La voce
del silenzio
La voce del silenzio (ECIG, 2005, pagg. 104, 10,00 euro), titolo ossimoro assegnato da Marirì Martinengo al libro sulla vita di Maria Massone, la nonna paterna, è un testo di particolare fattura che esula dalla panoramica dei generi letterari. Resta infatti quanto più fedele possibile alla scrittura di pensiero.
La voce del silenzio – viene da aggiungere – non è più muta perché la storia di M. M., cifra che marca il nome di entrambe le autrici del libro, è una narrazione scritta da Lei, appunto. I soggetti, sfumati e svolti sulla doppia trama della relazione parentale e della genealogia femminile, assumono l'autorialità di oggetti operanti la narrazione, al di là e al di qua del genere letterario: oggetto e soggetto articolano la trama della storia in fertile scarto.
Con audace e non meno rigoroso sbilanciamento ermeneutico, La voce del silenzio si fa opera di metodo storico. Anzi, per meglio dire, è riconoscibile come opera di metodo storico redatto in stile non dissertativo, né proposto o edificato su canoni storicistici, i quali prescindono dalla attualità del “qui ed ora” di un passato reso presente e di un presente in tensione al passato. Il tempo della narrazione è il presente storico stemperato nell'imperfetto ad uso della ricostruzione ambientale di luoghi – città, strade, abitazioni, stanze, costumi, abitudini d'epoca – dentro ai quali Maria Massone visse e dove Marirì Martinengo si muove con la maestria di chi, nei fatti e nei pensieri, nelle cose e nei sensi ad esse offerti, in una parola nei saperi della vita reale, sortisce l'essere storico: la capacità storica di fare ricerca di sé e dell'altro da sé in grazia della modalità interlocutoria tra sé e l'altro da sé secondo il sentire e l'orientamento d'essere di quel sentire.
Ecco che l'opera scritta da Lei comprende il passato della nonna reso presente dall'amore indagatore e pensieroso di fronte alla mancanza pressoché totale di elementi documentari e certificativi (rapporti, cartelle cliniche, diagnosi) la degenza all'ospedale psichiatrico, che segnino la storia dell'esistenza ammutolita di Maria Massone.
Marirì sa della nonna quale donna sottratta – a me piace pensarla anche donna sottrattasi – e scrive di lei sull'assenza, su quello che non c'è, su quello che suggerisce il vuoto di testimonianza scritta e diretta. Allora la domanda implicita che il libro sembra imporre suona così: chi eredita da chi? Entrambe, suggerisce la contemporaneità di quella mediazione storica improntata dalla narrazione di genealogia femminile. Il film di Pedro Almodovar Volver è esemplare a questo proposito. Fa poesia scenica di ritorno sulla presenza-assenza, sul visibile e sull'invisibile. Marirì Martinengo, con scrittura non proprio diaristica, per la quale il privato è pubblico, questo incede su quello, e per la quale lo spessore politico ha radici nell'interiorità, rende la ricerca storica opera d'arte.
Il tempo lineare che intercorre tra causa ed effetto, tra prima e dopo, è sostituito da una circolarità sconnessa: l'eredità simbolica viene non soltanto dal passato della maggiore, ma anche dal presente della minore che con scansioni contemporanee avvalora la trama immediata della storia.
Tra le dimensioni esistenziali nel tempo e nello spazio esiste vigile un continuum teoretico in cui ciascuna di esse è instricabilmente tendente all'altra e, in questa relazione, definisce l'altra pur mantenendo la debita distanza che non le confonde. La stessa cosa vale per le singolarità che animano il testo de La voce del silenzio.
Nella modalità di percepire il senso dell'eredità, la rappresentazione del tempo si staglia così: quello che nel passato sarebbe stato il futuro (ri)diventa, (ri)torna presente; quello che scarta con la mancanza (ri)esce alla narrazione più di quello che, con la scrittura, è possibile attestare. Quasi ritorno a qualcosa che la precede e anticipa.
Monica Cerutti Giorgi
Marirì Martinengo insegnante e studiosa di discipline umanistiche e linguistiche ha promosso insieme ad altre “Comunità di pratica e di riflessione pedagogica e di ricerca storica” che si ispira alla pratica politica della Libreria delle Donne di Milano, di cui fa parte.
Ha scritto su Hildegarda di Bingen nel saggio collettaneo Libere di esistere. Civiltà femminile nel Medioevo europeo (SEI, Torino 2001).
Ha pubblicato Le trovatore. Poetesse dell'amor cortese, Libreria delle donne, Milano 1996; Le trovatore II. Poetesse e poeti in conflitto, Libreria delle donne, Milano 2001; con Marina Santini ha curato Cambia il mondo cambia la storia. La differenza sessuale nella ricerca storica e nell'insegnamento, supplemento a “Via Dogana”, Milano 2002.
Per ECIG ha pubblicato nel 2005 La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti.
La fine della
globalizzazione?
Globalizzazione. Una parola che è ormai entrata nel linguaggio quotidiano, e che dovrebbe rappresentare un mondo destinato a diventare progressivamente, grazie alle nuove tecnologie e alla liberalizzazione dei commerci, un grande villaggio globale, ormai privo delle barriere del passato. Allo stesso tempo, però, dalla cronaca di tutti i giorni riceviamo segnali che vanno in una direzione diversa: giorno dopo giorno possiamo constatare, ad esempio, che le guerre condotte dall'America di Bush hanno messo in crisi l'ONU, lo “Stato degli Stati”, oppure che l'Unione Europea fa sempre più fatica a darsi una costituzione, o ancora che si stanno diffondendo tra i governi occidentali le tentazioni di proteggere i propri mercati dall'aggressiva concorrenza delle merci cinesi. Intanto le distanze tra Nord e Sud del mondo si ampliano, mentre i conflitti etnici e religiosi in Africa e Asia si moltiplicano. Quali caratteristiche sta dunque assumendo realmente l'attuale processo di globalizzazione, e quali sono i suoi limiti? Alessandro Volpi, docente di storia contemporanea all'Università di Pisa, elabora proprio questi interrogativi nel suo La fine della globalizzazione? Regionalismi, conflitti, popolazione, consumi (BFS edizioni, 2005, pp. 144, euro 12,00), mettendo a fuoco, attraverso il riscontro di dati di prima mano e gli spunti offerti dalla più aggiornata letteratura in materia, le più recenti trasformazioni socio-economiche e politiche avvenute sul pianeta. Volpi avvia il suo ragionamento dimostrando come in realtà di globalizzazione nel senso più comune del termine si possa parlare solo con riferimento alla circolazione dei capitali e degli investimenti: grazie all'abbattimento dei vincoli del passato, i flussi di denaro possono ormai muoversi da un paese all'altro in totale libertà, una libertà che si traduce però nel rischio concreto che i capitali si volatilizzino in un batter d'occhio, come insegnano le crisi finanziarie di Argentina, Russia, Thailandia e le numerose bancarotte pubbliche cresciute in modo esponenziale negli ultimi anni. Diventa invece più difficile parlare di globalizzazione, al di là dei luoghi comuni, per quanto riguarda lo scambio delle merci, considerate ad esempio le sovvenzioni e le protezioni di cui i contadini europei e statunitensi continuano a profittare, oppure nel caso della libertà di muoversi degli esseri umani, date le forti restrizioni che ancora i paesi più ricchi oppongono all'ingresso di donne e uomini di molte nazionalità nei propri territori, o infine se ci si sofferma sulle più generali relazioni geopolitiche, segnate dal netto aumento delle intese di carattere regionale o continentale volte a ristabilire rapporti preferenziali tra chi le conclude. A queste contraddizioni si sovrappone poi un nuovo – decisivo – fenomeno che secondo Volpi contribuisce a rendere sempre meno convincente la rappresentazione di un mercato mondiale destinato a diventare unitario, ovvero la speciale natura dell'impetuosa crescita economica di stati, come Cina, India e Brasile, che ormai non possono essere più collocati tra i “paesi in via di sviluppo”. Queste economie, ricorda l'autore, si stanno espandendo a vista d'occhio principalmente grazie alla loro capacità di tenere su livelli molto bassi gli stipendi dei lavoratori (raramente più di 100 dollari mensili) e così di produrre a prezzi infinitamente inferiori rispetto ai paesi occidentali. Non sono quindi destinati ad eguagliare gli standard di reddito occidentali, ma la ricchezza prodotta dà comunque la possibilità ormai a centinaia di milioni di cinesi, brasiliani e indiani di acquistare beni di consumo prima irraggiungibili, come automobili, elettrodomestici, apparecchiature tecnologiche, perché su quei mercati questi beni costano assai meno rispetto a quanto avviene a casa nostra. L'utilitaria cinese da 5.000 euro non è forse abbastanza accattivante per i gusti dell'automobilista italiano, ma contribuisce in modo determinante a trasformare i cinesi in un popolo a quattro ruote: già nel 2015 in Cina viaggeranno 150 milioni di veicoli. Insomma, i “nuovi consumatori” difficilmente potranno ambire a comprare abiti, telefonini e computer “di marca”, perché la differenza tra i loro salari e quelli degli occidentali rimarrà necessariamente enorme, ma aumenteranno costantemente di numero, andando a creare enormi mercati, autonomi e per certi versi “in conflitto” rispetto a quelli delle nazioni più ricche. D'altronde, fa notare l'autore, i segnali di questa crescente autonomia cominciano a farsi sempre più evidenti: gli scambi commerciali tra Cina, Brasile ed India si moltiplicano, proprio perché questi stati dispongono di una “capacità d'acquisto” molto simile, mentre parallelamente aumentano sulla scena politica internazionale le occasioni in cui essi esprimono posizioni comuni, come nel caso clamoroso del fallimento del vertice WTO di Cancun, quando in nome del libertà di vendere i propri economicissimi prodotti agricoli si delineò una vera e propria frattura mondiale con Europa e Stati Uniti. Si viene così a profilare una sorta di “regione economica” o più precisamente – secondo la definizione di Volpi – un «regionalismo di scambio» tra i paesi emergenti, destinato ad un futuro di crescente integrazione al suo interno ma che rappresenta un elemento di frantumazione della scena globale, visti i differenti, quasi inconciliabili interessi che progressivamente vengono alla luce. A partire da questo fenomeno dunque la globalizzazione viene ad assumere una nuova forma «a macchia di leopardo», caratterizzata da numerosi regionalismi, una chiave di lettura da non intendersi strettamente nel suo significato “geografico” che esprime le tante situazioni di sempre più intensa interrelazione, ma di contemporanea chiusura verso l'esterno, che vanno diffondendosi su scala globale. I vari «regionalismi», insomma, creano “cittadelle fortificate” che non comunicano tra di loro: a quelli «istituzionali», come ad esempio l'Unione Europea blindata dagli accordi di Schengen che solo lentamente realizzerà un pieno amalgama dei nuovi membri, si affiancano raggruppamenti definiti in base alle differenti possibilità di accedere alle tecnologie, ai farmaci, alle risorse naturali. Questi fenomeni di frammentazione, e di riaggregazione, sono ovviamente condizionati in maniera profonda dall'azione di iperpotenze come USA e Cina, alle quali Volpi dedica una specifica e dettagliata analisi.
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Se degli Stati Uniti di Bush colpiscono le connessioni tra l'aggressivo “unilateralismo” in politica estera, la tendenza a privilegiare accordi ancora una volta di natura regionale rispetto alla scena “multilaterale” del WTO e le chiusure protezioniste di un'economia sostenuta anche dalle commesse militari, l'attivismo di Pechino verso numerosi stati produttori di petrolio africani e mediorientali, determinato dalla sempre maggiore necessità di combustibile, permette di gettare lo sguardo sull'ascesa anche geopolitica del gigante asiatico. Un gigante che non rallenta la propria corsa nemmeno di fronte all'impennata del prezzo dell'oro nero, perché il segreto del suo successo è l'infimo livello delle retribuzioni; ma proprio il massiccio aumento delle quantità di beni prodotti e l'avvento di centinaia di milioni di nuovi consumatori (di merci e di energia) accelerano in modo drammatico lo sfruttamento delle risorse del pianeta, per loro natura limitate. Si rendono così ancora più urgenti i problemi dell'inquinamento dell'atmosfera e del surriscaldamento del pianeta, di fronte ai quali il protocollo di Kyoto sembra ormai diventato poco più di un palliativo. Le catastrofi naturali si sono infatti infittite e hanno fatto sentire le loro conseguenze, economiche e umane, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: negli anni novanta il 96% delle vittime di inondazioni, terremoti e uragani abitava in questi stati. I cataclismi sono anche tra le cause delle migrazioni di milioni di persone, così come i conflitti etnici e religiosi, che compromettono ulteriormente le possibilità di vincere la povertà del continente africano. Del resto sfuma ormai l'obiettivo di poter prevenire diplomaticamente gli scontri armati: dopo la caduta del muro di Berlino le guerre tra stati sono state sempre meno frequenti a livello mondiale, e sempre più spesso a combatterle sono truppe paramilitari o mercenari, non gli eserciti regolari. Di fronte a questa «regionalizzazione dei conflitti», e all'impossibilità di trovare una sede internazionale per regolarli, emerge con grande evidenza il fallimento dei sogni di chi immaginava una globalizzazione tendenzialmente “democratica”, dove i contrasti e le difficoltà venivano affrontati in maniera collettiva su scala planetaria. Il quadro delineato dal volume raffredda le speranze: in questo senso la globalizzazione, scrive Volpi, «pare esaurire la propria vicenda ancor prima di essersi realizzata».
Alfredo Breccia
Capitan Tempesta
o l’eroismo ante litteram
In tempi di letteratura e critica postcoloniale parlare di una poco conosciuta avventura scritta da Emilio Salgari potrebbe far sudare freddo alcune/i teorici, ma forse considerando che la letteratura per ragazzi non è mai del tutto presa sul serio passerà inosservata questa segnalazione di un libro di uno scrittore che trattò spesso tematiche di genere in modo ardito, ma ancora con una certa condiscendenza e folklore le culture altre. (1)
Capitan Tempesta (Edizioni Mursia, Collana Salgariana, 1993, euro 12,00) pubblicato per la prima volta nel 1905, non ebbe quasi seguito al contrario di altri fortunati romanzi per ragazzi dello stesso Salgari che il tempo confermerà come un autore di avventure legate a scenari esotici. Mi capitò di leggere Capitan Tempesta a 10 anni, prendendo il volume in prestito nella biblioteca del piccolo paese dove si era trasferita la mia famiglia. In quella discreta biblioteca (nel Bergamasco c'è una tradizione di biblioteche molto ben organizzate) trovai una collana salgariana per ragazzi dalle copertine vivacissime e la lessi tutta. Capitan Tempesta fu una delle ultime letture di Salgari, ma che smacco, era una vera scoperta, probabilmente non sbaglio a pensare che per le generazioni dopo la mia lo stesso impatto l'ha avuto Lady Oscar.
Le vicissitudini di Eleonora, duchessa D'Eboli e migliore lama dell'armata crociata che difende i bastioni di Famagosta dagli assalti degli infedeli, si snodano fin dalle prime pagine con un ritmo incalzante. Eleonora/Capitan Tempesta in abiti maschili è il giovane cavaliere dal braccio duro e inflessibile che guida i suoi uomini nella difesa della città assediata e che comincia ad essere un mito per chi le è sottoposto. Tutti, con l'eccezione del suo luogotenente e di un servo arabo, ignorano la sua identità. È lì con un compito: salvare il marito prigioniero.
Smascherata da un ufficiale polacco che insinua che il bel giovane sia una donna accetta la sfida a duello. Dovrà dimostrare il proprio valore scendendo in campo contro Il Leone di Damasco (2) e mentre il polacco primo sfidante del cavaliere musulmano perderà il duello e abiurerà la propria fede cattolica, lei/lui vincerà sul campo rifiutandosi anche di uccidere l'avversario ormai impotente. A sua volta ferita gravemente nelle fasi finali dell'assedio verrà aiutata nella fuga dallo stesso avversario che aveva sconfitto.
Le informazioni in suo possesso la portano alla fortezza dove il marito è prigioniero. Si farà passare per un giovane mussulmano che combatte contro i cristiani e in tale veste farà innamorare la bella e terribile Haradja, nipote di Ali Pascià. Scapperà poi con il marito tentando di arrivare in un porto amico con una nave il cui equipaggio è di ex prigionieri di Haradja. Tradita dall'arrivo del polacco rinnegato finirà prigioniera dello stesso, vedrà morire il marito appena salvato e un colpo di scena la porterà ad essere salvata dal solito Leone di Damasco che per lei rinnegherà fede e vita e si imbarcherà per l'Italia.
L'originalità di Emilio Salgari in questo romanzo d'avventure è che senza forse rendersene conto (ma quanto, visto che il movimento suffragista era molto attivo all'epoca e le viaggiatrici in abiti maschili erano più d'una e piuttosto note?) ribalta molti stereotipi di genere, lascia che la sua eroina/eroe entri ed esca dai canoni di sesso/genere fino a sfiorare un accenno di erotismo con Haradja che la crede assolutamente uomo. Nello stesso tempo se Capitan Tempesta combatte gli infedeli lo fa senza odio, riconosce il loro valore e la loro umanità e vede chiaramente come di eroi ve ne siano in entrambi gli schieramenti e come vi siano i vili.
È Salgari, scrittore di sole avventure, che descrive la vita di Haradja e delle donne nell'Islam come un tormento e una prigione. Non che le nostre stessero meglio, ma qui ci interessa sottolineare come lo scrittore metta in rilievo che il togliere a queste donne ogni ambito d'azione e sviluppo della personalità le porti poi per riflesso ad assumere un lato inutilmente crudele con se stesse e con gli altri.
Yolanda la figlia del Corsaro Nero (3) è un'altra eroina di Salgari che smuove i confini di genere. Li smuove molto meno, ovvio, anche perché non c'è passing nel suo caso, ma anche lei lascerà una traccia profonda nella letteratura per ragazzi e ci informa che l'interesse per le donne forti non è casuale in Salgari e che nei limiti imposti dall'epoca in cui scriveva seppe comunque ritagliare alle sue personagge una loro autonomia, una storia e un carattere.
Le tinte caratteriali forti sono del resto un'impronta salgariana irrinunciabile per l'autore. Uomo sfortunato e scrittore pagato malissimo, oberato dai debiti e sfruttato da abili editori si toglierà la vita il 25 aprile 1911. Le sue opere troveranno una collocazione più che dignitosa con il tempo e continuano ad affascinare ragazze, ragazzi e adulti. Lo si potrebbe leggere all'infinito.
Nadia Agustoni
Note
- Emilio Salgari alterna uno schema di colonialismo classico nel suo sguardo su culture altre a momenti di slancio liberatorio in cui pare librarsi sopra gli stereotipi d'ogni genere. Un'analisi completa non mi è qui possibile.
- Il Leone di Damasco divenne il seguito di Capitan Tempesta, Edizioni Mursia collana Salgariana. In questo secondo volume (poi la serie si interruppe) Eleonora/Capitan Tempesta è riportata a una dimensione più convenzionale.
- Yolanda la Figlia del Corsaro Nero, Edizioni Mursia, Collana Salgariana.
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