni di reclusione, di cui quattro
al confino, prima a Ponza e poi a Ventotene” come rivela,
nel suo libro, la Leto, che trascrive la testimonianza diretta
ed inedita di Beatrice Gagliardo di Carpinello Pasqualino, figlia
della pittrice, che dell'anarchico Schicchi conserva sicura
memoria e così ne racconta: “Schicchi era molto
anziano e fiero della sua vita da ribelle.
Avendo avuto bisogno di un intervento chirurgico lo avevano
portato in clinica. Due poliziotti gli facevano sempre da guardia.
Una volta guarito si raccomandò a mio padre perché
non voleva tornare sull'isola: non se la sentiva. Mio padre
dichiarò che le sue condizioni di salute non gli consentivano
di tornare al confino e che sarebbe stato imprudente perché
aveva ancora bisogno di molte cure. Ottenne il permesso e per
molto tempo le guardie continuarono a venire per controllarlo
ma poi a un certo punto non vennero più. Paolo Schicchi
rimase da noi per tutta la sua vita: aveva in clinica una minuscola
stanzetta che le suore riempivano di immaginette con la Madonna
e tutti i santi, sperando di riportarlo sulla via della fede,
lui, che era un terribile mangiapreti”.
Silvestro Livolsi
Tecnologie/
Come una chiave inglese piantata nel terreno non potrà mai crescere
Ci sono libri, come questo, che servono da mappe per riuscire
a orientarci meglio nel mondo in cui viviamo, ma che nello stesso
tempo fanno molto di più: cambiano il nostro modo di
guardare le cose. Tecnologie radicali di Adam Greenfield
(Einaudi, Torino 2017, pp. 336, € 22,00), ci porta nel
cuore di una trasformazione in corso che ha già cambiato
in profondità la nostra vita quotidiana e il nostro modo
di fare esperienza del mondo. Intanto che cos'hanno di speciale
le “tecnologie radicali”? In breve si potrebbe dire
che colonizzano e rimodellano la nostra vita quotidiana a partire
da una sempre più imponente serie di dati raccolti da
una rete sempre più fitta di dispositivi.
L'esempio
sotto gli occhi (e tra le mani) di tutti è lo smartphone
con cui lasciamo continuamente traccia dei nostri spostamenti,
dei siti che frequentiamo, delle nostre preferenze. Ma lasciamo
tracce anche usando il computer, andando al bar a prendere il
caffè ripresi da telecamere ovunque, usando bancomat:
per dirla in modo drastico, anche grazie a queste tecnologie
radicali siamo in una società del controllo così
capillare che nessuno stato prima d'ora avrebbe potuto mai neanche
sognare di realizzare. Il punto più avanzato è
forse il sistema del credito sociale cinese: sulla base dei
dati il governo può punire, incentivare i cittadini che
si comportano bene o male attribuendo loro un punteggio positivo
o negativo a seconda delle azioni che compiono1.
Uno degli aspetti più interessanti che l'autore tocca
è quello del riutilizzo da parte del dominio di tecnologie
che erano state pensate in un'ottica di decentralizzazione,
di democrazia diretta, addirittura di “anarchismo planetario”.
Certo è facile smascherare come fa Greenfield il lato
destro di un certo libertarismo. A proposito della piattaforma
Ethereum creata dal mitico Victor Buterin, come rielaborazione
del modello della Blockchain2,
al cui interno si possono creare “organizzazioni decentralizzate
autonome” (acronimo Dao che suona molto bene),
che dagli entusiasti vengono proposte come il futuro dell'organizzazione
politica dal basso, scrive Greefield: “a fare da forte
contrasto a queste aspirazioni non ci sono solo il forte accento
messo sulla proprietà e una certa definizione dei diritti
di proprietà...”
É il wishful thinking (“pia illusione”) di
chi vuole vedere nella tecnologia ciò che non riesce
a realizzare nella realtà: “Vogliamo credere nella
possibilità di una tecnologia che rivendichi nuovi potenti
mezzi per l'azione collettiva, al di fuori del controllo dello
Stato; siamo affascinati dall'idea che, una volta ricostituiti
in un Dao, comitati di quartiere e gruppi di affinità
possano intervenire nel mondo con la concretezza, l'efficacia
e la continuità di qualsiasi altra impresa o organismo
pubblico”
Prima decidiamo cosa vogliamo, poi organizziamoci per ottenerlo
e qualche volta alcune tecnologie ci saranno d'aiuto per ottenere
ciò che abbiamo progettato: “se vogliamo contestare
il potere dello Stato, occorrerà compiere passi concreti
per rivendicare localmente il potere decisionale, anziché
sperare che qualcuno rilasci il codice di una struttura autonoma
che renda istantaneamente obsoleti gli Stati”.
C'è un'altra questione interessante, toccata dall'autore.
Tendiamo facilmente a dimenticare che dietro alle interfacce
amichevoli c'è pur sempre una sequenza (lunga quanto
si vuole) di 0/1 che rende senza alcun dubbio queste tecnologie
più efficaci ma poco attente alle sfumature, alle contingenze
e agli imprevisti. Non basta aggiungere una spruzzatina di fuzzy
logic per cambiare questi assunti di base sottesi alla tecnologia
contemporanea: “la vita quotidiana è qualcosa che
dev'essere mediata da processi di misurazione, analisi e controllo
messi in rete... l'accesso alle risorse e alle opportunità
determinanti può essere equamente ripartito da un algoritmo...
il discernimento umano non risulta più essere adeguato
alle sfide della complessità che ci presenta il mondo”.
Il bello è che raggiunto un certo grado di complessità
negli algoritmi genetici, nessuno è più in grado
veramente di capire il perché di certe scelte. “
Molti dei sistemi che già stiamo usando ogni giorno funzionano
in modi che i loro progettisti non capiscono completamente”.
Il che ci porta a uno dei tanti paradossi di questo mondo quotidiano:
tanto più diventiamo potenti tanto meno capiamo come
e perché, e tantomeno per quali scopi più generali.
Solo per alcuni “visionari” lo scopo finale sembra
essere chiaro: “trasvalutazione finale di tutti i valori
messa in atto da un codice autonomo che si auto-esegue su una
rete distribuita e globale di dispositivi di calcolo”.
È l'ideologia transumanista dell'irrilevanza umana di
fronte a cui ogni limite fisico, materiale carnale sembra dissolversi,
la stupida intelligenza e arroganza.
Greenfield ci spinge a riflettere su ciò che è
veramente importante per noi: l'IA ad esempio ci porta a indagare
ciò che ci sembra irriproducibile da una macchina (un
silenzio nell'esecuzione di un brano di Chopin, l'emozione che
danno certe frasi apparentemente anodine nei romanzi di Elisabeth
Strout, lo spazio del colore in una tela di Rothko).
Ma tutto questo sembra finito. Chi non vorrebbe ascoltare la
prossima toccata di Bach, o guardare il prossimo quadro di Rembrandt?3
Ma nello stesso tempo sentiamo che c'è qualcosa di osceno
in questi desideri, una sorta di necrofilia da una parte e una
bulimia incolmabile dall'altra. Perché non dovremmo accontentarci
del Bach (immenso) che abbiamo? E se pure ci sono rimasti pochissimi
quadri di Vermeer perché non dovrebbero bastarci? Perché
non si riesce a vedere nel limite qualcosa di grande? Perché
la tecnologia nutre l'onnipotenza infantile, certo.
C'è qualcosa di più, la nascita di un potere senza
sapere, di un'intelligenza meccanica che oltrepassa le capacità
di comprensione umana. E il futuro dietro l'angolo è
nell'integrazione di tutte queste tecnologie radicali in un
modo che non solo ne aumenta enormemente la potenza e la capillarità,
ma che apre scenari impensati e porta a una concentrazione del
potere prima impossibile.
Dai piccoli e apparentemente ormai insignificanti oggetti che
popolano il nostro paesaggio quotidiano l'autore arriva alla
fine del libro a disegnare una serie di scenari globali, egualmente
possibili ma non egualmente desiderabili. E ci mostra in modo
convincente “che possiamo capire quello che davvero fanno
le tecnologie e in che modo funzionano veramente soltanto se
siamo in grado di fare un passo indietro e di soppesare le conseguenze
per tutti gli ecosistemi sociali e naturali ai quali sono legate”.
Un libro acuto e sottile, capace di una critica radicale ma
non tecnofobica della tecnologia che pone sul tavolo con chiarezza
questioni così rilevanti che dovrebbero occupare il primo
posto nella nostra agenda, mentre ci occupiamo delle chiacchiere
da talk show.
Un sano esercizio materialista che ci invita a prendere le distanze
da un pericoloso determinismo tecnologico guidato da forze impersonali
e come un destino cinico e baro destinato a illuderci e a fregarci.
Con in più, e non è poco, l'idea che tutti debbano
almeno cercare di comprendere le poste in gioco della trasformazione
in corso e non solo un gruppo di criptoesperti. Nelle ultime
righe, senza trionfalismi e con tremore, Greenfield afferma
che “un'epoca di tecnologie radicali richiede una generazione
di tecnologi radicali” ma in questo processo siamo tutti
implicati e che anche in questo caso abbiamo bisogno di cambiare
la direzione dello sguardo, dalle vetrine scintillanti ai germi
di modi di vivere alternativi, “semi di futuri possibili,
semi che con impegno e cura potrebbero crescere e diventare
un modo di vivere insieme sulla Terra più saggio, equilibrato,
più giusto e più generoso”.
Filippo Trasatti
- Adam Greenfield, Tecnologie radicali, tr. it. M. Nicoli et al., Einaudi, Torino 2017, p. 300s.
- Troppo complicato da spiegare, chiedete a Ippolita. Oppure leggete la voce “Blockchain” in Ippolita, Tecnologie del dominio, Meltemi.
- So che non ci credete, ma guardate qui https://www.youtube.com/watch?v=IuygOYZ1Ngo.
E ascoltate la conferenza del capo progettista https://www.youtube.com/watch?v=vxXb4BsEHPY.
Basaglia misconosciuto/
Psichiatria della miseria o miseria della psichiatria?
Benedetto Saraceno in un libro dal titolo perfetto - Sulla
povertà della psichiatria (Derive Approdi, Roma 2017,
pp. 192, € 18,00) mette a fuoco le principali distorsioni
al pensiero di Basaglia che ne hanno inficiato la diffusione
e la conoscenza e l'applicazione pratica non solo in Italia
ma nel resto del mondo. Distorsioni del suo pensiero che l'hanno
erroneamente assimilato a un antipsichiatra, a un ideologo,
perfino a un filantropo.
Quanta
distanza, invece, tra il pensiero e l'azione radicalmente antipsichiatrica
di Laing e Cooper, mai agganciati a una prassi di liberazione
e trasformazione collettiva, e senza ricadute concrete sulla
legislazione psichiatrica del proprio paese, rispetto all'impresa
basagliana che invece è “sopravvissuta alla sua
morte” e che le ha avute eccome le ricadute legislative.
Quanto è lontano Basaglia dalla “santificazione
del folle” e dalla quasi identificazione dello psichiatra
col malato, laddove i due – Laing e Cooper – arrivano
a dividersi lo spazio – Kinksley Hall o Villa 21 –
“salvo poi perire entrambi, antipsichiatra e paziente”.
I due antipsichiatri che, scrive Saraceno, sono più vicini
alla “tragedia di Artaud che alla battaglia di Basaglia”.
Basaglia non è interessato a santificare il folle, ma
a farlo uscire “dall'ozio dello statuto di matto”
per farlo “rientrare nel neg-ozio dell'inclusione sociale
e dei diritti”.
Basaglia – ancora Saraceno – non fu ideologo. Fu
un nemico dei modelli codificati, fu un trasformatore della
realtà, senza mai fermarsi su un modello che potesse
diventare la nuova tecnica, per questo motivo ricusò
perfino la comunità terapeutica. Non ideologo ma pienamente
scienziato, dove i suoi laboratori di trasformazione furono
i manicomi di Gorizia e di Trieste. Non antipsichiatra non ideologo
non filantropo. È sterile fare di Basaglia un filantropo
indignato per la puzza di manicomio, per la condizione di internato
del malato. La sua è pratica di trasformazione della
realtà. Laddove il fenomenologo che lui accantona –
non del tutto, lo radicalizza, semmai – e i fenomenologi
del suo tempo, molti dei quali dirigevano manicomi senza discuterli,
trovandoli sempre naturali – come la maggior parte
dei fenomenologi del nostro tempo – sono splendidi inarrivabili
narratori della realtà del folle, narratori ma non trasformatori,
egli decise che questa realtà dovesse essere urgentemente
trasformata, prima ancora che narrata.
Purtroppo, il pensiero basagliano, proprio per questo equivoco
che connota Basaglia antipsichiatra ideologo e filantropo, a
parte alcuni paesi, è misconosciuto. Vi sono paesi, nel
mondo, alcuni contaminati direttamente dall'esperienza basagliana
– come il Brasile, memore delle sue conferenze –
altri in maniera indiretta, che stanno mettendo in atto processi
di riforma, trasformazione, sviluppo, dei servizi di salute
mentale, con spostamento del focus dell'intervento dall'ospedale
al territorio. Ma nella maggior parte del mondo non vi è
alcun processo di trasformazione nell'assistenza psichiatrica,
se non aumentare enormemente la spesa sanitaria destinata all'acquisto
dei costosissimi psicofarmaci di nuova generazione – e
quanto è ignorante e in malafede questa politica, se
si considera che a un costo sì tanto elevato dei nuovi
farmaci non corrisponde una proporzionale efficacia? –
domina il modello manicomiocentrico, oppure resta centrale l'ospedale
generale a fronte di una limitata cura territoriale.
Questo succede nel mondo. Di questo ci dice il libro di Benedetto
Saraceno Sulla povertà della psichiatria. Il titolo
è bello, è puntuale. La povertà con la
psichiatria c'entra, c'entra sempre. Perché la psichiatria
è, essa stessa, povera. Povera quanto a epistemologia.
Una tecnica che si spaccia per scientifica ma che è arrogante,
e impoverisce molti psichiatri stessi che compiono, nonostante
lei, nonostante la psichiatria, nonostante debbano dichiararsi
psichiatri, un lavoro enorme con i pazienti. La povertà
c'entra con la psichiatria perché dove c'è povertà
c'è sofferenza psichica. Diceva Basaglia che il manicomio
è l'ospizio dei poveri. In manicomio ci finisce chi non
ha, perché il non avere risorse economiche lo fa non
essere. Saraceno per dieci anni (1999-2010) ha diretto il dipartimento
di salute mentale e abuso di sostanze dell'OMS, per cui ha una
visione planetaria come pochi del rapporto tra sofferenza psichica
e povertà. Nel suo libro evidenzia la diversa aspettativa
di vita tra un indiano un filippino e uno scozzese, i primi
due muoiono circa venti anni prima. Nei paesi poveri si vive
meno, e questo si sa. In realtà sono i poveri che vivono
di meno. A Glasgow un abitante di un quartiere povero vive quasi
trent'anni meno di un abitante di un quartiere ricco. Non è
il paese, dunque, ma la povertà nell'ambito dello stesso
paese a fare la differenza. Stesso discorso per la salute mentale.
Povertà, disuguaglianze sociali, scarsa educazione e
debiti sono fattori di rischio per depressione, abuso di alcol
e droghe, suicidio, e altri disturbi psichici.
Stabilito che ci si ammala di più in povertà,
il dato che riporta Saraceno è che se nei paesi poveri
il 70% dei disturbi psichici non riceve una cura, nei paesi
ricchi tuttavia la percentuale non è molto meglio, perché
è il 50% che non viene curato.
Il dato interessante è che quando le persone ricevono
le cure psichiatriche, sia nei paesi ricchi che poveri, queste,
soprattutto per i casi più gravi – quelli che danno
luogo a un ricovero – spesso sono umilianti, degradanti,
disumanizzanti, lesive di diritti e dignità. La psichiatria
hard dei paesi ricchi – anche se si attua in ospedali
belli e attrezzati – è repressiva e concentrazionaria
come la psichiatria hard dei paesi poveri. Come se la poca attenzione
alla dignità e ai diritti umani fosse un dato intrinseco
alla cultura psichiatrica, che non cambia a seconda che si applichi
in Francia o in Marocco. Chiosa Saraceno: “C'è
da chiedersi se sia meglio restare non trattati, se essere trattati
significa essere mal-trattati”.
Continuo a dialogare a distanza con Saraceno attraverso il suo
libro. Domanda: perché i processi di deistituzionalizzazione
e presa in cura territoriale sono più complicati nelle
città, quanto più grandi sono? Risposta: perché
le grandi città sono “acceleratori di contraddizioni”.
La sfida, qui, è rappresentata da “tre gruppi”:
i giovani marginali che “sfidano il comune senso
dell'ordine, della sicurezza” e vengono “fantasmizzati”
e stigmatizzati dalla comunità egemone, le persone
con disturbi psichici e i tossicodipendenti, che pure “sfidano
la ragione comune e creano allarme”, e pure essi sono
temuti come pericolosi, infine gli immigrati, che con
le loro razze, lingue, religioni diverse alimentano pulsioni
xenofobe e miti razzisti. Pertanto: marginali, matti e drogati,
immigrati, rappresentano gli esclusi dalla città. Come
fare per includerli? Come incorporare di nuovo questi vomitati
dalla società?
Basaglia, con la sua critica all'ideologia escludente del manicomio,
con la sua accusa dei luoghi a parte pensati apposta per escludere
i miserabili – e la miseria di “chi non ha non è”
– il pensiero lungo di Basaglia continua a esserci d'aiuto.
Domandarsi, scrive Saraceno, se un soggetto debole, per poter
rientrare nella negoziazione, ovvero nel luogo dello scambio,
debba diventare per forza forte, o invece può riuscirci
anche da debole. Uno dei miti della riabilitazione psichiatrica
è l'autonomia, il paziente che riesce a conseguire l'autonomia
viene premiato, assecondando un modello riabilitativo darwiniano.
Saraceno propone un diverso modello di riabilitazione, dove
l'obiettivo non sia l'autonomia ma la partecipazione: non far
sì che i deboli diventino forti e dunque autonomi, ma
che i deboli possano stare insieme ai forti pur restando deboli.
E propone alcuni principi, su cui costruire l'inclusione sociale
dei deboli e dei poveri e degli esclusi. Tre assi.
Anzitutto l'abitare. Lavorare per includere l'escluso
non può non cominciare dal provvedere a una casa dove
abitare. Questo, quando si decide la terapia del paziente, pillole
o colloqui, sembra marginale. I malati psichici quando sono
gravi o acuti o cronici quasi sempre non abitano case ma “stanno”
in luoghi anomici, negli innumerevoli non luoghi della psichiatria,
SPDC ospedalieri cliniche private o convenzionate residenze
comunità perfino dormitori, luoghi dove si sta, sopra
o attorno a un letto, non si abita.
Non si può non cominciare un progetto terapeutico eliminando
inconsciamente l'abitare. Stare si sta anche in carcere o su
una barella di pronto soccorso. Si sosta. Abitare significa
casa, casa è dopo la pelle una seconda pelle che struttura
l'io di una persona. Mettiamo uno psicotico, senza confini dell'io,
quanto può sentirsi scoperto, a sostare in un luogo dove
ha solo un letto. Quanto può sentirsi alla mercé
del mondo? Trasparente, esposto. “Tutti mi sentono”
mi diceva una ragazza che sentiva le voci. Una casa è
una seconda pelle, è una difesa, una corazza che rinforza
una fragile identità.
I programmi detti di housing first, pensati apposta per
dare a persone con disturbi psichici o senza casa una casa,
sono di per sé terapeutici. Perché la casa deve
essere data anche se la persona rifiuta le cure, non come premio
ricompensa per la sua adesione alle cure. Perché la casa
gli spetta anche se non decide di divezzarsi da alcol e droghe.
Nella prospettiva che con una casa, e con una ritrovata contrattualità
sociale, l'adesione a un programma terapeutico o il divezzamento
da alcol e droghe sarà possibile, o verrà da sé.
Altro principio dell'inclusione è scambiare le identità.
Cosa significa. Significa relazioni. Non necessariamente terapeutiche.
Relazioni e basta. Significa vivere l'agorà. Scambiare
parole con altre persone. Significa il mercato, cioè
il luogo dove si fa il neg-ozio, dove si combatte si vince si
antagonizza l'ozio, l'ozio che è solitudine che è
ripiego nel mondo proprio, l'idios kosmos eracliteo,
il mercato l'agorà è il luogo dove può
declinarsi il koinos kosmos, antidoto alla vita psicotica.
Ecco che se un luogo così non c'è, un servizio
di salute mentale non medicale lo crea. Ne rappresenta un eccellente
surrogato. Così, raccontano Franco Rotelli e Peppe Dell'Acqua,
era stato concepito il centro di salute mentale triestino, luogo
di scambio, non ambulatorio dove si erogano tecniche, psicoterapie
o farmaci o pensioni, ma mercato, souk, piazza, bar, centro
sociale, luogo sempre aperto anche di notte perfino a Natale
e Capodanno dove trovare qualcuno con cui mettere in gioco la
propria identità.
Altro principio per l'inclusione è il lavoro.
Lavoro come mezzo di guadagno, di sostentamento, di autorealizzazione.
Mai più l'ergoterapia che nella maggior parte dei centri
diurni luogo di parcheggio propaggini manicomiali ancora si
eroga sotto forma di fabbrica di ceramiche bricolage e altri
prodotti da mercatini. Sì alle cooperative sì
alle imprese sociali mai più terapia occupazionale. E
dopo essere stati liberati dal manicomio è necessario
diventare liberi di abitare, di mettersi in gioco, di
scambiare relazioni, di lavorare, di essere cittadini con diritti,
non più utenti infantilizzati.
Insomma, più che riabilitare gli individui, dopo aver
riabilitato, in parte, la psichiatria, occorre riabilitare la
società. Ecco cosa ci racconta, Benedetto Saraceno, in
questo libro necessario.
Piero Cipriano
Errico Malatesta a Roma (e non solo)/
Atti di un convegno
Il libro curato da Roberto Carocci (Errico Malatesta. Un
anarchico nella Roma liberale e fascista, a cura di Roberto
Carocci, BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 178, € 18,00) nasce
dal convegno “Errico Malatesta. Un rivoluzionario a Roma”
organizzato nel maggio del 2016 dall'Associazione di idee I
refrattari al Cinema Palazzo Occupato a Roma. Il convegno
ha visto una partecipazione di circa 200 persone e “una
tensione che forse nessuno si aspettava e che ha costituito
il fattore più prezioso e più stimolante dell'intero
evento” (p.12).
Il
libro riporta, riviste e ampliate, le relazioni esposte al convegno.
I contributi pongono un'attenzione particolare al rapporto intercorso
tra Malatesta e la città di Roma nel periodo liberale
e durante la dittatura fascista, ma al tempo stesso esplorano
questioni più profonde: il rapporto tra anarchici e il
movimento operaio, la questione della violenza e del suo utilizzo,
le forme di resistenza allo squadrismo, le interpretazioni e
le letture che gli anarchici hanno dato del fascismo e della
sua dittatura. Si tratta di interventi che pongono domande e
indicano spunti per ulteriori ricerche, oltre a suggerire connessioni
con temi di estrema attualità, e questo è uno
dei punti di forza di questa pubblicazione.
Nel primo contributo Carocci offre un'utile panoramica delle
idee di Malatesta sul rapporto degli anarchici con il movimento
operaio e con le organizzazioni sindacali sottolineando come
Malatesta, pur critico delle teorie sindacaliste (si veda il
dibattito con Monatte sullo sciopero generale al congresso anarchico
di Amsterdam del 1907) sia un forte sostenitore della partecipazione
degli anarchici all'associazionismo operaio. Il pezzo si sposta
poi sul rapporto di Malatesta con il movimento anarchico romano
ed offre diversi spunti di riflessione. Il primo è la
raccomandazione di usare cautela quando si investigano le divisioni
all'interno del movimento anarchico romano su questioni di principio
come la partecipazione alla lotta elettorale, una esortazione
che va estesa anche ad altre realtà come quelle delle
comunità anarchiche all'estero poiché il movimento
anarchico era comunque molto fluido e spesso a forti divisioni
si sovrapponevano anche forme di collaborazione. Un altro elemento
di riflessione, sia dal punto di vista storico ma anche della
militanza, che emerge anche nel contributo di Gentili, è
la capacità di Malatesta di legare e costruire rapporti
strettissimi con gli abitanti dei quartieri dove viveva, non
solo a Roma, ma anche per esempio ad Ancona o a Londra dove
fu la mobilitazione popolare del quartiere di Islington ad impedirne
la deportazione nel 1912.
Ugualmente stimolante è il contributo di Sacchetti che
analizza l'evoluzione del pensiero di Malatesta sul ruolo e
l'uso della violenza nell'azione rivoluzionaria. Il saggio individua
e analizza i passaggi chiave di questa elaborazione partendo
dal superamento del metodo cospirativo di tradizione risorgimentale
con quello dell'insurrezione di massa teorizzata da Malatesta
nel 1884, per passare al sindacalismo rivoluzionario ed arrivare
dopo l'attentato al Teatro Diana nel 1921 al concetto di “guerra
civile dispiegata”, idea che andava ad agganciarsi anche
all'esperienza degli Arditi del popolo nella lotta contro il
fascismo. Il saggio si sofferma soprattutto sul primo di questi
passaggi chiave focalizzando l'attenzione sui tentativi insurrezionali
degli anarchici italiani negli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento
e discute, necessariamente in breve, il passaggio al sindacalismo
rivoluzionario, il regicidio di Monza, la Settimana Rossa e
l'attentato al Teatro Diana, suggerendo tuttavia diverse aree
da approfondire.
All'interno del saggio Sacchetti sviluppa un'importante riflessione
sull'inadeguatezza del termine “terrorismo” come
strumento analitico e metodologico. Quest'inadeguatezza non
riguarda solo lo studio di Malatesta, ma anche la sua applicazione
al movimento anarchico in generale che, in modo perlomeno discutibile,
è stato recentemente indicato su riviste accademiche
come precursore del terrorismo jihadista e di Al-Qaeda (si vedano
gli articoli sulla rivista “Terrorism and Political Violence”,
20:4, 2008).
Più breve il contributo di Gentili incentrato su Malatesta
e gli Arditi del Popolo che sottolinea lo stretto rapporto che
l'anarchico intrattenne con le sezioni romane dell'organizzazione
antifascista, nonostante vi facessero parte molti ex interventisti
di sinistra e legionari fiumani. Gentili rimarca l'appoggio
che l'anarchico diede al progetto politico-militare dell'arditismo,
a differenza dei dirigenti socialisti e comunisti che ne boicottarono
l'organizzazione e quindi l'efficacia.
L'analisi delle interpretazioni e delle letture che Malatesta
diede del Fascismo e di come combatterlo è il fulcro
del contributo finale che si incentra sull'ultimo decennio della
vita di Malatesta, dal suo trasferimento nella capitale nel
1922 fino alla morte nel 1932. Malatesta, come ricordato anche
nel saggio di Gentili, era comunque un convinto fautore della
necessità di organizzare, sia politicamente che militarmente,
la difesa contro il Fascismo. Bertolucci offre un'acuta analisi
delle letture elaborate al tempo non solo da Malatesta ma anche
da altri esponenti di spicco dell'anarchismo italiano - Fabbri,
Berneri, Bertoni e Borghi - che vedono il Fascismo come prodotto
della Prima Guerra Mondiale, ne denunciano la funzione di “controrivoluzione
preventiva” in difesa degli interessi di industriali e
agrari, e ne intuiscono la natura eversiva e anticostituzionale.
Al tempo stesso il saggio sottolinea anche i limiti di queste
analisi e l'incapacità di comprendere appieno le profonde
differenze del Fascismo dal precedente sistema liberale, come
per esempio la sua capacità nella mobilitazione delle
masse, o nel percepirlo come un fenomeno di carattere temporaneo.
Un punto di interesse che lega il contenuto del libro con la
realtà odierna è la lettura di Malatesta del Fascismo
come caduta etica. Per Malatesta una delle ragioni del successo
del fascismo era dovuta “alla mancata rivolta morale contro
l'abuso della forza brutale, contro il disprezzo della libertà
e delle dignità umana che sono la caratteristica del
movimento fascista” (p. 92). Caduta di carattere etico
e morale che oggi sembrerebbe dilagare di fronte alla questione
dell'immigrazione, del razzismo, della violenza di genere e
che rende evidente quanto difficile sia da contrastare un tale
processo. La seconda parte dell'intervento si sviluppa attorno
al giornale Pensiero e Volontà i cui scritti rappresentano
“il maggior lascito, dal punto di vista teorico”
di Malatesta che “forse possono essere anche interpretate
come una sorta di testamento politico” (p.76).
Il libro si conclude con un'utile appendice – per gli
studiosi e non – dell'indice del giornale Pensiero
e Volontà che permette di avere una panoramica dei
temi trattati nel giornale e dei suoi principali collaboratori.
Il libro è corredato da alcune affascinanti fotografie
che facevano parte della mostra che ha accompagnato il convegno.
La pubblicazione di questo volume offre sia agli studiosi sia
ai lettori che si avvicinano per la prima volta a Malatesta
e al suo pensiero uno stimolante strumento di ricerca e conoscenza
che offre molti spunti di riflessione soprattutto perché
indaga un periodo della vita di Malatesta e il suo rapporto
con la città di Roma che deve essere ancora adeguatamente
studiato. E questo libro rappresenta un ottimo primo passo in
questa direzione.
Pietro Di Paola
Federazione Anarchica Italiana/
Una storia d'amore e di anarchia
Il corposo volume Con l'amore nel pugno. Federazione Anarchica
Italiana. Storia e documenti (1945-2012) (a cura di Giorgio
Sacchetti, Milano, 2018, Zero in condotta, pp. 367, € 25,00)
ispirato nel titolo a una nota poesia di Leo Ferré è
opera di quattro autori e affronta la storia della terza fase
dell'anarchismo, qui racchiusa cronologicamente tra 1945 (anno
della costituzione della FAI) e 2012 (anno delle mobilitazioni
No MUOS e No terzo valico), attraverso il filo conduttore della
storia della Federazione Anarchica Italiana. Esso si compone
prima di tutto di una Nota del curatore, nella quale
si chiarisce senza indugi oggetto, obiettivo e metodo del volume
– mettere “sotto rigorosa osservazione” la
FAI “in quanto soggetto politico e culturale, archetipo
di sociabilità libertaria del secondo Novecento e in
quanto comunità” (p. 7) tendendo ad una “Storia
reale che deve essere fatta e raccontata anche attraverso fonti
diversificate, «ufficiose» ma vive, raccolte e interpretate
con criteri multidisciplinari” (p. 8) –, e vengono
date al lettore le coordinate necessarie per orientarsi nella
lettura dei tre grandi capitoli “descrittivi” (p.
7) e “corrispondenti ad altrettanti cicli dell'anarchismo”
(p. 9), che seguono.
Il
primo e il secondo capitolo, intitolati rispettivamente Eretici
e libertari. FAI: Dal dopoguerra al Sessantotto (1945-1973)
e I nuovi anarchici. FAI: Dagli anni Settanta alla «fine
del comunismo» (1974-1991) sono opera di Giorgio Sacchetti,
che è anche il curatore del volume. Lasciatosi alle spalle
il buio della guerra e le vicende resistenziali, l'autore riprende
la storia del movimento che ora – scrive – si “rigenera
in una sorta di «neo anarchismo» attraverso contaminazioni
culturali con la sinistra eretica degli anni Cinquanta, con
i movimenti libertari del decennio successivo” (p. 15)
e che tra le questioni salienti che lo attraversano annovera,
appunto, la costituzione della FAI, sin dall'inizio percorsa
da divisioni interne quanto spinte provenienti dall'esterno.
Sacchetti ripercorre così il fitto elenco di congressi,
incontri e discussioni, che acquisiscono corpo e significato
grazie al sapiente intreccio qui proposto con le vicende che
attraversano la storia politica nazionale e internazionale.
Il '68 merita un paragrafo a sé stante: “per la
Federazione è [...] il periodo di metabolizzazione delle
rotture dolorose” e per il movimento il tempo di un evidente
ripiegamento su sé stesso (p. 43), ma “il rapporto
fra «neo-anarchici» e anarchismo otto/novecentesco
si consolida, ed è questa una tappa fondamentale per
future azioni comuni e reciproche «contaminazioni»”
(p. 46), che anticipa la manifestazione di “pratiche libertarie
diffuse che, sebbene non specificatamente promosse dal movimento
anarchico, si dimostrano capaci di coinvolgerlo almeno in parte,
se non di travolgerlo”, con sorprendenti effetti rigeneratori
(p. 49). Il clima incandescente con cui si arriva e che segue
i fatti di Piazza Fontana segnerà una battuta di arresto
per il movimento, che, mantenuto “a tutti i costi [...]
sul banco degli accusati”, ripiega su posizioni difensive
(pp. 57-58), mentre la FAI registra il maggior ricambio generazionale
fra le fila dei suoi militanti attivi ed è costretta
“a ridiscutere le modalità di rapporto sia con
le formazioni dell'estrema sinistra italiana [...], sia con
i gruppi giovanili anarchici stranieri” (p. 65). Con il
1973 – termine ultimo dell'”«età dell'oro»
delle società occidentali” (p. 72) – si apre
il secondo capitolo del volume e “una nuova era del capitalismo”
(p. 72) nella quale “l'occidente si resetta” in
direzione di una globalizzazione mondiale (p. 73). Ma di questo
capitolo mi limito a segnalare il merito di aver dato qualche
spazio a temi di grande impatto sociale riportando, ad esempio,
gli interventi di Aurora Failla e Umberto Marzocchi sulla legge
Fortuna-Baslini, e di aver almeno citato il punto 5 del XIII
Congresso FAI (1977) “Femminismo e suo rapporto con le
lotte sociali” (p. 79), anche se avrebbe meritato qualche
cenno sia la deludente mozione che ne seguì sia le battaglie
politiche delle militanti, in questi anni attente ed attive
guardiane della rivoluzione civile in atto (si vedano al proposito
i documenti 33.1-4 del CD); eccellente anticipazione del capitolo
a venire la ricostruzione di luoghi e momenti delle prime lotte
ecologiche (pp. 93 ss.) che, inaugurate il Italia con il disastro
di Seveso (1976), tanto spazio avrebbero avuto nella storia
più rece te del movimento.
Il terzo capitolo, Libertà, uguaglianza, autogestione.
FAI: Movimenti sociali antiautoritari e globalizzazione (1992-2012),
opera di Massimo Varengo, seguita il racconto a partire dal
1992 con l'apertura della sessione straordinaria del XX Congresso
della FAI, l'inizio della stagione di Tangentopoli, la fine
dell'Unione Sovietica e la caduta del muro di Berlino; è
soprattutto una sfida, prima di tutto storiografica, che rilancia
e anzi alza la posta rispetto alle ultime e nefaste analisi
sul tema. Il movimento, e la FAI, si sintonizzano con le emergenze
politiche del momento e così mentre immigrazione e mondializzazione
diventano gli slogan politici del potere, antirazzismo, ambientalismo,
anticlericalismo e antimilitarismo tornano prepotenti emergenze
dell'attivismo dei militanti anarchici.
Chiudono il volume una utile e puntuale rassegna cronologica
e biblio-documentaria – Cronologia e Bibliografia
e fonti – a cura di Antonio Senta e un corposo apparato
di materiali – Iconografia e Documenti –
offerto ai lettori (insieme al volume in formato pdf) in CD,
con relativo Soggettario per la consultazione, frutto
del paziente e certosino lavoro di Massimo Ortalli e del supporto
tecnico di Claudio Mazzolani; sarebbe a mio avviso utilissimo
mettere on line questi strumenti di lavoro per sfruttarne appieno
il potenziale e invitare alla lettura dei capitoli storiografici.
Curiosa, poi, la sezione intitolata Gli autori, che va
oltre i dati meramente professionali e colloca politicamente
gli autori che ora diventano «osservatori partecipi»
(p. 14) di questa storia, quindi non solo studiosi del movimento
anarchico ma anche soggetti attivi che hanno attraversato e
sono stati attraversati da queste vicende, quindi fonte di studio
essi stessi.
Il volume non è sicuramente di agile lettura, la dovizia
di dettagli con cui vengono descritti gli appuntamenti ed elencati
i temi, del movimento in generale e della FAI in particolare,
possono scoraggiare un lettore svagato, ma è indiscutibilmente
uno strumento seducente per gli appassionati e chi intende approfondire
la storia degli anarchici dal 1945 al 2012. Per questo non limiterei
la sua importanza alla sola analisi della FAI, ma estenderei
il suo valore a quell'ormai ampio apparato bibliografico che
vede come termine ante quem il testo di Pasquale Iuso
(Gli anarchici nell'età repubblicana, BFS 2014)
e termine post quem l'ultimissimo libro di Fabrizio Giulietti
(L'anarchismo in Italia, Galzerano editore 2018) e che
ora attende monografie più attente a temi specifici,
e perché no persino al femminismo anarchico.
Elena Bignami
Luigi Galleani/
Un anarchico militante sulle due sponde dell'Atlantico
Il genere biografico, fra tutti, è quello che più
ci intriga. Perché connette le coordinate spazio-temporali
in maniera quasi sempre sorprendente; perché, stabilendo
un punto di equilibrio fra “i tre tempi” della storia
(geografico, sociale, individuale) ci risolve metodologicamente
il problema dei nessi singolare / plurale e del rapporto tra
iniziativa personale e necessità sociale. Perché,
infine, mentre aggiunge la sua insopprimibile dimensione esistenziale,
ci fa guardare i fatti non solo con gli occhi del protagonista,
ma anche immergendoci a pieno nello spirito dei tempi.
Punto
di arrivo di un approfondito e prolungato lavoro di ricerca,
questo volume si inserisce nell'ambito di una ricca e importante
produzione scientifica dell'autore volta a indagare, con particolare
acribia, sia il tema dell'anarchismo di lingua italiana negli
Stati Uniti che la nota vicenda di Sacco e Vanzetti. Da segnalare,
in tal senso, la curatela dell'edizione italiana (sempre con
Nova Delphi) del famoso libro di Paul Avrich dedicato ai due
emigrati italiani assassinati sulla sedia elettrica nel 1927.
In questa nuova, corposa, pubblicazione (Luigi Galleani.
L'anarchico più pericoloso d'America, introduzione
di Sean Sayers, Nova Delphi Libri, Roma 2018, pp. 290, €
14,00) Senta ricostruisce vita e pensiero dell'anarchico “più
pericoloso d'America”: Luigi Galleani (1861-1931).
Per mezzo secolo sulla breccia del sovversivismo anarchico e
quindi dell'antifascismo, pubblicista e autore prolifico, rivoluzionario
votato all'azione febbrile egli marca, con la sua presenza e
le innumerevoli iniziative politiche e culturali che promuove
in differenziate situazioni ambientali, il radicalismo operaio
e socialista in due secoli e tre continenti. Direttore e fondatore
di importanti giornali come «Cronaca Sovversiva»,
autore di veri e propri best seller per l'epoca – tra
cui La fine dell'anarchismo? e La salute è
in voi! (manuale per dinamitardi) – il protagonista
è noto agli studiosi di anarchismo come capofila di quella
corrente di pensiero del movimento che, vantando migliaia di
aderenti negli Stati Uniti, prendeva da lui il nome soprattutto
caratterizzandosi per le posizioni risolutamente violentiste
e insurrezionaliste.
Su «Carmillaonline» Roberto Carocci, recensendo
questo medesimo titolo, ha opportunamente notato come Galleani,
“a differenza di Malatesta, introiettò l'utilizzo
della violenza come elemento positivo” e necessario. In
tal senso – prosegue Carocci – “gli episodi
furono molteplici, come il reiterato spingere alla rivolta gli
scioperi operai, così come l'inviare ripetutamente numerosi
pacchi bomba a giudici, industriali, poliziotti, sindaci ed
esponenti governativi”. Ma si deve, a onor del vero e
per l'opportuna contestualizzazione, precisare che erano gli
anni della cosiddetta “paura rossa” e delle forti,
e altrettanto violente, repressioni statali antisovversive.
Accurata e completa questa biografia, seconda dopo quella pubblicata
da Ugo Fedeli nel 1956 (Quarant'anni di lotte rivoluzionarie),
non solo colma un vuoto storiografico inglobando e aggiornando
anche testi di autori precedenti che, in varia forma e misura,
si erano occupati di studiare e/o raccontare la vita dell'intellettuale
vercellese – da Pier Carlo Masini a Mariella Nejrotti,
a Marco Scavino più recentemente sul Dizionario biografico
degli anarchici italiani – ma si qualifica soprattutto
come originale ricerca condotta compulsando un'importante mole
di carte d'archivio. Si va dai Jacques Gross Papers e
dai Fedeli Papers custoditi all'Istituto di storia sociale
di Amsterdam al fondo L'Adunata della Boston Public Library,
dai documenti di polizia dell'Archivio Centrale dello Stato
a quelli del Ministero degli affari esteri a Roma, dai National
Archives di Washington alla Gallica di Parigi, all'Archivio
Berneri di Reggio, all'ASFAI di Imola e al Centro Studi Libertari
di Milano... Il volume si struttura in ben trenta capitoli nei
quali si snoda la vita errabonda di Galleani, agitatore senza
frontiere, così suddivisi: una prima parte dedicata all'attività
svolta in Italia; un intermezzo sul suo soggiorno in Egitto;
una seconda parte relativa alla presenza in America (fondamentale
e che dura quasi vent'anni); e un epilogo sul ritorno in Italia
(dal “biennio rosso” al fascismo). L'introduzione
è interessante perché racchiude, insieme, memoria
di famiglia e fonti orali. Ne è autore Sean Sayers, biografo
mancato del suo nonno materno.
“Qualche anno fa – scrive Sayers – ho cominciato
a compiere delle ricerche più sistematiche su mio nonno
[...] Quando mi sono reso conto di che personaggio importante
e interessante fosse, ho deciso di scrivere la sua biografia,
così iniziai a leggere e a raccogliere materiale. Ma
lavoravo da solo e presto fui sopraffatto dall'enorme mole di
informazioni che andavo accumulando e dalla difficoltà
del compito in cui mi ero imbarcato. Stavo iniziando a disperare
quando venni messo in contatto con Antonio Senta che, come me,
stava facendo delle ricerche su Galleani e voleva scriverne
la biografia. È molto più qualificato di quanto
lo sia io e presto concordammo che sarebbe stato lui a scrivere
mentre io l'avrei aiutato con le ricerche, se e quando avessi
potuto. Questo libro ne è l'eccellente risultato...”.
Giorgio Sacchetti
Autobiografie/
Donna curda dalle mille vite (e dai tanti miracoli)
Nella lingua curda esiste una persona verbale che somma in
sé le persone della lingua italiana, dall'io al loro,
includendole tutte in un'unica azione. Una sorta di collettività
estrema che va oltre il “noi”, perché non
lo contrappone alle altre persone plurali; al contrario, lo
ingloba in un insieme capace di comprendere ognuno, intraducibile
letteralmente ma pieno e ricco di suggestioni e utopie.
L'ho imparato leggendo una nota a margine di una poesia di Ezel
Alcu, a pagina 92 di Senza chiedere il permesso – il
mondobastardo (Edizioni END, Gignod - Ao 2018, pp. 124,
€ 12,00). Mi ha colpito molto, mi è sembrato che
questa peculiarità linguistica potesse spiegare non solo
quel verso, ma il libro e con esso il mondo, la terra, la storia
di Ezel; e insieme, la nostra. D'altronde in questo libro tutto,
ma proprio tutto, è collettivo e plurale.
È
un testo di prosa, poesia, narrazione e fotografia; è
un'autobiografia scompigliata e cruda, drammatica e ironica;
narra di rivolta, fuga, gioco e gratitudine; la sua autrice
ha due nomi, due date di nascita, due paesi. Il libro di Ezel
è molti libri, perché Ezel è molte donne.
Né potrebbe essere diversamente, dato che a 28 anni ha
già vissuto l'equivalente di molte vite.
Ezel Alcu è un'attivista curda, rifugiata politica in
Italia dal 2009.
Nata in una famiglia di attivisti segnata da tortura fuga e
povertà, Ezel è l'ottava di dieci figli, la quinta
femmina. “Figli da battaglia”, come li definisce
il padre. Da crescere a pane (poco) e coraggio, per dare forza
al popolo curdo e cuore alla sua rivoluzione.
Così la storia di Ezel è la storia tenera scanzonata
di una bambina in precoce crisi d'identità a causa dei
suoi due nomi – Ezel, che in lingua farsi significa “universo
infinito”, e Ceylan che significa “gazzella”
– con un padre politico e una madre dittatrice; ed è
insieme la storia drammatica e difficile di un popolo tormentato
da guerre e massacri, da sempre alla ricerca della propria autonomia
e da sempre perseguitato da chiunque, da Saddam Hussein all'Isis,
da Erdogan all'occidente.
Una terra-non terra, l'antica Mesopotamia, bellissima e ricca
di suggestioni; aspra e montuosa, distesa tra fiumi leggendari,
orlata di monti mitologici, come l'Ararat – che in lingua
turca, guarda caso, significa “montagna del dolore”;
fertile di grano e di cultura millenaria.
Terra senza dignità geografica, senza un posto ufficiale
nelle carte e nei mappamondi, condannata ad esistere clandestinamente
e solo in virtù del suo popolo fiero e combattivo, protagonista
di una rivoluzione che non ha eguali nel mondo – poiché
le comprende tutte.
Un paese che, come scrive Ezel, da qualche anno a questa parte
sta vivendo la terza guerra mondiale, scoppiata per il petrolio,
raccontata poco e male dai media occidentali, gestita da burattinai
più o meno oscuri che non amano sporcarsi le mani e preferiscono
servirsi di strumenti disumani come l'Isis, cancro cresciuto
da cellule nutrite di paure e stereotipi. Una guerra “che
non si combatte più dichiarandosi, ma facendo finta di
non combattere... magari le nazioni non schierano eserciti,
ma foraggiare chi ci bombarda equivale a fare la guerra e questo
è ciò che succede”.
Migliaia e migliaia di morti, giovani, donne e bambini; la massa
spettrale di interi villaggi scomparsi, lo sguardo impietrito
e la voce furiosa di chi sopravvive, fiumane di persone costrette
ad emigrare, usate come merce di minaccia e di scambio, private
di radici e dignità.
“Non sono una ragazza piena di miracoli” dice di
sè Ezel nella prefazione. Ma se non è un miracolo,
senza dubbio quella che si sprigiona dai suoi occhi scuri è
un'energia che pare inesauribile, tremendamente contagiosa.
Finita in carcere all'età di 13 anni, per vincere la
paura – tanta – Ezel si inventa un gioco:
“Quando cadeva il buio, mi mettevo vicino alla finestra
dove potevo vedere solo il cielo e i condomini altissimi che
stavano vicino al carcere. Cominciavo così a sentire
il fischietto del militare e contavo dodici fischi: ogni quindici
minuti i militari si comunicavano con il fischietto per dire
che tutto andava bene. Con il buio facevo io il primo fischio
poi seguivano gli altri dodici fischi dei militari, così
succedeva un casino perché i fischi erano tredici, non
più dodici, e continuavo a fischiare così tutta
la notte”. Niente male, come debutto nell'età dell'adolescenza.
Da lì in avanti (non che prima non lo fosse) la sua vita
diventa una sequenza di (dis)avventure senza fine: fughe, scontri
con la polizia, arresti, dolore per la perdita violenta di tanti
compagni, altro carcere con l'accusa di essere una kamikaze.
Finché la famiglia la spinge a trasferirsi in Italia;
così Ezel a 19 anni diventa una curda valdostana.
Rifugiata in un paese dove “non c'è lavoro neanche
per gli italiani”, in mezzo a tanta bella gente che “non
è razzista ma”. Tra le Alpi di Heidi studiate a
scuola, in una città che ai suoi occhi è minuscola
(Aosta), dove il centro è finito dopo cento passi. Dove
il caffè è la colazione, non una sciccheria borghese
come nel suo paese, e la pasta non è una torta, come
nella sua lingua, ma è “makarna”, i maccheroni.
Dove impara a dire le parolacce e un sacco di cose che non si
possono dire, e chissà perché poi, dato che invece
si dicono. Scontrandosi con una lingua che si ostina a dividere
i generi, il maschile dal femminile, mentre Ezel al genere non
attribuisce importanza alcuna.
Perché lei è per l'uguaglianza, lei dà
importanza all'essere vivente, non al genere! “Mia sorella
mi dice: Vai a provare. L'Europa è bella, è grande
l'Europa... la democrazia e l'uguaglianza, i servizi sociali
e i diritti umani!”
Ezel ora lo sa, che non è proprio così. Che l'Europa
è come “la scena di un circo: quando si chiudono
i tendoni non si parla più di democrazia”. Lo ha
imparato in fretta, che pure in Europa e in Italia si deve lottare
ogni giorno per mantenere conquiste che parevano acquisite,
riconquistarsi diritti dati ingenuamente per scontati. Lo sa,
lo ha imparato, abbracciando a cuore aperto le ribellioni di
qui, i nostri no, le lotte per riprenderci la terra che ci appartiene,
la Valsusa, l'acqua, l'umanità.
Ezel lo ha imparato, noi dobbiamo muoverci. Dobbiamo inventarci
anche noi, nella nostra lingua, un pronome collettivo estremo.
Perché, tra le altre cose, Senza chiedere il
permesso è dedicato “a chi piace combinare
guai”.
A Ezel piace. A noi pure, piace, lo so.
Spas, Ezel, grazie per questo libro, per la tua rabbia
e per la tua incoerente allegria.
Claudia Ceretto
Il '68 in Italia/
Movimento (anarchico) e movimenti
Diego Giachetti con il suo lavoro Il '68 in Italia le idee,
i movimenti, la politica (BFS edizioni, Pisa 2018, pp. 218,
€ 20,00) completamente rinnovato rispetto alla edizione
di vent'anni fa, ha scritto uno dei migliori libri sul quel
periodo. La bibliografia, l'indice dei nomi citati, dei periodici,
dei movimenti e dei partiti politici aggiungono un ulteriore
pregio al libro, per chi volesse approfondire le diverse tematiche
trattate.
L'autore
ritiene che il '68 sia stata la conseguenza della scolarizzazione
di massa e dei nuovi equilibri geopolitici dovuti alle migrazioni
di massa degli anni '50/'60 dal Sud al Nord, nel triangolo industriale
del nostro Paese.
In sintonia con il vento di rivolta contro l'autoritarismo dei
padri e delle società ingessate dell'epoca, che andava
sollevandosi fra la gioventù studentesca, sia ad Est
che ad Ovest della cosiddetta cortina di ferro, anche in Italia,
nel '67, nacquero movimenti giovanili ribelli. Essi si riferivano
alle esperienze dei Provos olandesi, dei Beats nordamericani,
sentivano l'eco che proveniva dal movimento della libera parola
iniziato alla Università di Berkeley nel 1964. Successivamente
prevalse l'aspetto politico della contestazione.
Il lavoro si articola attorno a diversi nuclei tematici, dei
quali qui se ne citano soltanto alcuni: l'opposto giudizio sulle
conseguenze del '68, le ragioni della nascita della sinistra
extraparlamentare, il fenomeno del leaderismo e la critica puntuale
degli anarchici al movimento studentesco inteso come mezzo di
affermazione in funzione dirigente del ceto medio intellettuale
a scapito delle precedenti classe egemoni, le relazioni tra
il '68 studentesco ed il '69 operaio, la figura sociale dello
studente e quella del coetaneo operaio, l'operaio-massa della
catena di montaggio della FIAT, la repressione, la strategia
della tensione, le differenze tra il movimento del '68 e quello
del '77, i caduti dell'uno e dell'altro movimento, la nascita
e l'evoluzione dei gruppi extraparlamentari di sinistra e del
terrorismo di sinistra, il fenomeno delle Riviste che hanno
preceduto ed accompagnato il '68 e che sono state il terreno
di formazione dei leader del '68.
Molto interessante è il capitolo “La sociologia
dei gruppi della nuova sinistra”, che mostra in modo chiaro
la complessità e le intricate vicende dei gruppi. L'autore
spiega che la nascita dei gruppi fu dovuta all'esigenza di non
vedere dispersa l'imponente disponibilità studentesca
dopo l'apice di partecipazione alle occupazioni e alle manifestazioni
sulle questioni studentesche ed esprime un giudizio positivo
su questo tentativo di organizzazione dei vari gruppi marxisti
della sinistra rivoluzionaria. Attribuisce la loro disgregazione
e dissoluzione all'emergere del femminismo, della nuova tipologia
giovanile e alla sconfitta nelle elezioni politiche del 1976,
quando i gruppi si contarono sul piano parlamentare.
Agli anarchici sono riservate pagine molto chiare che fanno
giustizia ad una presenza nel movimento, quasi sempre tenuta
sotto traccia nelle trattazioni sul '68. Non sono dimenticati
i radicali e i movimenti dei diritti civili. L'ultimo capitolo
“Dal '68 al '77”, che tratta il passaggio da un
movimento all'altro, che definisce i caratteri salienti del
movimento del '77 e che individua un confronto tra i due movimenti,
conclude il libro nel quale non si evidenzia alcun intento celebrativo
dell'anno di svolta della società contemporanea.
L'autore fornisce ragioni e spiegazioni di come questo grande
movimento di rinnovamento esistenziale si sia politicizzato
in Italia e di come, diversamente dal Maggio Francese, sia durato
pressoché dieci anni, cosi da meritarsi l'appellativo
di maggio strisciante.
Diego Giachetti affronta nodi storiografici, non ancora sciolti,
concernenti la domanda su che cosa sia stato il '68 in Italia.
Un movimento che interessò buona parte degli anni '70,
al quale il blocco di potere dell'epoca rispose con la feroce
repressione che conosciamo, recuperandone gli aspetti più
appariscenti e di costume. Non si può che condividere
la precisazione di Giachetti che scrive: “L'odierna società
è nata dalla sconfitta della contestazione dei movimenti
degli anni '60”.
A questo punto ci si chiede se il non avere raccolto in termini
progressivi, da parte della classe dirigente dell'epoca, la
grande partecipazione civile e politica che il '68 rappresentò
per quasi 10 anni, non sia stata davvero un'occasione mancata
per la modernizzazione e lo sviluppo civile del nostro Paese.
Enrico Calandri
Emigrazione anarchica/
Calabresi in Argentina
Il libro di Paolo Attanasio e Angelo Pagliaro (Libertari
cetraresi in Argentina. Dall'Aggruppazione libertaria cetrarese
a Umanità Nova (1923-1932), Edizioni Erranti, Cosenza
2018, pp 256, € 15,00) ricostruisce la storia del “Gruppo
libertario cetrarese” e dei suoi aderenti nel decennio
a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, precisamente
tra il 1923 e il 1932. È un periodo cruciale, quello
che coincide con la fase matura dell'associazione, la più
consistente e rilevante tra quelle create dagli anarchici calabresi
in Argentina.
Negli
stessi anni, infatti, il paese latinoamericano vive la fase
tormentata del passaggio dai governi del radicale Hipolito Yrigoyen,
che sembra farsi interprete dei bisogni delle classi popolari
suscitando attorno a sé un grande entusiasmo a quello
ben più autoritario di José Fèlix Uriburu,
salito al potere con il golpe del 1930 e dimessosi appunto nel
febbraio 1932. Mentre in Italia, negli stessi anni, il fascismo
passa dalla parvenza di legalità successiva alla Marcia
su Roma alla vera e propria dittatura edificata dopo l'assassinio
di Giacomo Matteotti. Gli italiani che animano l'associazione
vivono dunque, oltre alla loro condizione di esuli, una realtà
politica che, sia nella vecchia patria che nella nuova, gli
è avversa e contro la quale combattono.
I calabresi fondano in Argentina associazioni (molte delle quali,
come il nucleo cetrarese, si richiamano nel nome ai paesi d'origine,
ma hanno una forte connotazione politica), giornali, sodalizi
artistici; creano occasioni di incontro e iniziative culturali,
animano le discussioni politiche ed entrano ben presto nell'immaginario
collettivo come emigrati e ribelli e con questa connotazione
vengono per lo più descritti dalla letteratura e dai
canti popolari. Nel testo, che riprende il filone di ricerca
già percorso dai due studiosi, le vicende del gruppo
si intrecciano alle storie di vita dei suoi affiliati, così
come le storie di vita dei più noti Errico Malatesta,
Pietro Gori e Severino Di Giovanni convivono con quelle dei
molto meno noti e con quelle dei senza storia.
In tal modo, Ciccio Barbieri, Angelo Antonucci, Salvatore Niesi,
Salvatore Cortese e Francesco Attanasio, assieme a tanti altri,
compongono l'umanità diversificata e complessa, a tratti
sofferente, nella quale tutti hanno uguale dignità e
concorrono, tra vittorie e sconfitte, tra fraternità
e divisioni, tra scontri e riappacificazioni, al tentativo di
realizzare il grande sogno. Accanto ai nomi, ci sono i volti.
Il testo è infatti arricchito da numerose foto d'epoca
che mostrano le facce, l'atteggiamento, in parte il linguaggio
non verbale dei corpi, l'abbigliamento, gli elementi del paesaggio,
tutte testimonianze non accessorie, ma – al contrario
- fondamentali per la comprensione più profonda dei fatti
narrati. Anche la riproduzione del materiale di propaganda (per
lo più volantini e fogli di giornale, ma anche lettere
autografe) rende più attuale la materia trattata. Completano
il lavoro le biografie degli appartenenti al gruppo tratte dai
fascicoli personali del Casellario politico centrale,
che costituiscono la sintesi delle loro esistenze oltre che
della loro attività politica, per come emerge dalle carte
di polizia.
Assieme alle vicende umane, tanti altri fili, di diverso spessore,
si riannodano. Fatti noti come la semana tragica, l'introduzione
della Ley de residencia, l'attentato al Consolato generale
d'Italia, la vicenda di Sacco e Vanzetti si intrecciano con
la quotidianità e le battaglie degli anarchici cetraresi.
Proprio per questo, il lavoro di Attanasio e Pagliaro ha il
merito di illuminare e rendere coerenti vari aspetti: gli orientamenti
dell'opinione pubblica, i rapporti con i compagni, la vita familiare,
i ruoli femminili e maschili, il comportamento che il governo
assume nei loro confronti nel corso degli anni e delle differenti
situazioni e molto altro ancora. Come ad esempio l'esperienza
del teatro militante grazie alla costituzione della filodrammatica
“Senza patria”, che serve non solo all'autofinanziamento,
ma soprattutto a svolgere l'azione di educazione e propaganda
e a rafforzare la crescita culturale caratteristici dell'anarchismo.
Come pure l'attenzione e la capacità di dar vita a pubblicazioni
che esprimono la linea politica del gruppo e che vengono diffuse
e distribuite dai militanti in un'opera di incessante proselitismo.
L'impressione che si ricava scorrendo anche solo rapidamente
il testo è quella di un grande affresco al cui interno
si svolgono i destini degli uomini e le parabole dei processi
storici. Lo sfondo che, allo stesso tempo, li racchiude e li
contestualizza, è la Grande Emigrazione, la vera protagonista
di questa e di altre storie. È il grande esodo a fornire
la spinta iniziale, a fungere da detonatore. È nei luoghi
di arrivo, dove emigrano in cerca di lavoro e di una vita migliore,
che i calabresi, per gran parte, si politicizzano, confluendo
nelle organizzazioni libertarie al cui interno ricoprono ruoli
spesso importanti. La storia dell'anarchismo calabrese si svolge
in effetti quasi sempre fuori dalla regione: nel resto d'Italia
e, soprattutto, all'estero.
Gli anarchici calabresi scelgono in gran parte l'Argentina e
la sua capitale come patria d'adozione. Sono braccianti, operai,
ma soprattutto artigiani (calzolai, sarti, barbieri, tipografi)
i soggetti verso i quali si indirizzano le attenzioni dei tutori
dell'ordine e della legalità del paese che li accoglie.
La loro capacità di inserimento e di reazione politica,
nelle mutate condizioni socioeconomiche, sorprende per la rapidità
e per la convinzione con le quali si esprimono.
Circa l'influenza dell'immigrazione italiana sul movimento anarchico
argentino è stato detto e scritto molto. La presenza
e l'azione di personaggi come Errico Malatesta e Pietro Gori
tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento contribuì
in maniera determinante all'affermazione dell'associazionismo
operaio e sindacale di ispirazione libertaria, fornendo ai lavoratori
una risposta concreta alle loro richieste e alle loro aspettative.
Teorizzando strategie di lotta alternative rispetto ai metodi
praticati dalle organizzazioni sindacali di orientamento riformista,
il movimento anarchico riuscì a incanalare energie e
consensi intorno a un progetto di democrazia diretta, di solidarismo
e di azione rivoluzionaria che intendeva fornire una risposta
concreta alle richieste pressanti degli ultimi. In un paese
in cui i lavoratori salariati erano automaticamente esclusi
dalla partecipazione alla vita pubblica, con un sistema politico-istituzionale
fondato su una ristretta base sociale, la protesta contro le
istituzioni era assoluta e trovava la sua forma naturale di
espressione nei metodi propri dell'anarchismo. Lo stile con
il quale le vicende vengono ripercorse e analizzate è
immediato, lontano da quello del libro di storia tradizionale
e del trattato scientifico. Ma non per questo superficiale.
Quella che si coglie è – accanto alla passione
per la ricerca - la vivacità dei particolari, la visione
potremmo dire a colori degli avvenimenti e delle persone, delle
quali emerge un vissuto individuale e collettivo ricco di sfaccettature,
dove l'esperienza individuale fa parte e si collega a elementi
di identità sociale e collettiva più o meno forte.
Il testo che viene dato alle stampe costituisce un ulteriore
tassello di quella storia diversa che i due studiosi –
ne sono certa – continueranno a scrivere.
Katia Massara
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