rivista anarchica
anno 38 n. 339
novembre 2008


musica

Alessio Lega e i cantautori
di Enrico de Angelis

 

Si intitola “Canta che ti passa”, sottotitolo “Storie e canzoni di autori in rivolta francesi, ispanici e slavi”. È un libro pubblicato da Stampa Alternativa in cui sono raccolti 32 ritratti d’autore scritti da Alessio Lega e originariamente pubblicati sulla nostra rivista.
Al libro è allegato un cd, un’inedita antologia musicale arrangiata dal contrabbassista Roberto Bartoli e interpretata in italiano da Alessio con le canzoni di 16 cantautori.
Pubblichiamo qui la premessa di Enrico de Angelis, musicologo, anima del “Club Tenco”.
E una recensione di Gianni Mura, guru del giornalismo sportivo ma soprattutto amante della buona musica, del buon vino (suo un ricordo di Veronelli pubblicato su “A”) e delle idee anarchiche.

 

Potenza delle date, era un primo maggio quando ebbi il primo contatto con Alessio Lega. Nel 2003. Avevamo e abbiamo un amico comune, Marco Ongaro, che mi incoraggiò a scrivergli e mi diede il suo indirizzo di posta elettronica, dal nome difficile da dimenticare e facile da rintracciare in rubrica: amoreanarchia. Così quel giorno gli scrissi una mail. Avevo letto su “A” il suo pezzo su Bulat Okudzava, press’a poco lo stesso che si ritrova in questa raccolta. Non sapevo niente di Alessio Lega, fui sbalordito che qualcuno scrivesse con tanta competenza su un artista così grande ma così misconosciuto da noi, però – da operatore del Club Tenco – rimasi deluso perché non aveva citato la partecipazione (rarissima e avventurosa) di Okudzava al Premio Tenco 1985. Così presi pc e outlook in mano, e vergai, insieme ai complimenti, le mie rimostranze.
Alessio mi rispose subito: “Hai ben ragione... solo che questi miei articoletti sono l’iniziativa di un “pazzo” (me) che, stanco di parlare solo con se stesso dei suoi autori favoriti, non ha altro intento se non quello di cercare di mettere la sua passione focosa a disposizione di chi vuole... e chissà, in quest’intento autoreferenziale, quante cose importanti tralascio...”
Tachan

Personaggi straordinari

Che fosse un pazzo e un appassionato l’ho capito subito. Tanto che mi spaventai un po’ nel vederlo scrivere che “aver trovato finalmente un interlocutore mi ha fatto smarrire il senso del limite”. Non gli diedi grande soddisfazione come assiduo interlocutore epistolare, e spero ora di rimediare un pochino con queste righe.
Quella sua mail continuava però con una bugia: “Il fatto è che sono poco abituato a scrivere per la stampa: quando canto, l’applauso (più o meno freddo) e la tensione dell’attenzione mi dicono subito quanto viene recepito ciò che mi sforzo di comunicare; scrivendo, invece, mi trovo un po’ nella situazione del naufrago che lancia messaggi in una bottiglia senza poter ben capire se e come vengano colti”. Alessio è dunque anche un cantautore (e almeno una gratificazione gliel’ho data quando gli telefonai per dirgli che aveva vinto la Targa Tenco 2004 per il migliore album di un cantautore debuttante), ma la bugia stava nell’alludere a una scarsa confidenza con lo scrivere. Questo libro, che riunisce tutti o quasi i saggi musicali tratti da “A”, compreso quello su Okudzava dove adesso il riferimento al “Tenco” c’è, dimostra palesemente il contrario.
Ora, al sottoscritto viene riconosciuto che di canzone d’autore ne sappia, e credo che questo sia il motivo per cui mi è stato chiesto di scrivere queste righe. Vi assicuro però che Alessio ne sa molto più di me. Nel nostro giro di amici appassionati, ci chiediamo ogni tanto se qualcuno degli artisti di cui Alessio parla non sia inventato di sana pianta, per un gioco letterario caro al Novecento e per una beffa ordita nei confronti di noi mortali. E chissà se “A, rivista anarchica” ne è complice o vittima essa stessa.
Alessio infatti ci racconta di personaggi che sappiamo straordinari (e che magari, come Brassens, hanno venduto 30 milioni di dischi) e di altri che ci appaiono improvvisamente ancora più straordinari proprio per quel che non ne sappiamo. Alza il velo su storie di talento, di coraggio e di passione civile che in questi decenni, senza che un bel po’ di italiani se ne accorgessero, hanno percorso l’Europa tutto intorno a noi, dall’estremo ovest all’estremo est del continente. Eludendo bellamente il dominante modello anglofono che in questo libro non ha accesso. E dove lo trovate oggi uno che procede per la sua strada infischiandosene della lingua e della cultura prevalente?
Prendiamo per esempio l’incredibile storia vera di Nino Ferrer. Questo sì personaggio molto popolare in Italia, tanto da farci chiedere sulle prime come abbia fatto ad infilarsi in queste pagine, tra uno Jacques Brel e un Adriano Correia de Oliveira, tra un eccelso venerato e un eroe negletto, lui che non è né l’una né l’altra cosa. Ma, come osserva Alessio, noi di Nino Ferrer sappiamo solo che per un po’ ha simpaticamente imperversato nella nostra tv con la sua “pelle nera” o addirittura con una macchietta attinta da Nino Taranto. Al massimo ricordiamo forse la notizia del suo suicidio.
Invece Alessio ci racconta che questo poeta-musicista ha operato una sintesi sorprendente e spregiudicata tra canzone, rock, jazz e sperimentazione, pagata con la vita. Che si chiama Agostino Ferrari ed è nato a Genova. Che è un pioniere del rock francese, che sa facilmente parodiare lo yé-yé, che vende milioni di copie con uno scioglilingua improvvisato su due piedi nel dare l’annuncio dello smarrimento di un cagnolino in un dancing di Saint-Tropez. Ma tutto questo non gli piace: lui si sente un poeta e un musicista vero, e se ben guardate, sul retro delle canzoncine allegre che la discografia gli chiede, c’è sempre una facciata B pensosa e dolente. Ha successo anche in Italia, ma la Rai gli censura una canzone dove c’è la parola letto (inteso, sia chiaro, come participio passato di leggere!), così Nino rientra in Francia e solo allora incide quello che lui chiamerà “il mio primo disco”. Tutt’altra musica infatti, che Alessio ci spiega per bene: tra caos sonoro, John Coltrane, Pink Floyd, psichedelia, indignazione pacifista. Non ha successo, Nino è insofferente, litiga con tutti, si autoproduce altri dischi “duri e sprezzanti”, e finisce per ritirarsi da freak in una tenuta della campagna del Sud, dove un giorno, per errore, atterra un battaglione di paracadutisti. Pacifista sì, ma Nino li accoglie fucile alla mano. Nella stessa tenuta, con lo stesso fucile, si sparerà un colpo in petto.

Ferrat

Alessio parte da lontano

Ve lo sareste aspettato da uno che cantava “Viva la campagna”? da quello di “Agata” e “Donna Rosa”? È così che Alessio Lega ci accompagna, entusiasmato ed entusiasmante, tra queste storie fiere e imprevedibili di canzoni, cantanti, cantautori, chansonnier, tutti attenti a ciò che accade loro intorno, al “sociale” e al “civile” che li circonda (come circonda o almeno sfiora tutti noi), là dove però non c’è come da noi la distinzione, anche a pari qualità, tra autori “politici” e autori “pop”.
Alessio parte da lontano. Nell’anno di pubblicazione di questo volume, noi celebriamo in casa nostra i 50 anni dalla nascita dei Cantacronache, dei testi in musica di Calvino e Fortini, delle “canzoni della mala” di Strehler e Fo, e ci sembra passato tanto tempo. Ma Alessio ci ricorda che in Francia la canzone sociale, la “canzone realista”, la canzone socialista e anarchica passano già dall’Ottocento e dal primo Novecento, e che già allora nei cabaret si metteva in musica Verlaine. Gaston Couté era una specie di Rimbaud della canzone. Jules Juy scriveva un testo al giorno e fu vinto dalla follia. Si battevano entrambi contro il servizio militare, contro la pena di morte, contro la tortura. Le stesse cose di oggi. Non saranno serviti a molto, Alessio dice che non hanno lasciato traccia nella storia della letteratura o del costume, ma la canzone ne ha guadagnato, eccome, e comunque piccoli circoli di appassionati ancora li venerano.
Altra sorte toccò a un loro contemporaneo, Aristide Bruant, “poeta della strada” sì, ma – ci avverte Alessio – abbastanza provveduto da tenere le distanze fra la propria esistenza e quella dei personaggi alla Zola che cantava. E che è rimasto nella storia grazie anche alla indovinata cura della propria immagine esattamente come si fa oggi (chi non ha presente la figura di Bruant disegnata da Toulouse-Lautrec e appesa in milioni di case o locali pubblici, non solo francesi?). Sua era proprio una delle “canzoni della mala” che cinquant’anni fa incise Ornella Vanoni, storia di una prostituta che diventa paradossalmente protettrice del suo magnaccia. Mentre in “Rue St.Vincent” Alessio trova addirittura un’antenata della Marinella di De André.
Con un salto cronologico in avanti, ecco ovviamente i “tre grandi” della canzone francese.
Georges Brassens, che Alessio colloca accanto a Molière, a Rabelais, a Victor Hugo. Uno dalla poetica “apparentemente stilizzata in un’arcadia ferma stilisticamente e come preoccupazioni formali alla fine dell’800”, dalla scrittura “matematica” come un rompicapo, ma in realtà inzuppata di tanta tensione morale da non poter essere liquidata come virtuosistica ed enigmistica, nonché innovativa perché dopo aver raccolto tutta la tradizionale retorica francese della strada e del bassifondo Brassens la innesta sullo swing leggero e sorridente ereditato da Charles Trenet.
Léo Ferré, a tutt’oggi poeta “scandaloso”, che molti non reggono per l’ingombro di idee e di vigore che porta nella canzone, e che – invertendo un’affermazione di Alessio – “può lasciare disturbati ma non lascia indifferenti”.
Jacques Brel, e che dire di lui che non sia già stato detto? Alessio qualcosa ci aggiunge, quando per esempio, implicitamente rintuzzando la frequenta critica di un Brel musicalmente convenzionale e non innovatore, conclude che “la forma chiusa della canzone gli è congeniale perché non può perdere tempo ad attardarsi nella riflessione sugli utensili, ha altre priorità: deve respirare e urlare, bruciare e fuggire”.
Ma Alessio Lega ci fa persino venire il dubbio che gli assodati “tre grandi” della canzone francese non siano affatto tre. Quanti grandi “a latere” snocciola a pari livello in questo libro.
Boris Vian, la cui breve vita corrisponde ad una Francia sempre in guerra, autore di quella pietra miliare che è “Le deserteur”, a proposito della quale Lega fa un’annotazione sorprendente: la canzone pacifista per eccellenza si chiudeva, nel manoscritto originale, in direzione opposta: non cantando “avverta i suoi gendarmi che non porto armi e che possono sparare”, bensì “avverta i suoi gendarmi che sono armato e che so sparare”!
Georges Moustaki, che non è soltanto “Lo straniero” inteso come suo grande successo italiano, ma è straniero in toto: nato in Egitto, ebreo della comunità greca di Alessandria d’Egitto, frequentatore di libanesi, compagno di una palestinese e perciò osteggiato in Israele, preferibilmente dimorante a Bahia; uno che parla francese, arabo, ebraico, italiano, spagnolo, portoghese, inglese e greco; uno che ha lavorato con Theodorakis, con Piazzolla, con Jobim, con Chico Buarque, con Henri Salvador, con Morricone, con Guccini, e con altri ancora; e per tutti questi motivi “portatore di una cultura vissuta come la filosofia del confronto”.

Correia De Oliveira

L’indimenticato Herbert Pagani

Serge Gainsbourg, apparentemente fuori linea in questo contesto, perché autore del tutto indifferente a rivendicazioni sociali, ma capace di violare e virare a reggae “La Marsigliese” spiegando dal palco: “Io sono un rivoluzionario, che cantando su una musica rivoluzionaria ha ridato alla Marsigliese il suo senso originale!” Vero mito popolare in Francia e ahimè conosciuto in Italia soltanto per “Je t’aime, moi mon plus”, per giunta senza che la maggior parte degli ascoltatori capisse che si trattava di “un inno alla ripetitiva vacuità dell’atto sessuale”. Alessio Lega aggiunge altre osservazioni decisive su questo artista, osservando come sia il suo malessere esistenziale a non ispirargli canzoni di protesta in quanto “la sua sconfitta si situa a priori”, individuando nelle sue canzoni, al posto della tensione morale, “una grande estetica dell’esistente in cui convivono (o forse muoiono assieme) sordido e sublime”, e paragonandolo al Laocoonte che viene sostenuto dagli stessi serpenti che lo strangolano.
Tanto divo Gainsbourg, quanto antidivo Jean Ferrat, a lui antititetico pure nella capacità di coniugare al massimo livello qualità estetica e qualità morale. E Maurice Fanon, che oggi persino la Francia ha dimenticato, ma chi scrive no avendolo potuto una sera vedere in una cave di Montmartre nei giorni più felici della mia vita. E Pierre Perret, maestro di forma (è stato consulente per la riforma dell’ortografia francese) e di contenuto (la sua “Lily” ha condizionato in positivo la coscienza antirazzista dei francesi). E Henri Tachan, che già al primo disco si vide censurate 7 canzoni su 11, e arrivò a cantare un’invocazione rivolta ad adolescenti, infermiere, suore e puttane perché dessero sollievo ai desideri sessuali dei vecchi. E Anne Sylvestre (unica donna di questo giardino, ma come mai, Alessio?), che ha il coraggio di dedicare una canzone al proprio corpo chiamandolo carcasse. E Julos Beaucarne, di cui chi sapeva che avesse pubblicato una trentina di cd e una ventina di libri, tra canzone, poesia, filosofia, ecologia e pace? E Renaud, una specie di Vasco Rossi francese tanto là è famoso, che si presenta dapprima come gavroche, poi da loubard (non preoccupatevi, Alessio vi spiega per bene queste parole), e conferisce all’argot una nuova veste rock sorvolando il punk, tanto da venir poi accusato di “rock di retroguadia”. E Gilbert Laffaille, così goffo in scena da dimenticare i testi e inciampare a ripetizione. E Richard Desjardins, protagonista musicale della cosiddetta “rivoluzione tranquilla” del Québec in anni ’70. E Allain Leprest, che Alessio osa vedere come un Brel redivivo.
Alessio Lega è così francofilo che include decisamente tra i francesi anche Herbert Pagani, nato a Tripoli da ispano-ebrei libanesi, cantautore caro al pubblico francese quanto a quello italiano, che già nel 1972 parlava di “Stati Uniti d’Europa”. Ma la labilità o addirittura l’assenza di confini è una costante di questi ritratti. Pensiamo anche a Serge Utge-Royo, in bilico tra Spagna e Francia perché figlio di profughi spagnoli a Parigi; dunque vittima indiretta della dittatura franchista, che tuttavia non si perita di affermare chiaramente: “Oggi più che mai mi sembra che le democrazie rappresentative permettano soltanto di scegliersi il proprio padrone”.

Beaucarne

Il ruolo dell’esilio

Ecco un’altra caratteristica che si ritrova tra questi busti di pietra che Alessio allinea nella sua galleria: l’esilio.
Da Franco scappò anche Paco Ibanez, famoso al mondo – tra le altre cose – perché ha sempre rifiutato tutti i premi che gli sono stati offerti, compreso il nostro Premio Tenco. Quasi tutta la sua discografia è fatta di poeti musicati, e quando gli fu chiesto “perché non ha mai musicato testi tuoi?” la risposta fu disarmante: “Ci sono ancora troppe bellissime poesie da musicare”.
Sempre da Franco scappò Lluis Llach, perseguitato per quello che diceva (nella celebre “L’estaca” per esempio, che poi, tradotta in polacco, divenne l’inno di Solidarnosc) ma anche per come lo diceva, cioè in catalano e solo catalano, a qualunque costo. “Nazionalista di sinistra”, secondo una curiosa etichetta da noi sconosciuta.
E per proseguire il gioco gaberiano della destra e della sinistra, vogliamo azzardare che il fado più tradizionale (specie quello di Coimbra, goliardico e fatalista) sia un pochino “di destra” e che anche per questo avessero a un certo punto preso le distanze da esso tipi come Adriano Correia de Oliveira (“il miracolo della difficile semplicità”, per dirla con il poeta Manuel Alegre) o come Josè Afonso detto Zeca, la cui “Grandola vita morena” ebbe addirittura la nobile sorte di annunciare per radio la “rivoluzione dei garofani”? Prima però Zeca era stato il primo della lista degli artisti proibiti alla radio ed era finito in galera per aver appoggiato il movimento studentesco. “A canzoni non si fan rivoluzioni” dice il poeta. “Be’, Zeca c’è riuscito” dice Alessio Lega.
E praticamente tutto tranne che fado praticò Jose Mario Branco, grande cantautore quanto arrangiatore (un altro che preferì l’esilio piuttosto che sparare contro gli africani nelle guerre coloniali portoghesi): canzone francese, blues, jazz, rock, psichedelia, funky, musica medievale, folclore contadino, canti dei pescatori, musica sinfonica e persino rap. Tutto tranne che fado.
In esilio a Monaco trascorse vent’anni l’operaio praghese Karel Kryl, troppo ribelle alla disciplina di partito, un poeta beat nella Primavera di Praga, stroncato a cinquant’anni. Per fortuna tuttora attivo, tra rock, heavy e quartetti d’archi, è invece Jaromir Nohavica, a cui si deve un adattamento in ceco del “Disertore” di Vian. A chi dice qualcosa questo nome? Eppure sappiate che dei giovani italiani gli dedicano dello spazio in web. Nel suo repertorio, immancabili, ci sono pure Vladimir Vysotskij e Bulat Okudzava, i due grandi russi di questo libro; loro, in un certo senso, “esiliati in patria”. Sembra quasi una leggenda metropolitana tanto appare inverosimile, ma si mormora che Breznev disse di loro: “L’aria di Mosca sarà più respirabile quando Okudzava e Vysotskij non la respireranno più”. Non abbastanza dissidenti da essere costretti alla fuga o al gulag, ma così indipendenti e perciò così malvisti da operare in mezzo a ostacoli e difficoltà, finché entrambi finirono per registrare molti dischi a Parigi. Alessio commenta che dunque i comunisti francesi, contradditoriamente, accoglievano con orgoglio quel che nell’Urss era osteggiato, purché non lo si reimportasse là… Dove peraltro il regime non riuscì a soffocare le loro voci. Con Vysotskij accadde all’ennesima potenza ciò che accadde da noi col primissimo Fabrizio De André: con il solo passaparola, consegnandosi di mano in mano, come carbonari, nastri e cassettine artigianali, i russi fecero di Volodja un idolo, e in centomila parteciparono ai suoi funerali quando, quarantaduenne, gli eccessi lo uccisero come un Gainsbourg dell’est.

Atahualpa Yupanqui

Infine, fra tanti supereroi, c’è un dio. Per Paolo Conte, e non solo per lui, è un dio Atahualpa Yupanqui, il gaucho cresciuto nell’immensa solitudine degli elementi, che scopre la poesia e la chitarra classica, ma poi – lo stesso percorso della nostra Giovanna Marini – abbandona le composizioni di Sor e di Giuliani perché risucchiato dal fascino della ricchissima musica folclorica del suo popolo, fino a diventare “medium, soffio vitale e creatore che unisce l’uomo all’uomo, l’uomo alla terra”. Poeta anche del silenzio e della pausa, ebbe a scrivere: “Prima che il popolo li canti, i canti non esistono ancora, e quando il popolo li canta l’autore non esiste più”. Una bella lezione, per quelli che come noi amano la “canzone d’autore”.

Enrico de Angelis


Conoscenza e amore

di Gianni Mura

Scrivo molto volentieri dell’ultimo lavoro di Alessio Lega proprio perché non mi sento il più indicato a farlo. Sono di quelli che hanno votato il suo primo cd, Resistenza e amore, al Club Tenco, che appena possono vanno ad ascoltarlo, che su A vanno a cercare i suoi ritratti di cantanti-autori. Quelli di un certo tipo, naturalmente. Quelli che possono essere molto popolari o di nicchia, tanto è uguale: non ne parla nessuno, è come se non esistessero.
Mi sono convinto che non dipenda nemmeno da quello che cantano (Tizio è anarchico, Caio è comunista), ma solo da un profondo disprezzo per tutto quanto si muove tra il popolare e il culturale. Non ne fa le spese solo la canzone politica, ma anche quella d’autore. Un esempio, uno degli ultimi: il 6 settembre a Pola, tra la casa dov’era nato e il mare, è stato inaugurato un monumento a Sergio Endrigo. Una figura non certo secondaria nella storia della canzone italiana. E un fatto insolito, visto che Pola l’aveva lasciata da bambino. Il monumento è allegro, con un profilo d’arca di Noè e il cane, il gatto, un po’ di sagome d’animali che piaceranno ai bambini, una panchina per sedersi (non ci sono divieti). Sarebbe piaciuto a Sergio, credo, mentre un monumento pomposo, tipo Verdi o Rossini, l’avrebbe fatto morire dal ridere. Be’, nessuno ha scritto una riga, nessuno ha spedito inviati, eppure ci tengono informatissimi sul reggicalze di Madonna e le diete di Jennifer Lopez.
Diffidenza, ostracismo, silenzio. Tutto questo a Lega non importa. Di uno che parte da Lecce a 17 anni per andare a Torino a conoscere Fausto Amodei tutto si può dire, ma non che abbia le idee confuse. Di uno capace di scrivere canzoni sulla cronaca (dolorosa, infame), nemmeno. È questo che lo accomuna al Cantacronache, canzoni come Rachel Corrie e Dall’ultima galleria. È lo stesso solco di Ivan Della Mea (Ciriaco Saldutto, Franco Serantini). Ma c’è in Alessio una maggior conoscenza e amore per i grandi padri o fratelli maggiori: la triade Brassens-Ferré-Brel (più i primi due del terzo) e dalla maggior conoscenza è nata una sempre più forte voglia di farli conoscere. Raccontandoli (su A e in questo libro) e cantandoli (Sotto il pavé la spiaggia nel 2006 e ora questo cd accluso a Canta che non ti passa). Libro e cd sono editi da Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 165 pagine con prefazione di Enrico De Angelis, 18 euro ben spesi. “Storie e canzoni di autori in rivolta francesi, ispanici e slavi” dice il sottotitolo.


Aggiungo qualcosa di mio: delle 18 canzoni le 4 che Alessio rende meglio sono di Bruant (“Les canuts”), Llach (“Abril 74”), Utgé-Royo (“Pardon, si vous avez mal à l’Espagne) e Vysotskij (“Bratskie mogily”). Mi permetto una critica da lettore: mi sarebbe piaciuto che il libro fosse tre volte più grosso, perché tutti quelli che si sono rivoltati con un microfono in mano (e non solo) hanno storie bellissime, anche tristi, bruciate verdi talvolta, e i testi sono realmente illuminanti, non è un aggettivo usato a caso. Storie che risultano un po’ compresse e tuttavia piene di particolari, di notizie. Altro esempio: non sapevo (l’ho letto in questo libro) che nel ’49 fu Edith Piaf a darsi da fare per le esibizioni in Francia di Atahualpa Yupanqui.
Sei un ignorante, direte. No, anzi, sono convinto di essere uno degli italiani più ferrati nella conoscenza di queste musiche, di questi testi, di queste storie. Mi metto in coda dietro a quelli del Tenco, ai ricercatori di professione e purtroppo non da oggi dietro a Lega. Quando mi ha detto con leggerezza “ah, così non conosci Julos Beaucarne” (è vero, non lo conoscevo, e quella sua leggerezza mi ha fatto sentire una merda) ho pensato che meglio sarebbe stato tacere che iniziare un discorso a base di Fanon, Perret, Tachan. Quelli li conoscevo bene, ma lui di più: non solo li conosceva, ma stava anche traducendo le canzoni.
Bel titolo, “Canta che non ti passa”. Mi piace, di Lega, sia la voglia di conoscere sia quella di far conoscere autori e canzoni che non hanno mai girato le spalle alla realtà quotidiana e hanno cantato perché il mondo fosse migliore, o meno schifoso. Non è il giro di do che richiama l’attenzione, ma le parole. È stato già detto ma tanto vale ripeterlo. Tutte le parole “contro” (la guerra, lo sfruttamento, il razzismo, la sopraffazione, il fascismo vero e quello che s’è rifatto il cosiddetto look) sono anche parole “pro”. Se in una trasmissione tv che non esiste mi chiedessero di definire questo libro di Alessio in pochissime parole, direi che è un libro d’amore.

Gianni Mura