rivista anarchica
anno 34 n. 302
ottobre 2004


dibattito

Sindacato e burocrazia (2)
a cura di Cosimo Scarinzi

 


Prosegue il dibattito iniziato su “A” 300.
Intervengono: Simone Bisacca, Stefano Capello, Cristiano Valente,
Maurizio Montecchi, Pietro Stara, Claudio Strambi e Cosimo Scarinzi.

Misurarsi sulle ragioni della nostra militanza
di Cosimo Scarinzi

Quando, con la pubblicazione di un mio articolo, si è aperta la discussione fra diversi compagni sulla questione sindacale non immaginavo né la varietà né la profondità delle questioni che sarebbero state sollevate.
È, a mio avviso, evidente che fra i compagni impegnati in campo sindacale è forte l’esigenza di misurarsi sulle ragioni profonde della nostra militanza e spero che quest’esigenza sia condivisa anche da molti che non sono intervenuti siano o meno “sindacalisti”.
Ritengo, a questo proposito che, se è vero che il sindacalismo ha delle specificità che non possono essere eluse, le questioni sollevate abbiano una valenza più vasta e riguardino tutti i terreni dello scontro sociale.
Sebbene io sia un interlocutore di diversi dei compagni intervenuti, è innegabile, ed è un bene, che lo scambio di opinioni mi vede come una delle parti in causa e non mi ritengo né in dovere né in obbligo di affrontare l’assieme dei problemi sollevati.

Mi limiterò a ricapitolare quelli che mi sembrano gli snodi della discussione in corso:

1.
l’esigenza di proporre e praticare un sindacalismo di segno libertario. Condivido pienamente, a questo proposito, quanto Claudio Strambi fa rilevare a Cristiano Valente. Se è innegabile che nemmeno il miglior sindacato può essere il luogo ove si afferma l’autogoverno sociale visto che un sindacato è un’associazione di lavoratori sul terreno della società capitalistica e statale è altrettanto vero che l’indifferenza alle forme organizzative, dal punto di vista libertario, comporta, nonostante le migliori intenzioni, l’abbandono di quella continua critica pratica alle relazioni sociali dominanti che è lo specificum dell’anarchismo i genere e di quello classista in particolare;
2.
la necessità di una riflessione seria sul nesso fra organizzazione sindacale e movimenti di lotta. Non si insisterà mai a sufficienza, a questo proposito, sulla centralità dell’inchiesta. La lotta degli operai di Melfi, per stare ad un esempio ben presente ai compagni, ci dice sul rapporto fra organizzazione formale dei lavoratori e organizzazione di lotta molto di più di quanto possiamo trovare in un buon manuale sulle forme organizzative migliori. Appare, in questa vicenda, con limpida chiarezza, la differenza fra sindacato come struttura che organizza lavoratori atomizzati e rete dei picchetti come comunità operaia che si riconosce come tale. Nello stesso tempo, i limiti derivati da decenni di inquadramento burocratico sono altrettanto evidenti;
3.
non posso, a questo proposito, che concordare con alcune note di Pietro Stara e Maurizio Montecchi sull’opportunità di tenere presente la differenza fra i settori di classe che esprimono le diverse organizzazioni sindacali, sui meccanismi dell’inquadramento statale e padronale, sulla quotidiana pratica sindacale. Ogni discussione sul sindacalismo, se tale vuole essere, deve assumere il sindacato (i sindacati) per quello che è/sono senza appiattimenti ma anche senza cattive astrazioni e fughe nel voler essere;
4.
un filo rosso che attraversa la discussione è la questione della relativa necessità e della natura sociale dell’apparato sindacale. Chi, a mio avviso, lo ha posto con maggior secchezza e radicalità è Simone Bisacca che propone una netta divisione fra tecnostruttura ed organizzatori sindacali. Una divisione che, a mio avviso, assume come necessario un’“assunzione libertaria” della divisione tecnica del lavoro ma rimanda, e sarà necessario tornare su questo punto, all’intreccio fra divisione tecnica del lavoro e gerarchie sociali che vi si appoggiano. Credo che non si debba, a questo proposito, cercare rifugio in una qualche ortodossia e che, al contrario, proprio l’esplicita assunzione della complessità del problema sia condizione necessaria per discuterne a fondo e, soprattutto, per trovare soluzioni efficaci ed interessati;
5.
infine, lo sollevano esplicitamente Pietro Stara e Stefano Capello ma tutti i compagni vi si richiamano in qualche modo, vi è il nodo dello sviluppo di una cultura politica libertaria e di una robusta corrente sindacalista che vi si riferisca. In questo senso si è lavorato molto, con esiti alterni, e molto da fare resta. Lo stesso spazio che A Rivista Anarchica dà alla discussione sui problemi che andiamo affrontando è un contributo prezioso in questo senso.

Cosimo Scarinzi


Far male al nemico
di Simone Bisacca

Caro Cosimo,
non stiamo argomentando una critica del sindacalismo alternativo nel senso di argomentazione del fondamento del sindacalismo alternativo. Ciò che vi mosse e che vi muove (o ciò che ci muove e che ci mosse) è irrilevante sul piano dell’efficacia dell’agire, che sta a valle dell’agire stesso, non a monte. Le motivazioni mi possono caricare quando scrivo un ricorso di lavoro o discuto davanti ad un giudice: ma se non individuo un punto debole del mio avversario e cerco di colpire lì in modo non solo da fargli male, ma da schiantarlo, non ho fatto bene il mio lavoro. L’avvocato è come un idraulico: se esce una goccia, non ha fatto bene il suo lavoro; l’unica cosa che conta è che se apri l’acqua calda esca calda, se fredda, fredda. Non esistono giudici buoni o cattivi, ma solo giudici e mio compito è costringerli a darmi torto se proprio me lo voglion dare, niente altro. Sappiamo benissimo, noi e loro, cosa c’è dietro le norme, le formule, gli atti, le sentenze: rapporti di forza, padroni e lavoratori, bisogno e sfruttamento, morte e vita. Noi avvocati siamo i mercenari assoldati da una parte (nel mio caso i lavoratori) per battersi e sconfiggere un’altra parte. I soldati di ventura quello devono fare: combattere per chi li paga e quindi solo quello devono imparare: la tecnica del combattimento. Tecnica: astratta, fredda, mortale. So benissimo che certe vicende processuali ad un certo punto non hanno niente a che fare con il diritto, ma solo con la politica. Non siamo però a questo livello. Le vicende ristrutturative della Fiat e dell’Olivetti di cui in questi anni mi sono occupato sono state gestite ad un livello talmente alto politico e sindacale che ci hanno permesso (ai lavoratori che rappresento e a me) di giocare la nostra partita e portare a casa qualche risultato, oltre che a scavare qualche solco di verità nelle vene di queste grandi ristrutturazioni. Come si gioca a questo gioco? Bisogna stare addosso il più possibile alle operazioni societarie e finanziarie: il sistema garantisce un certo grado di visibilità e da lì, dagli spazi pubblici quasi esoterici (camere di commercio, bilanci, società di revisione, ecc.) che un ordinamento liberale non può non garantire, loro devono passare. Presi sul nervo scoperto della loro bella operazione formalmente corretta, ma sostanzialmente criminosa, cerchi di scatenargli contro quello stesso ordinamento giuridico liberale che è il mare in cui normalmente sguazzano: le norme e i giudici. Se ti va bene, porti a casa un po’ di soldi (differenze retributive, risarcimento del danno), perchè non puoi pretendere che questi giudici ristabiliscano la verità e la giustizia: sono mica il Messia. E, soprattutto, in assenza di una seria interdizione sul piano politico o sindacale, più che a soldi non si finisce.
Capisci quindi che i tuoi accenni alla specializzazione dei saperi, al fatto che anche l’attività sindacale sia un lavoro che comporta sapere tecnico (giuridico, medico, fiscale, previdenziale e che altro?), alle modalità in cui oggi si strutturano le relazioni sociali (scambio, normazione burocratica della vita quotidiana), mi lasciano un poco perplesso. Tutto vero: ma lascia a noi tecnici la tecnica e riprenditi l’attività sindacale. Non vorrei che la generosità vostra (tua e degli altri compagni sindacalisti che ho avuto l’onore di conoscere) e la scarsità delle risorse umane (siete sempre quattro cats seppur wild) vi distolga da quello che sapete fare meglio: cioè stare tra i lavoratori che subiscono (oggi e sempre) e lottano per migliori condizioni di vita. Magari mi sbaglio, ma il vostro compito di sindacalisti è quello di catalizzatori (acceleratori di processo) delle forze che i lavoratori subordinati producono (quando le producono). A voi sindacalisti, nelle condizioni ottimali, fa un baffo il diritto, l’avvocato, la politica, e quant’altro. Quando voi riuscite a indirizzare la forza dei lavoratori verso l’obiettivo che si prefiggono (più controllo sulla propria vita, cioè meno eterodeterminazione, il nucleo puro e duro della subordinazione) che altro vi serve?
Caro Cosimo, tu evochi Melfi. Ho sentito a Radio Popolare che durante la manifestazione di ieri a Roma venivano cantate ballate sui briganti e i piemontesi. Ma pensa: la questione meridionale! E cos’è l’espulsione dalla fabbrica a fine ciclo della loro vita biologico-lavorativa degli operai già Fiat ora TNT o di qualche impresa di pulizia, arrivati dal meridione negli anni ’60-’70 a Torino, ospitati alle Vallette (non il carcere, ma…), e ora inutili, che, come ho sentito troppe volte ripeter loro, non ci possono metter nei forni crematori, ma se potessero… La questione meridionale è la cifra di quel che sta succedendo: il bisogno messo al lavoro fin che basta; e poi, via, verso altri meridioni (l’est dell’Europa, il sud del mondo). I lavoratori di Melfi sono giovani e sanno di poter contare nell’universo Fiat; non vorrei sbilanciarmi, ma sono un po’ come gli operai di Mirafiori alla fine degli anni ’60: sfruttati e centrali per le dinamiche padronali. Possono fare molto, per se stessi e per tutti e non vanno lasciati soli. Ho letto (giacché in quegli anni stavo per andare alle elementari) che ai cancelli di Mirafiori accorse da tutta l’Italia la meglio gioventù. Chissà cosa sta succedendo a Melfi. Chissà, per la nostra parte, cosa staran facendo gli anarchici della FAI. Già: i più vicini sono i calabresi e i napoletani. Poi i siciliani e i romani. Melfi del resto è un poco decentrata rispetto alle normali vie di comunicazione... E poi che fai, se non hai un radicamento sul territorio: vai lì a fare la comparsata come tutti i politici. Ma pensa, il meridione di Malatesta, di Cafiero, …
Torniamo a bomba. “Il cliente ha sempre ragione”: cioè se il lavoratore ti chiede la tutela (legale, previdenziale, fiscale) che fai, non gliele dai? Chi gliela dà: tu o qualcun altro? E perché gliela dovresti dare? Perché paga la tessera? Perché nella nostra società specialistica il lavoratore non può andare a rompere i coglioni all’INPS o all’INPDAP anziché a te o a me per avere il suo? Perché questi enti non hanno splendidi uffici di relazione con il pubblico (URP) o sistemi informatici che ti sfornano informazioni in tempo reale? Ma dai!
Perché non scateniamo i bancari della CUB, che di economia, bilanci e quant’altro capiscono più di noi, contro le manfrine e le pastette che le nostre beneamate Fiat e Olivetti (ormai Telecom) fanno quotidianamente? E quanto sapere possono scatenare contro i padroni gli iscritti RdB che stanno in Regione Piemonte? E quelli in Provincia? Perché i ministeriali RdB (di tutti i ministeri) non possono aiutarci a squadernare i giochi falso-ristrutturativi dei governi di ogni colore? E che dire dei compagni che stanno all’INPS? Forse che non hanno informazioni sulle CIGS e CIGO (Cassa Integrazione Guadagni Speciale e Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria, N.d.R.) concesse a gogo o sulle mobilità regalate dopo istruttorie amministrative risibili?
Smettiamola di nasconderci dietro il dito. Chi ha saperi li metta al servizio della lotta. Chi ha capacità di catalizzare le forze dei lavoratori, quello, faccia, il sindacalista. Non si tratta affatto di superare la divisione specialistica del lavoro, piuttosto di acuirla. Non voglio pasticcioneria, voglio far male al nostro nemico con i saperi che mi (ci)si danno.

Simone Bisacca


Sindacato di militanti
di Stefano Capello

Caro Cosimo e cari tutti gli altri partecipanti al dibattito,
affrontare seriamente la questione vuole dire evitare di nascondersi dietro ad affermazioni talmente ovvie da risultare svianti e a speranze talmente futuribili da risultare tanto rassicuranti quanto fumose. Come nella storia socialista il sol dell’avvenire e l’alba radiosa del proletariato (verrà un giorno...) coprivano l’instancabile azione di rappresentanza parlamentarizzata o in via di parlamentarizzazione e l’accorta gestione quotidiana della vita e delle speranze delle masse dei lavoratori non diversamente da quanto da millenni fa la Chiesa gestendo il mondano sei giorni alla settimana e predicando lo spirituale il settimo, così la piccola burocrazia del sindacalismo di base ogni tanto tenta il colpo d’ala ma resta ancorata alla terrena gestione delle vertenze legali e della gestione corrente 360 giorni su 365. Sia ben chiaro, non è (solo) colpa sua. Quando dico che la speranza futuribile è insieme rassicurante ed ingannatrice non intendo sostenere che il buon burocrate intenda ingannare qualcuno al di fuori di se stesso... Il lavoratore che si rivolge a lui per una vertenza, un conteggio, un 730 sa perfettamente quello che sta facendo: cerca un’organizzazione di sentimenti non troppo lontani dai suoi e di specchiata onestà che lo aiuti nella difficile gestione del suo rapporto lavorativo e nelle mille beghe che l’odierna vita associata dispone sul percorso quotidiano di ognuno di noi.
Chi fa sindacalismo di base deve fare i conti con questa orrenda verità: all’interno del corpaccione delle classi subalterne muovono ogni tanto fremiti di ribellione contro lo schiacciamento protervo delle proprie condizioni di vita e inizia a farsi strada l’idea che sia necessario praticare ogni tanto la protesta e anche l’azione spettacolare per farsi sentire e costringere l’avversario a più miti consigli, ma tutto questo avviene in un contesto di ristrutturazione offensiva da parte delle classi capitalistiche, con i lavoratori al meglio sulla difensiva, al peggio sul si salvi chi può; in un contesto del genere non si può pretendere che nascano militanti come funghi e che il lavoratore medio si occupi della propria condizione in forme diverse da quella della salvaguardia individuale.
In un contesto del genere gli uffici legali diventano necessari perché permettono almeno qualche aggancio con lavoratori che altrimenti non vedresti nemmeno, ma non bisogna illudersi che questo li porti a far di più che ad «acquistare» una tessera per riconoscenza e rispetto (quando va bene). Se un lavoratore su cento contattato così aiuterà la crescita sindacale sarà già avvenuto un miracolo, perché solo i rapporti costruiti nel corso di una mobilitazione resistono, quelli costruiti come agenzia di servizio no. Quindi facciamo pure gli uffici legali, in alcuni settori è addirittura essenziale, ma non aspettiamoci niente da questa pratica se non il fatto di essere conosciuti un po’ più in la del nostro solito raggio d’azione. Il discorso relativo ai CAF (Centro Assistenza Fiscale, N.d.R.) di base è ancora più triste ed eviterei di soffermarmici sopra: servono soltanto a raggranellare soldi ma ti compromettono pesantemente con la struttura statale: offri un servizio trasformandoti in una struttura del ministero delle Finanze...
Il sindacato di militanti sarebbe il modello al quale dovremmo cercare di avvicinarci; l’organizzazione espressa dai collettivi aziendali e non al contrario questi ultimi, laddove esistano, come articolazione locale di un centro che gestisce una bottega di servizi che ogni tanto esprime posizioni sui fatti della categoria e (poche volte) del mondo. Lavorare per trasformare il corpo della nostra organizzazione in qualcosa che assomigli a questo modello ideale sarebbe una sfida importante. Per farlo, però, bisogna evitare che il tempo dei quadri sindacali più capaci e più impegnati nella costruzione sindacale sia fortemente impegnato nella creazione di sportelli, CAF, uffici vertenze e quant’altro.
Questi ultimi ci sono e ce li terremo nei prossimi anni; però non sarebbe stupido lasciarne la gestione a degli incaricati «tecnici»; compagni con passione, attenti e preparati ce ne sono ben pochi, non sarebbe il caso che lavorassero all’espansione di una prospettiva di organizzazione diretta invece di invecchiare tra ricorsi e scartoffie?
Fraterni Saluti

Stefano Capello


Sindacalismo di stato
in versione combattiva

di Stefano Capello

Caro Cosimo,
il dibattito che tu hai suscitato è importante e coinvolge direttamente l’identità di chi sia oggi pienamente interno alle vicende del sindacalismo di base e ne tolleri sempre meno la tendenza chiara e dispiegata a diventare una copia in piccolo del sindacalismo di stato in una versione più combattiva. Tale deriva si dimostra non tanto nella decisione nell’affrontare le singole lotte e le vertenze all’interno delle realtà nelle quali interveniamo; per ovvie ragioni settori di sinistra sindacale CGIL possono a volte prendere posizioni di mobilitazione più «dure» delle nostre, dal momento che non temono conseguenze repressive reali. In questo modo una mano lava l’altra e gli «estremisti» della CGIL possono permettersi di inveire contro le leggi antisciopero scritte con la collaborazione della stessa CGIL… Ma, tant’è, questo è teatrino e non organizzazione dei lavoratori.
Analogamente le posizioni di rifiuto dell’organizzazione come portatrice necessaria di burocratizzazione non sono altro che una sorta di stile, un marchio di fabbrica di chi evita di sporcarsi le mani nella realtà del conflitto industriale, sia quando questo c’è, sia quando questo non c’è. Queste posizioni quasi naturalmente necessitano di una sorta di mito proletario fondativo che esime chi le propone dal lavoro di dimostrarne la fondatezza e non li espone alla durezza della prova dei fatti. Se, e credo questo sia reale, il proletariato è classe in quanto fondato dalla propria esperienza, sia della subalternità che della possibilità di contrastarla, è evidente che questo si forma solo nel conflitto e nell’organizzazione dello stesso. L’organizzazione sindacale è un momento del conflitto quando questa si faccia conformare dai lavoratori che vi si riconoscono. Non è vero il contrario: non è l’organizzazione sindacale o politica che conforma a sé i lavoratori producendo la classe. Quest’ultima si forma (se si forma) come risultante del reciproco mutarsi dei lavoratori e dell’organizzazione stessa.
Detto questo il problema della burocratizzazione sindacale rimane perché:
- sostenendo la necessità dell’organizzazione dei lavoratori
- sostenendo la necessità che questa si doti di strutture minime come un ufficio vertenze, uno legale ed uno fiscale
- sostenendo anche la necessità di compagni pagati per «fare sindacato»
ci troviamo con in mano le carte necessarie per far funzionare un’organizzazione ma anche con le premesse della sua rapida degenerazione in piccole strutture di proprietà dei capi politici delle stesse. RdB è un esempio spinto al parossismo ed al ridicolo di come un sindacato può essere gestito come una sorta di investimento produttivo da parte di una dirigenza politica che necessiti di finanziamenti e visibilità. Non è un caso, RdB nasce come proiezione sindacale di un gruppo marxista-leninista che accede alla visibilità del «grande pubblico» grazie alla creazione di un sindacato la cui prassi interna è ricalcata su quella del gruppo politico. Ma RdB è solo un esempio (per quanto spaventoso) di una realtà più generalizzata dove il sindacalismo di base diventa mero investimento per gruppi della sinistra estrema ridotti in condizioni asfittiche.
Il problema della burocratizzazione con tali premesse diventa disperato e disperante: una parte consistente del sindacalismo di base è in condizioni peggiori di quello istituzionale sul piano della democrazia interna (figurarsi sul piano della gestione diretta dei lavoratori) perché i gruppi dirigenti non sono tali, bensì proprietari dell’organizzazione sindacale stessa. In queste condizioni il funzionario è anche il «capo» del sindacato e usa il suo distacco per perpetuare il suo comando, i gruppi aziendali sono meri trasmettitori delle campagne pensate dall’alto e gli iscritti massa di manovra.
Da questa situazione, però, non si può uscire con la negazione dell’organizzazione sindacale come strumento perché vorrebbe dire consegnare alla stanca dialettica tra istituzionali ed autoritari tutta una serie di strumenti che necessitano alla costruzione dell’esperienza proletaria.
Bisognerebbe, invece, affrontare una decisa battaglia politica e culturale all’interno del sindacato di base; questa battaglia si dovrebbe articolare innanzitutto separandosi da quella parte del sindacalismo di base che tale non è ma che ripropone strutture autoritarie e gerarchiche all’interno dell’organizzazione dei lavoratori, in secondo luogo costruendo organizzazioni centrate sul ruolo dei collettivi aziendali, prevedendo figure di funzionari e di tecnici pagati ma separando decisamente questi ruoli da quelli di decisione politica interna all’organizzazione; per esempio un funzionario di un qualsiasi settore dovrebbe applicare le decisioni del coordinamento del suo settore ma non concorrere a produrle, dovrebbe essere un mero esecutore tecnico di decisioni altrui. In questo modo eviteremmo la confusione tra ruolo tecnico necessario e ruolo politico complessivo. In terzo luogo è assolutamente necessario costruire un sindacato più politico in cui la formazione sia centrale e che non si occupi solo di produrre punti di vista sull’aziendale ma in generale sul mondo. Una parte dei compagni, anzi, dovrebbe essere distaccata quanto più tempo possibile a lavorare in questo senso.
Questo produrrebbe un sindacato che rimarrebbe tale perché la sua forza continuerebbe a basarsi sulla capacità dei lavoratori di mobilitare i loro settori e di dare vita al conflitto, però eviterebbe di trovarsi dopo quindici anni di sindacalismo di base a non avere alcuna capacità di produrre una significativa visione del mondo condivisibile e condivisa da un’area minoritaria ma significativa di lavoratori nel nostro paese.

Stefano Capello


Coscienza critica organizzata
di Cristiano Valente

Caro Cosimo,
rispetto al tuo ultimo scritto ciò che non trovo “convincente” è la domanda stessa che tu poni.
È inevitabile che qualsiasi organizzazione di resistenza e di difesa delle condizioni immediate dei lavoratori subisca una qualche dose di burocratizzazione, pur nell’accezione positiva che tu stesso gli dai; il problema non è affatto questo.
Anzi, credo di condividere con te una qualche necessità oggettiva di tale processo. Del resto nelle successive argomentazioni e nelle stesse riflessioni iniziali mi pare che tu stesso confermi questa inevitabile «deriva».
Ciò che è importante, a mio giudizio si intende, è come arrivare nelle condizioni migliori al momento in cui il pendolo dei rapporti di forza fra le classi si rompe e ci si avvia in quel percorso che è il processo rivoluzionario.
È in questo esatto momento che occorre avere una forte penetrazione ed egemonia all’interno del movimento operaio e non solo.
È in questo momento che i nostri compagni devono essere un punto di riferimento organizzativo e politico per la grande massa del movimento che si pone in contrapposizione all’avversario di classe, tenendo conto che non siamo i soli, come anarchici, a indicare la prospettiva di rottura con il capitalismo, ma ci misuriamo con altre ipotesi e prassi, per noi fallaci, ma comunque presenti e spesso molto più radicate di noi, senza dimenticare il ruolo storico che svolgono i riformisti.
Allora quel tuo breve inciso che ci condannerebbe ad un ruolo di mera coscienza critica, se fosse vero ed inevitabile, come lo è, la burocratizzazione delle strutture di difesa del movimento operaio, è per me invece fondamentale e niente affatto riduttivo.
Nessuna prassi o modello libertario ci pone al riparo di una burocratizzazione (sempre nell’accezione positiva che tu gli dai) delle strutture stabili del movimento operaio, in quanto gli stessi modelli di revocabilità dei mandati, per quanto riguarda la rappresentanza, oppure la scelta di non reiterare le cariche direttive per più di uno o due mandati ecc. (regole correttissime) non sono di per sé sufficienti ad evitare fenomeni di burocratizzazione intesi questa volta nell’accezione negativa.
Per noi, in quanto anarchici, esiste un problema in più rispetto alle stesse regole più o meno corrette che una organizzazione sindacale può definire.
Necessitiamo, proprio per i nostri convincimenti ideologici, di una partecipazione convinta e militante alla vita dell’organizzazione in quanto ”ostili” alla stessa rappresentazione democratica e questa si verifica solo in alcune circostanze precise e storiche.
Per questi motivi ritengo inutile in quanto anarchici costruire o lavorare per ipotesi di organizzazioni di resistenza stabili a tendenza libertaria, ma ritengo invece utile coordinare i militanti anarchici impegnati nella lotta di classe e nelle varie organizzazioni sindacali presenti perché quella coscienza critica sia organizzata, visibile, capace di dare indicazioni e indicare battaglie anche parziali, nella prospettiva di un radicamento di massa e di una egemonia politica nella prassi e metodologia della lotta di classe.
Fraterni saluti

Cristiano Valente


Più piani
sovrapposti

di Maurizio Montecchi

La mia impressione è che sullo scambio epistolare relativo alla burocrazia si intrecciano più piani sovrapposti che creano equivoci.
Il primo da chiarire è se intendiamo con «burocrate» qualunque attivista stipendiato che svolga militanza. In questo caso la casistica diventa sterminata includendovi persino la storica USI, segretari delle camere del lavoro e dei sindacati di settore, e la gloriosa IWW (Industrial Workers of the World, N.d.R.) che garantiva (se non ricordo male) integrativi come rimborsi ad alcuni attivisti. Del resto anche nella tradizione della CGIL, del II dopoguerra, erano i militanti combattivi, spesso licenziati, a diventare stipendiati. Quindi stipendiati per potenziare le proprie caratteristiche e la penetrazione organizzativa. Non credo che questo sia negativo.
Secondo aspetto. Nelle società complesse del tardocapitalismo anche le forme d’opposizione devono costituirsi con strutture complesse che includono «apparati» sempre più determinati e specializzati che siano competenti nello svolgere ogni aspetto amministrativo che si renda necessario. Aspetti amministrativi che vengono resi astrusi anche da disposizioni e norme che solo una preparazione adeguata è in grado di comprendere per poter intervenire con modifiche. Sono le disposizioni giuridiche e i «linguaggi tecnici» che ci condizionano la quotidianità e che formano la legittimità dei tecnici/specialisti. Solo attraverso la loro semplificazione nella società si può contemporaneamente presupporre una riduzione nelle forze di opposizione. Se le dichiarazioni dei redditi fossero semplici perché ci sarebbe bisogno dei CAF e in generale dei commercialisti?
Terzo. Sindacati in ambiti diversi (pubblico, privato) e la questione non è indifferente nella gestione di margini operativi nello svolgimento del lavoro e nella crescita di carriera, non come eccezione, ma come regola. Cambiamenti di status rapidi e verticali sono (o sono stati) la regola nel pubblico: dirigenti sindacali diventati dirigenti di aziende e comunque nelle Poste (che conosco indirettamente) sono strapieni di dipendenti che hanno vinto contenziosi sulle qualifiche con la direzione. Non credo sia altrettanto nel privato. Quindi la burocrazia della FIOM, sindacato riformista e combattivo, per quanto “cogestiva”, risulta nella quotidianità maggiormente combattiva di un sindacato di base nel pubblico perché ha controparti molto diverse. Che non significa meno stronze, ma diversamente disponibili ad atteggiamenti frontali, oppure accomodanti. Mentre da una parte discendono immediatamente dai bilanci dall’altra da scelte politiche/di potere. Così può succedere che una azienda che dispone di commesse per 4 anni accetti un orario di 32 ore in cambio di una turnazione su 24 ore per 6 giorni, nonostante l’ostracismo Confindustriale.
Quarto. Capisco Claudio perché la sua battaglia antiburocratica è immediatamente una necessità politica, direi tattica, neanche strategica come per ogni libertario, forse anche esistenziale-fisica dovendo sopravvivere con l’RdB. Del resto la situazione della sanità è l’unica che mi impedisce di considerare totalmente inutile l’esperienza USI-AIT.
Quinto. Informazione è potere, era negli slogan del ’68 e chi centralizza l’informazione gestisce il potere. Non basta, anche se necessario, ruotare i ruoli di coordinamento per socializzare le informazioni, bisogna diffonderle. E socializzarle. Esempio: la scelta FIOM a Melfi di togliere i blocchi per sviluppare la trattativa è dissimile da quello successo a Terni per l’acciaieria, ma anche nel contemporaneo scontro dell’Alitalia. Ma qui Pezzotta è tra i più attivi.
Sesto. Il sindacato è un mezzo attraverso cui far crescere l’autonomia di classe, mezzo molto importante perché per tutta una fase si può intrecciare l’autonomia stessa, che però ha bisogno di spazi più consoni e ampi per potersi forgiare quali solo le assemblee deliberative e plenarie dei movimenti di lotta possono essere. E all’assemblea, al suo potere reale e determinante dobbiamo sempre richiamarci e farne il fulcro della nostra proposta politica-sindacale e delle nostre considerazioni antiburocratiche.
Sette. Cosimo dovrebbe datare le osservazioni di Monatte che ha attraversato periodi diversi: anarcosindacalista, iscritto al PC francese, ultrasinistro-sindacalista rivoluzionario. E le sue osservazioni hanno effetti diversi se in una fase ascendente dei movimenti o di testimone del dopoguerra nei meandri della guerra fredda.
Monatte comunque non è il massimo degli strateghi sindacali visto la sua responsabilità nel convincere i comunisti americani, ex IWW, all’entrismo nell’AFL (American Federation of Labor, N.d.R.), sindacato di mestiere, mentre i settori sindacali più combattivi costituivano la CIO (Congress of Industrial Organizations, N.d.R.) nell’industria. Facendo perdere un treno alla sinistra USA e forse l’aereo a quella mondiale, relegando i comunisti con la parte più reazionaria del mondo del lavoro, mentre milioni di operai confliggevano nelle fabbriche americane.
Ciao,

Maurizio Montecchi


Tre livelli d’intendere il sindacato
di Pietro Stara

Parlando di burocrazia sindacale e di organizzazione sindacale naturalmente si rimanda anche alle funzioni del sindacato ed in specifico al «che cosa serve». Riprendo due questioni una di Maurizio ed una di Cosimo, appoggiando nel frattempo molte delle considerazioni di Simone.
La parte e la controparte: Maurizio centra un punto secondo me fondamentale quando afferma che le parti e le controparti sono diverse se si parla di pubblico o di privato. Non credo che sia neppure un caso che il sindacalismo di base si sia rafforzato a partire dagli anni ‘80 soprattutto in alcuni settori statali amministrativi che negli anni sessanta e settanta rappresentavano, passatemi il termine, una retroguardia (INPS, INAIL, ministeri,…). Anche qui non vorrei generalizzare e vorrei distinguere tra settori pubblici amministrativi e settori pubblici di frontiera: sono significativamente diversi i sindacati di base, e le lotte che hanno condotto, nei settori pubblici amministrativi (di apparato) da quelli che si trovano a gestire un contatto diretto con il pubblico: scuole, sanità, ex poste, trasporti, ecc. Sono diverse le lotte, le storie ed anche le mentalità collettive. Si potrebbe così facilmente rispondere a Simone che se i ministeriali RdB non squadernano nulla è perché non lo hanno mai fatto, perché la natura della loro adesione alle RdB è spesso motivata da ragioni meramente corporative, perché il livello di coscienza politico sindacale è molto basso, perché, in alcuni casi, sia loro che le loro dirigenze non vogliono squadernare proprio nulla. Probabilmente erano le stesse ragioni per cui negli anni passati votavano DC o PSI e militavano nella CISL, nella UIL o nella CGIL. Una volta che si sono accorti che i loro sindacati hanno giocato al ribasso, hanno portato le loro chiappe in un sindacato che sui contenuti, anche di carriera, li difendeva maggiormente. Niente di più logico ed ovvio. Non secondarie sono le ragioni dei soldi, argomento che ci terrei che non venga sottovalutato nella sua enorme portata politica: con i soldi tieni aperte sedi, compri macchinari, paghi personale e distacchi, gite in treno, riviste, convegni, scampagnate e badate bene si finanziano anche organizzazioni politiche (rete dei comunisti ad esempio). Di qui, come diceva il buon Bettino Craxi, i soldi non bastano mai e certe volte vale tutto, ma proprio tutto: la CUB, per capirci, ha imbarcato un piccolo sindacato pensionati ipercorporativo perché gli portava allegri vecchietti, molte tessere ed un discreto numero di soldi. Lotta di classe negli ospizi?
Il consolidamento di forme burocratiche, non positive, da come le intendo io, che centrano poco con forme di efficacia organizzativa e molto spesso ne sono da freno, maturano come prassi, atteggiamenti, mentalità, disegni politici poco chiari e spesso per nulla condivisi, ecc. Mi sa, al contrario di quello che dice Cristiano che quando arriverà il momento rivoluzionario, sempre che arrivi, sarà troppo tardi: l’autoritarismo burocratico o lo si mette in discussione sempre ed efficacemente oppure prevarrà naturalmente allo stesso modo in cui si è consolidato nel corso degli anni. Forma e sostanza vanno di pari passo.
Cosimo fa, pacificamente, un’affermazione che ha, a mio avviso, una portata «rivoluzionaria»: il terreno sindacale come qualità necessaria, non unica ma non ultima, darebbe all’anarchia una progettualità concreto/sensibile. Sembra che egli dica una cosa semplice e facilmente comprensibile, ma in realtà, cela dietro questa asserzione, che non gli è nuova, alcuni presupposti che se portati alle loro estreme conseguenze potrebbero avere una carica radicale nella loro comprensione/attuazione.
Proviamo a vederli:

  1. Il piano politico radicale e rivoluzionario è nella sua espressione concreta definitivamente defunto, sia nella sua portata immediata sia nella sua funzione progettuale;
  2. Il livello sindacale agisce, anche se incoerentemente, nelle contraddizioni reali di classe;
  3. Se ne deduce che il piano di azione sindacale ha un livello di concretezza;
  4. Se ne deduce che il piano di azione sindacale ha un livello di efficacia;
  5. Ma di quale concretezza e di quale efficacia si sta parlando? Io credo che siamo in un ambito riformistico, radicale, ma riformistico;
  6. Dando senso alle parole che usiamo per me riformistico non ha una valenza negativa – riduttiva (tutt’altro): quello che dalle parole di Cosimo non si evince chiaramente è se sia diventato anche l’ultimo orizzonte praticabile.
Cerco di spiegarmi meglio: ci sono tra compagni anarchici almeno tre livelli di intendere il lavoro sindacale e di conseguenza il sindacato.
Il primo è che la sua funzione rimane quella della difesa sostanziale del potere d’acquisto diretto ed indiretto dei lavoratori ed è fondamentale in questo senso, a volte esclusiva, una lotta di difesa salariale ed in subordine tutte le altre questioni. Il sindacato deve essere grosso, forte, centralizzato ed alcuni livelli burocratici sono oltre che inevitabili in alcuni casi anche proficui. Sono secondarie alcune questioni che per altri sono centrali come i contenuti tra cui la rappresentatività equa nei posti di lavoro, la libertà di sciopero, i diritti di organizzazione, ecc. Non si capirebbe altrimenti perché facciano parte dei confederali (anarchici cigiellini).
Il secondo evidenzia sempre nel lavoro sindacale un carattere prevalentemente riformistico, dai contenuti però coerenti di difesa contrattuale, e non mette in subordine le altre libertà, ma ne mostra i contenuti di classe (come dicevo forma e sostanza dovrebbero andare un po’ più a braccetto). Il piano progettuale politico riformistico in queste organizzazioni è molto debole e spesso subordinato alle elaborazioni dei movimenti: Tobin Tax, reddito di cittadinanza, ecc. (anarchici CUB-Rdb, Cobas, Unicobas, Slai…)
Il terzo ed ultimo è quello che fa del sindacato un soggetto prevalentemente politico ancorché rivoluzionario (anarchici USI).
Sembra però, dalle parole di Cosimo, anche se a malincuore, che il sindacato possa essere, stante le cose, l’unico soggetto pienamente politico che sia credibile (non lo sono né i partiti né altre sedicenti organizzazioni rivoluzionarie). Di qui c’è a mio avviso un salto concettuale simile a quello anarcosindacalista, ovvero, come già detto, che il sindacalismo sia un ambito pienamente politico e che la politica non possa che essere e farsi sindacato in maniera totale e completa. Il limite grosso è che non credendo nell’orizzonte politico rivoluzionario del sindacato in quanto tale l’ambito politico non può che ridursi ad un riformismo piccolo piccolo, oppure l’attività militante sindacale non può che trovare soddisfazione, unica per la verità, che sul piano concreto della difesa immediata delle condizioni di classe dei lavoratori, anche nelle piccole vertenze individuali.
Altrimenti ed è questa la domanda che faccio a Cosimo: perché scoprire solo ora il piano concreto/sensibile del lavoro sindacale? La seconda: non ti sembra che sia una forzatura non solo semantica il portare la progettualità anarchica nel concreto specifico sindacale e che non si tratti invece di adattare l’impotenza politica e strategica di una scelta politica (quella anarchica) ad un livello che si è scelto come proprio da diversi anni?
Sono dubbi che attanagliano anche chi scrive.

Pietro Stara


Non orizzonte
ma terreno d’azione

di Cosimo Scarinzi

Caro Pietro,
quando ho letto la tua lettera ho fatto un, metaforico, salto sulla sedia. Con il tuo consueto gusto per la estremizzazione delle tesi tue ed altrui mi hai attribuito ma, in realtà, hai posto alla discussione un blocco di questioni che di molto eccede quanto io intendevo sollevare.
Sono andato a rileggermi cosa, nel merito, avevo scritto a Simone, e ho trovato la frase che riporto:
«Mi riferisco alla scelta mia e di altri compagni di assumere il terreno sindacale come quello che – non penso, va da sé, sia l’unico ma certo non lo ritengo l’ultimo – da alla progettualità anarchica una dimensione concreto/sensibile. E, quando parliamo di scelta sindacale non parliamo dei sindacati che vorremmo ma dei sindacati che riusciamo, fra mille difficoltà e contraddizioni, ad animare.»
Decisamente una frase, ma è il mio modo di porre le questioni, più prudente delle conclusioni che ne trai. Fra l’altro, devo confessare che, senza sentire la necessità di attribuire la paternità di quanto scritto a chi per primo ha formulato questa ipotesi interpretativa, riprendevo una tesi di Maurizio Antonioli che, in uno dei suoi eccellenti lavori sul sindacalismo d’azione diretta, spiegava in questo modo l’interesse di importanti settori del movimento anarchico per il sindacalismo e lo faceva riferendosi a vicende di un secolo addietro. Come vedi, nello specifico, non mi riferivo ad una novità ma ad un problema annoso.
Proviamo, a questo punto, ad assumere le conclusioni che proponi come ipotesi di partenza.
Sento, in primo luogo, l’esigenza di sgombrare il campo da due possibili equivoci.
In primo luogo, io non credo che lotta di classe e lotta sindacale siano concetti coincidenti. L’idea tipicamente sindacalista, nel senso del sindacalismo d’azione diretta, che sia possibile organizzare la classe in sindacati radicali capaci di esprimerne appieno la dimensione conflittuale e progettuale mi è estranea non fosse altro che perché questa posizione è stata atrocemente confutata dalle vicende storiche quantomeno con la Grande Guerra ed era stata sottoposta a condivisibile critica politica già prima sia in campo anarchico (Malatesta, ad esempio) che marxista (Rosa Luxemburg, per fare un altro esempio).
In secondo luogo non credo che la lotta di classe, sia intesa in senso stretto come conflitto su retribuzioni, organizzazione del lavoro, diritti sia intesa in senso largo come scontro fra gruppi sociali sull’assieme delle relazioni che li legano, risolutiva della questione sociale e, in particolare, tale da negare la specificità della proposta anarchica che è, a mio avviso, un modo particolare di intendere e praticare la lotta di classe ma non è solo questo e, anzi, si caratterizza in maniera rilevantissima per il modo di intendere il ruolo degli individui, le relazioni interpersonali, quelle fra gruppi umani e culture che li distinguono, il rapporto con la natura, ecc.
A mio avviso, per dirla in altri termini, la critica anarchica del potere ha una sua interna logica ed una sua efficacia ai fini dell’azione degli anarchici stessi che, in qualche misura, prescinde dalle caratteristiche contingenti dell’intervento degli anarchici su specifiche e pur rilevanti questioni.
Per non sottrarmi alla tua feconda provocazione, se non penso affatto che «Il piano politico radicale e rivoluzionario è nella sua espressione concreta definitivamente defunto, sia nella sua portata immediata sia nella sua funzione progettuale.», è anche vero che non ritengo che la sua concretezza si manifesterà, anche se non lo escludo in assoluto, nella forma dell’insurrezione o, se preferisci, dell’assalto al cielo. Questo convincimento deriva, banalmente, da una valutazione, che ritengo realistica, di oltre un secolo e mezzo di storia del movimento operaio su base planetaria, storia che non mi sembra autorizzare miti sulla natura intrinsecamente rivoluzionaria ed insurrezionalista della working class.
Mi rendo assolutamente conto che quanto ho detto richiederebbe ben altra argomentazione ma non ho né il tempo né lo spazio per farlo in una lettera e, comunque, è una delle questioni sulle quali ci misuriamo in diverse sedi.
Mi limito, quindi, ad affermare che, a mio avviso, i movimenti e le pratiche di emancipazione delle classi subalterne si danno, e tenderanno a darsi, nella forma di un conflitto, più o meno radicale, volto a ridurre la pressione delle classi dominanti e dello stato e che solo una crescita, un radicamento, un’elaborazione concettuale, da parte di settori ampi della working class, di questo conflitto potranno, in forme difficili da definirsi, determinare trasformazioni sociali radicali, le uniche che ritengo possano definirsi rivoluzionarie. Mi riferisco ad un processo complesso e contraddittorio che vede avanzamenti ed arretramenti, accelerazioni e rotture (pensiamo, per non andare lontano, alla vertenza di Melfi, la fabbrica più crumira d’Italia che diventa un punto di riferimento generale in poche settimane).
Gli anarchici, in quanto individui ed in quanto partito, possono e potranno svolgere un ruolo prezioso in questo percorso proprio a partire dal fatto che la nostra critica della gerarchia sociale ha una coerenza ed un’efficacia che mancano ad altre teorie politiche. Certo, la critica non basta, è necessaria l’azione, l’esperienza, la capacità di sperimentazione. E, a mio avviso, un sindacalismo radicale è un terreno di azione e di sperimentazione importante se non unico.
Quindi, stando alla metafora che proponi, il sindacalismo non è un orizzonte ma un terreno di azione del quale vanno dichiarati, senza ambiguità, i limiti ma anche rivendicata la ricchezza dal punto di vista dell’esperienza del conflitto.
Io credo, in altri termini, che oggi servano dei passi avanti su diversi, ed intrecciati, terreni:

  • la formulazione di un adeguata teoria critica libertaria, opera che non può che essere collettiva e che, per la stessa nostra natura, non può che prevedere una dialettica fra sensibilità diverse
  • il radicamento come movimento specifico nel conflitto sociale con una maggiore, e riconosco che non è uno scherzo, capacità di intervento efficace sulle questioni politiche, sociali e sindacali centrali per la massa dei lavoratori
  • la capacità di stare sul terreno sindacale con autonomia di giudizio e di proposte ma anche con una credibilità che solo l’essere buoni, o discreti, sindacalisti può darci.
Per ora mi fermo.

Cosimo


Necessità tecnica
di Claudio Strambi

Cari compagni,
la discussione ormai ha talmente tanti protagonisti e filoni di ragionamento che per intervenire è necessario fare una selezione di punti, pena l’essere eccessivamente lungo e dispersivo.
Innanzitutto una chiarificazione senza cui rischiamo di parlare di cose diverse. In generale i compagni parlano di burocratizzazione intendendo il fatto di avere nel sindacato del lavoro retribuito, cioè compagni che sono distaccati, in parte o del tutto, dal proprio lavoro professionale (operaio, insegnante, impiegato o altro) per svolgere lavoro sindacale.
A mio parere questo di per sé non costituisce una burocratizzazione sindacale, ma solo una necessità tecnica, implicante, questo sì, dei forti rischi di burocratizzazione.
Intendiamoci bene io credo nella necessità per i libertari di diffondere una cultura ed una pratica del lavoro volontario, ma ciò non significa negare la necessità tecnica di cui sopra.
Ed è proprio sul modo di gestire quella ineludibile necessità tecnica, che si gioca la partita politica del modello sindacale: sindacato burocratico o tendenzialmente antiburocratico; sindacato gerarchico riproducente il modello statale di organizzazione o sindacato tendenzialmente libertario; sindacato centralista o federalista-solidale.
In questo senso mi sembrano insufficienti le valutazioni, pur in parte condivisibili, di Cristiano. Il vecchio Ciste (soprannome di Cristiano per chi non lo sa), dice giustamente che nessuna formula «burocratico-libertaria» studiata a tavolino ci garantisce dai fenomeni di burocratizzazione, se non c’è e non riusciamo a suscitare un anelito di partecipazione diretta dei lavoratori alla vita sindacale. E poiché questo avviene solo in certi momenti storici, da questo deriva una implicita messa in secondo piano da parte di Ciste del problema dei modelli organizzativi.
Mi stupisce che un compagno con cui condivido un impronta fortemente programmatica dell’anarchismo sottovaluti per l’appunto l’aspetto programmatico sul piano del modello organizzativo sindacale.
Noi anarchici laici sappiamo che non esiste quel giorno «catartico» in cui le masse e gli individui saranno tutti ugualmente partecipanti diretti alle «cose pubbliche». Non esisterà mai cioè il giorno della «redenzione universale» dalla passività e dalla soggezione delle masse rispetto ai capi.
L’anarchia è da noi concepita come un lungo processo possibile, come il «cammino di liberazione dell’uomo», in cui il nostro sforzo soggettivo ha una grande importanza.
La redenzione universale non avvenne neanche in Spagna nel ‘36 e non avverrà nella prossima rivoluzione del duemila... In ogni epoca ed in ogni singolo momento storico sono risvegliabili un certo numero di forze attive e se uno dei nostri compiti è quello di aumentarle quanto più possibile, non possiamo certo limitarci a questo, adattandoci per converso alla burocratizzazione per quanto riguarda la gestione concreta delle organizzazioni sindacali (come di altre realtà sociali).
Noi, poiché siamo una forza politica, anche se estremamente particolare, dobbiamo avere una proposta politica anche su questo terreno (vedi alcune idee sul mio precedente intervento). Anzi, soprattutto su questo terreno che è tipicamente nostro!
Poi naturalmente questa proposta, e su questo sono d’accordo con Ciste, va portata nelle varie organizzazioni sindacali dove gli anarchici intervengono, per realizzare, non un sindacato puramente libertario, che probabilmente non è del tutto neanche l’attuale USI, ma un sindacalismo tendenzialmente libertario ed autogestionario.
Due battute sulla specializzazione dei saperi sollevata da vari compagni. D’accordo che la materia sindacale diventa sempre più tecnico-specialistica e che ci pone qualche difficoltà aggiuntiva. Motivo di più per distribuire il più orizzontalmente possibile i permessi; per fare 3 semi distaccati ad un terzo, piuttosto che 1 a tempo pieno; per distribuire e socializzare il più possibile risorse economiche e competenze.
Motivo di più per essere antiburocratici o meglio ancora antigerarchici. In specifico a Montecchi: insomma, il problema della burocratizzazione non sono certo le competenze dei commercialisti sui 730. Il problema sono le decisioni sui nodi politici; sono i rapporti di naturale complicità che si creano con le controparti quando vai sempre te a trattare, lontano dagli occhi dei tuoi rappresentati; sono quelle persone che passano 10, 15 o 20 anni a fare il sindacalista di mestiere e non vogliono (a quel punto mi vien da dire a ragione) tornare a lavorare; il problema sono i rapporti gerarchici che si creano quando un centro qualunque ha centralizzate su di sé gran parte o tutte le risorse dell’organizzazione.
In questo senso non credo di «dover essere capito». Se questi problemi ci sono in RdB dove io sto, ci sono elevati a potenza in CGIL e ci sono in misure diverse in tutte le organizzazioni esistenti.
Quanto al problema finale sollevato da Piotr Starovic (a), francamente non mi sembrava di aver colto nel ragionamento di Cosimo quel salto anarcosindacalista da lui attribuitogli. Tuttavia non c’è dubbio a mio parere che proprio la tendenza alla burocratizzazione dei sindacati di base metta in rilievo l’importanza di una azione politica coordinata dei libertari che agiscono all’interno di questi sindacati.

Claudio Strambi