rivista anarchica
anno 43 n. 377
febbraio 2013


La svastica allo stadio 4

I piedi di Mozart

di Giovanni A. Cerutti


L'esemplare e drammatica vicenda umana e sportiva del moravo Matthias Sindelar.



Se seguite il calcio con passione è quasi impossibile che non vi siate trovati almeno una volta a discutere per stabilire chi sia stato il più grande calciatore di tutti i tempi, senza peraltro riuscire a venirne a capo. Troppi i criteri che possono essere usati come riferimento, troppe le variabili da prendere in considerazione. Ma se la discussione avviene tra veri conoscitori del calcio e della sua storia, non sarà troppo difficile trovare l'accordo sul ristretto numero di campioni da prendere in considerazione: Alfredo Di Stefano, Pelé, Valentino Mazzola, Johan Cruijff, Matthias Sindelar, Diego Armando Maradona, Ferenc Puskás, forse Ricardo Zamora, ma, si sa, valutare i portieri non è facile. Ognuno di loro ha interpretato con classe e fantasia i diversi modi con cui si è giocato a calcio nelle diverse epoche; qualcuno di loro è diventato anche un simbolo dello spirito del tempo in cui ha vissuto. L'incedere volitivo di Mazzola è stato l'immagine della ricostruzione dell'Italia distrutta da vent'anni di fascismo, lo sguardo malinconico di Puskás della fuga dall'oppressione del totalitarismo sovietico, i capelli al vento di Cruijff della rivoluzione dei costumi nell'Europa tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta. Matthias Sindelar, invece, si è trovato a fronteggiare il periodo più buio della storia europea, opponendosi con coraggio e dignità alla violenza nazista. Ma non è diventato un simbolo. Può esservi capitato di aver sentito commentare “un tiro alla Sindelar” – detto per inciso: il famoso tiro a rientrare nell'angolino l'ha inventato Sindelar, non Maradona, né Zico, né Corso – o “una finta alla Sindelar”; non credo abbiate sentito commentare che uno dei più grandi centravanti di tutti i tempi si sia rifiutato di vestire la maglia della nazionale tedesca, dopo che l'Austria era stata annessa con la forza al Reich, in virtù dell'Anschluss. Né che la nazionale austriaca non poté partecipare per lo stesso motivo ai mondiali del 1938 in Francia, nonostante si fosse qualificata alla fase finale e fosse, anzi, una delle favorite.

Matthias Sindelar
(Kozlov, 10 febbraio 1903-Vienna, 23 gennaio 1939)


Da un pallone di stracci alla sfida con Meazza

Matthias Sindelar era nato a Kozlau, un villaggio della Moravia che oggi fa parte della Repubblica Ceca, il 10 febbraio del 1903. Nel 1905 la sua famiglia si era trasferita a Vienna, la capitale dell'Impero, dove suo padre aveva trovato impiego come muratore. Matthias crebbe tirando calci a un pallone di stracci per le strade polverose del quartiere operaio Favoriten, dove si stabilivano molte famiglie provenienti dalla Moravia, dalla Boemia e dall'Ungheria in cerca di lavoro. Dopo che il 28 luglio 1914 l'Austria-Ungheria aveva dichiarato guerra alla Serbia a seguito dell'attentato in cui era morto l'erede al trono Francesco Ferdinando d'Absburgo, innescando la serie di eventi che avrebbe portato alla Prima guerra mondiale, anche il padre di Matthias venne richiamato nell'esercito imperiale nel corso della mobilitazione generale del maggio del 1915. Jan Sindelar morirà due anni dopo sul fronte dell'Isonzo combattendo contro l'esercito italiano. Matthias ha solo quattordici anni, ma è costretto a trovarsi un lavoro come meccanico per aiutare la madre Rosie, rimasta sola con altre tre figlie.
Fu Karl Weimann, un maestro di scuola elementare ed ex calciatore dilettante, ad accorgersi del talento di Matthias, quando prese a trasformare in partite quasi vere gli interminabili giochi dei ragazzi del Favoriten. Funzionario della federazione calcistica austriaca, Weimann sostituì il pallone di stracci con un vero pallone, tracciando un vero campo con la polvere dei mattoni rossi che si trovava in gran quantità nelle numerose fornaci che sorgevano nel quartiere e segnando le porte sempre grazie ai provvidenziali mattoni. Nel 1918, accompagnò il quindicenne Sindelar a sostenere un provino per la squadra del quartiere, l'Hertha Vienna, dove venne selezionato da Febus Oster. Tre anni dopo, a soli diciotto anni, debuttò in prima squadra. Subito conquistò i tifosi con il suo gioco leggero e fantasioso, guadagnandosi l'appellativo con cui sarà per sempre identificato nel mondo del calcio, der papierene, cartavelina. Ma al principio della stagione 1923-24, un brutto incidente al ginocchio, che comportò la lesione del menisco, sembrò porre fine a soli vent'anni a una promettente carriera. Le tecniche chirurgiche, infatti, erano ancora molto rudimentali e non era ancora possibile intervenire sul menisco con prospettive di recuperare la piena funzionalità del ginocchio per sostenere lo sforzo agonistico. Più o meno negli stessi anni, ad esempio, Árpád Weisz aveva dovuto lasciare i campi da gioco per un incidente al menisco. Tuttavia, vennero presi contatti con Hans Spitzy, un famoso chirurgo austriaco, che decise di tentare per la prima volta l'operazione al menisco su di un calciatore. L'intervento riuscì perfettamente e Sindelar fu in grado di ritornare a giocare, sia pure al termine di una lunga e faticosa rieducazione. Da allora scese sempre in campo con una speciale fascia elastica a protezione del ginocchio destro, quasi un marchio di fabbrica, come le cavigliere di Ruud Krol cinquant'anni dopo. E cambiò il modo di giocare, accentuando ulteriormente la componente tecnica per evitare accuratamente ogni tipo di contrasto. Velocità e controllo assoluto del pallone, come in occasione di quello strabiliante goal segnato alla nazionale italiana il 20 marzo del 1932 a Vienna, nella partita vinta dagli austriaci per 2-1, quando raccolse di testa un corner proveniente dalla destra, saltò un primo difensore, riprese la palla di testa, saltò un secondo difensore, riprese la palla sempre di testa e batté inesorabilmente l'incredulo Sclavi. Quel giorno Sindelar segnò entrambi i goal dell'Austria, vincendo la sfida con Meazza, autore del goal degli azzurri, che di lì a poco avrebbero indossato spesso e volentieri una casacca nera, con l'immancabile fascio littorio.

Un autentico capolavoro”

Senza Sindelar, però, l'Hertha retrocesse, precipitando in una grave crisi economica, che costrinse i dirigenti della squadra a vendere i giocatori migliori. Nonostante questa operazione, la società viennese non riuscì mai a riprendersi dalle difficoltà e si sciolse nel 1930. Sindelar finì nell'Amateur Vienna, dove debuttò nel campionato 1924-25, che due anni dopo mutò il nome in Austria Vienna, quando divenne ufficialmente una squadra di professionisti. L'anno dopo arrivò anche il debutto in nazionale, in quello che sarebbe passato alla storia, proprio grazie a Sindelar, come il Wunderteam, la squadra meravigliosa, che dominò il calcio europeo degli anni trenta, guidata dal leggendario direttore tecnico Hugo Meisl, e allenata dall'inglese Jimmy Hogan. Il calcio di Hogan aveva tratti molto poco britannici, e per questo non gli furono mai affidati né la nazionale, né club di primo piano del campionato inglese, basato com'era su una fittissima rete di passaggi corti, che implicavano giocatori dotati di una tecnica raffinata. Si può anzi dire che l'essenza di quello che sarà conosciuto in tutto il mondo come il calcio danubiano sia stata concepita dal tecnico del Lancashire. C'era sempre un passaggio ancora da fare prima di arrivare in porta, o uno spazio ancora da percorrere. Nemmeno Pep Guardiola, dunque, ha inventato niente.
L'uso di riferirsi alla nazionale austriaca con l'appellativo di Wunderteam prese piede tra i giornalisti dopo la travolgente vittoria del 16 maggio 1931 riportata a Vienna contro la Scozia, battuta per 5-0. Iniziò allora una striscia impressionante di risultati utili, con quattordici vittorie e due pareggi, 63 goal fatti e solo 20 subìti, inframmezzata soltanto dalla sconfitta per 4-3 riportata il 7 dicembre 1932 allo Stamford Bridge di Londra contro la nazionale inglese. Ma, paradossalmente, quella sconfitta in mezzo a tante vittorie segnò la definitiva consacrazione dell'Austria e di Sindelar. Gli inglesi, che rifiutavano ostentatamente di partecipare alle competizioni internazionali ritenendo il loro calcio troppo superiore a quello che si praticava nel resto del mondo, si erano sentiti in obbligo di organizzare un'amichevole con la nazionale più quotata in quel momento per ribadire la loro supremazia. «Gli austriaci ci hanno dato una lezione» titolò il “Daily Express”, «Nessuno all'altezza di Sindelar» fece eco il “Daily Mail”, mentre il “Daily Herald” sosteneva che «i nostri ospiti ci hanno insegnato come si gioca». Sotto di due reti, gli austriaci avevano rimontato, chiudendo nella loro metà campo per larga parte del secondo tempo gli inglesi, che si salvarono soltanto grazie alla superlativa prova del portiere del Birmingham Harry Hibbs. «Il goal di Sindelar è stato un autentico capolavoro, che nessun altro, né prima, né dopo di lui, riuscirà più a fare contro avversari così forti come gli inglesi. Partendo dalla linea di metà campo dribblò con l'eleganza del suo inimitabile stile chiunque gli si parasse davanti, entrando in rete palla al piede». Così l'arbitro della partita, il belga John Langenus, che aveva arbitrato a Montevideo il 30 luglio del 1930 la prima finale del campionato del mondo tra Uruguay e Argentina, descrisse qualche giorno dopo la rete di Sindelar.
Già nell'immediato dopopartita l'Arsenal di Herbert Chapman, l'inventore del sistema, offrì quarantamila sterline per il trasferimento di Sindelar, e nei giorni successivi arrivarono offerte equivalenti dal Chelsea, dal Tottenham, dal Manchester e dal Liverpool. Ma Sindelar le rifiutò cortesemente tutte. Preferiva continuare a vivere in Austria, anzi nella sua Vienna. Per tutta la vita non si mosse mai dal quartiere operaio dove era cresciuto, continuando a restare fedele per tutta la carriera ai colori dell'Austria Vienna, che pure non era una squadra di vertice assoluto e deve le sue vittorie proprio alla classe di Sindelar. Un atteggiamento non infrequente nel calcio del passato, come mostrano i casi di Gigi Riva con il Cagliari o di Stanley Matthews con il Blackpool. Ma il calcio, allora, non si valutava soltanto in termini di vittorie; la componente estetica era non meno rilevante. Famosa la raccomandazione di Erbstein ai giocatori del grande Torino: la gente che viene allo stadio si deve soprattutto divertire, una vittoria senza spettacolo è ben povera cosa. E nei caffè di Vienna la borghesia, in misura significativa anche ebraica, commentava le partite dei viola così come commentava gli spettacoli teatrali o i primi film. E cominciò a chiamare Sindelar con l'appellativo che gli aveva dato Hugo Meisl: i piedi di Mozart. Sindelar arrivò l'anno dopo il primo scudetto della squadra viennese e contribuì in modo determinante alla vittoria nel campionato del 1925-26, ma dopo di allora l'Austria Vienna non riuscì più a vincere il titolo fino al dopoguerra. Più brillanti i risultati in Coppa d'Austria, vinta cinque volte con Sindelar in squadra, e in campo internazionale. L'Austria Vienna si aggiudicò, infatti, per due volte, nel 1933 e nel 1936, la Mitropa Cup, la prima competizione europea per squadre di club, cui partecipavano le migliori formazioni dei campionati dei paesi dell'Europa centrale, Italia compresa. Dopo aver eliminato in semifinale la Juventus di Carcano, vincendo 3-0 a Vienna con due goal di Sindelar, e pareggiando 1-1 a Torino, nel 1933 i viennesi batterono in finale l'Inter di Weisz, vincendo a Vienna per 3 a 1, con tre goal di Sindelar, dopo aver perso per 2 a 1 all'Arena. Sindelar vinse ancora il duello con Meazza, autore di due goal, uno a Milano e uno a Vienna. Nel 1936, invece, dopo aver eliminato il Bologna di Weisz negli ottavi di finale, batterono in finale lo Sparta Praga, vincendo per 1-0 a Praga, dopo aver pareggiato 0-0 a Vienna.
La popolarità di Sindelar divenne tale che fu uno dei primi calciatori, se non il primo, a essere scelto come testimonial per pubblicizzare articoli quali gli orologi Gruen, gli abiti Jawo, i cappotti Tlapak e i prodotti caseari delle fattorie Enden. Grazie a quest'ultima campagna pubblicitaria Sindelar divenne ampiamente noto anche al di fuori della cerchia degli appassionati di calcio: Vienna si riempì di enormi cartelloni su cui campeggiava il suo volto. Grazie a questi contratti, Sindelar si affrancò definitivamente dalle ristrettezze economiche che avevano segnato la sua infanzia, che il professionismo gli aveva permesso di superare in modo ancora provvisorio.

Il Wunderteam. Da sinistra a destra - In piedi: Schramseis,
Nausch, Hofmann, Zischek, Sindelar, Braun, Schall, Vogel.
Accosciati: Gschweidl, Hiden, Blum
(Foto: Lothar Rübelt)

Uno stato troppo piccolo e debole

Stante il permanente rifiuto delle nazionali anglosassoni di prendere parte alle competizioni internazionali, l'Austria si presentava quale netta favorita alla seconda edizione dei mondiali di calcio, che si sarebbe disputata dal 27 maggio al 10 giugno del 1934 in Italia. Ma il paese stava attraversando uno dei momenti più turbolenti della sua breve storia. Nel settembre del 1933, il cancelliere Engelbert Dollfuss, salito al potere nel maggio del 1932 alla guida di una coalizione imperniata sul partito di orientamento conservatore dei cristiano-sociali, aveva sciolto il parlamento e messo fuori legge tutti i partiti politici, assumendo poteri dittatoriali e imponendo una nuova costituzione che adottava un modello di stato corporativo – in cui era ammesso un solo partito, il Fronte patriottico da lui fondato nel 1933 riunendo tutti i partiti conservatori – ispirato al regime fascista di Benito Mussolini, che nell'agosto si era reso garante dell'indipendenza austriaca nel corso di un vertice tra i due paesi svoltosi a Riccione. L'avvento al potere di Hitler in Germania, infatti, aveva ulteriormente esasperato i conflitti e le lacerazioni interne alla Repubblica austriaca, mutando di segno la prospettiva pangermanica, che ne aveva a lungo caratterizzato il dibattito interno.
All'indomani della Prima guerra mondiale, il nuovo stato austriaco era parso subito troppo piccolo e debole economicamente, privato del retroterra imperiale. Si erano, perciò, formate forti correnti politiche in tutti gli schieramenti che proponevano una riunificazione con la Repubblica tedesca, dove pure la prospettiva era vista favorevolmente, anche all'interno della Spd, nonostante l'unificazione fosse stata esplicitamente vietata dai trattati di Saint-Germain-en-Laye, che regolavano le condizioni dello smembramento dell'Impero austro-ungarico tra le potenze vincitrici e la Repubblica austriaca. Il vincolo internazionale risultò alla fine insormontabile, e d'altra parte, dopo le elezioni dell'ottobre del 1920, la vita politica austriaca si era ben presto polarizzata, con effetti di latente guerra civile, intorno allo scontro tra i socialdemocratici – partito di maggioranza relativa con una forza elettorale che si aggirava intorno al 42%, dotato di una solida struttura organizzativa e di un impianto ideologico così radicale da impedire la nascita di un significativo partito comunista, e saldamente radicati a Vienna, che governarono ininterrottamente con risultati significativi fino al 1934 – e la coalizione dei partiti nazionalisti e conservatori, radicati nelle campagne, in modo particolare il partito cattolico dei cristiano-sociali, che alleandosi riuscirono a governare, invece, il paese. La crisi economica determinata dal crollo della borsa di Wall Street nel 1929, e che investì con particolare virulenza l'Austria, contribuì a esasperare ulteriormente lo scontro, che venne innervato da nuove tensioni dopo l'affermazione e il consolidamento del regime nazista in Germania seguito alla nomina di Hitler a cancelliere il 30 gennaio 1933. Sostenendo massicciamente il partito nazista austriaco e premendo sugli assetti internazionali man mano che il suo regime acquisiva stabilità, Hitler reintrodusse il tema della riunificazione tra Austria e Germania tanto nel dibattito interno austriaco, quanto nello scenario europeo. Ma era chiaro a tutti che quella riunificazione somigliava sinistramente a una annessione, anzi apparve sempre più chiaro che si trattava solo del primo passo verso una politica estera estremamente aggressiva, che non si sarebbe certo accontentata di riportare all'interno dei confini del Reich la nazione tedesca sparsa in diversi stati.
I socialdemocratici, fino ad allora favorevoli alla riunificazione, come il partito tedesco, nel quadro delle comuni istituzioni liberaldemocratiche e federali, divennero, naturalmente, fieramente ostili all'Anschluss. Ed anche Dollfuss capì che la prospettiva di annessione avrebbe tolto all'Austria ogni tipo di autonomia e di spazio di manovra. Perciò cercò la protezione italiana, che risultò decisiva anche nel sostenere l'involuzione autoritaria del regime austriaco. Si arrivò, quindi, allo scontro finale. Le reazioni della Spö ai provvedimenti del cancelliere del settembre del 1933 diventarono il pretesto per aggredire i quartieri operai di Vienna, dove era nato e abitava anche Sindelar, vanto dell'amministrazione socialdemocratica. Il 12 febbraio 1934 una forza di diciassettemila uomini composta da reparti dell'esercito, della polizia e delle milizie fasciste della Heimwehr attaccò a colpi di artiglieria le case del quartiere. In quattro giorni di battaglia vennero uccise mille persone, anche donne e bambini, e ferite circa quattromila, nonostante la resistenza opposta dallo Schutzbund, la milizia armata del partito.
L'instabilità politica e la grave crisi economica misero in forse la partecipazione ai mondiali della nazionale di calcio. Il campionato si era svolto tra grandi difficoltà, finendo con largo ritardo e molti calciatori non furono in grado di rispondere alla convocazione. La Federazione era ormai ridotta alla bancarotta e riuscì ad allestire una spedizione di fortuna, rinunciando a molti componenti della staff di Meisl. Ciononostante, il Wunderteam, dopo aver eliminato la Francia negli ottavi di finale e l'Ungheria di Sárosi nei quarti, arrivò in semifinale dove si trovò a dover affrontare i padroni di casa dell'Italia. L'amichevole svoltasi a Torino nel febbraio si era risolta con la chiara vittoria dell'Austria, pur priva di Sindelar, per 4 a 2. Ma il regime aveva investito molto sull'evento. Già l'eliminazione della Spagna nei quarti di finale aveva sollevato più di un dubbio. La partita era terminata 1 a 1 dopo i tempi supplementari. Ferrari aveva pareggiato allo scadere, ribattendo in rete la palla persa da Zamora, autore di una prestazione all'altezza della sua straordinaria fama, caricato irregolarmente da Schiavio. L'arbitro convalidò ugualmente. La partita venne rigiocata il giorno dopo, come imponeva il regolamento di allora, ma misteriosamente Zamora non venne schierato tra i pali. È quasi certo che intervenne Mussolini in persona per convincere gli spagnoli a rinunciare al grande portiere. L'Italia vinse con un goal, anch'esso dubbio, di Meazza, che si appoggiò platealmente sulle spalle di Guaita. Al rientro in patria, lo svizzero Mercet, arbitro della seconda partita, venne sospeso dalla federazione elvetica per l'evidente parzialità dell'arbitraggio, che aveva sollevato critiche in tutta Europa e gettato discredito sul calcio svizzero nel suo complesso.
La semifinale venne disputata il 3 giugno del 1934 allo stadio di San Siro. Su un terreno fangoso, la pesante fisicità degli azzurri, tollerata dall'arbitro, lo svedese Eklind, si impose sulla tecnica degli austriaci. Controversa anche in questo caso l'azione del goal che risolse la partita. Al 19' del primo tempo Meazza carica irregolarmente il portiere austriaco Platzer, che perde la palla; raccoglie Guaita, probabilmente in fuorigioco, e segna da due passi. Sindelar era stato marcato duramente da Luisito Monti, il centr'half della Juventus di Carcano, che non aveva rinunciato a nessun mezzo pur di fermare il campione austriaco, che al termine della partita dovrà ricorrere alle cure dei medici di una clinica ortopedica di Milano. La rivalità tra i due caratterizzò il calcio degli anni trenta, come ebbe a ricordare Vittorio Pozzo nel necrologio che scrisse in morte di Sindelar su “Stampa sera“ il 26 gennaio 1939. Tanto era tecnico ed elegante l'uno, quanto era potente e grezzo l'altro, che non riusciva a sopportare i fraseggi e gli svolazzi dell'austriaco. Nel corso della semifinale della Mitropa Cup persa dalla Juventus a Vienna, innervosito oltre misura da un avversario quel pomeriggio anche più imprendibile del solito, Monti aveva finito per farsi espellere dopo un brutto fallo a gioco fermo. La domenica successiva, a Roma nello Stadio nazionale del Partito nazionale fascista, che sorgeva nell'area ora occupata dallo stadio Flaminio, l'Italia vinse la finale contro la Cecoslovacchia per 2 a 1, con un goal di Schiavio ai supplementari. Il giovedì gli austriaci, senza Sindelar e delusi per non aver avuto la possibilità di battersi alla pari contro i padroni di casa, avevano perso la finale per il terzo e quarto posto per 3 a 1 contro la Germania. L'Italia era senz'altro una grande squadra, piena di campioni, ma il gioco era evidentemente truccato: il regime voleva una vittoria di prestigio e la ottenne utilizzando qualsiasi mezzo. Negli anni seguenti le partite tra le due nazionali divennero scontri carichi di tensione, tanto che tre anni dopo a Vienna la partita valida per la Coppa Internazionale venne interrotta al 74' dall'arbitro, lo svedese Olsson, che non riusciva più a gestire il gioco eccessivamente violento praticato in campo, con colpi proibiti che volavano da entrambe le parti, mentre l'Austria si trovava in vantaggio per 2 a 0. Curiosamente quell'incontro divide ancora oggi le due federazioni: nelle statistiche ufficiali di quella austriaca la partita è conteggiata come vinta, in quelle italiane come non disputata.

Sindelar in una campagna
pubblicitaria


Una strada ormai segnata

L'involuzione autoritaria impressa da Dollfuss non era riuscita a stabilizzare la situazione all'interno dello stato austriaco. Anzi, la soppressione delle libertà politiche e l'estromissione del partito socialdemocratico dall'arena parlamentare favorirono di fatto l'affermazione senza nessuna mediazione della questione dell'Anschluss, nei termini posti da Hitler, al centro della vita politica austriaca. Il 25 luglio 1934, il partito nazionalsocialista austriaco, attivamente spalleggiato dai tedeschi, tentò un colpo di stato, assassinando il cancelliere Dollfuss e insediando un governo nazista, chiaro prologo alla riunificazione. Mussolini reagì mobilitando l'esercito, che presidiò in forze i confini del Brennero e della Carinzia. Temeva molto di dover condividere i confini con la Germania nazista, tanto più che si sarebbe certamente subito creata una questione altoatesina. L'affinità ideologica non aveva ancora fatto premio sulle logiche geopolitiche; e, inoltre, Mussolini era ancora convinto che l'Italia potesse giocare un ruolo di grande potenza sullo scenario internazionale. Sappiamo tutti come è finita. L'appoggio italiano permise al Fronte patriottico di riprendere il controllo del governo, che venne affidato a von Schuschnigg, già ministro della giustizia nel primo governo Dollfuss, che represse sanguinosamente i disordini. A quel punto Hitler, che non aveva ancora consolidato compiutamente il suo potere all'interno della Germania e che non si era ancora dotato di una sufficiente forza militare, si trovò costretto a condannare pubblicamente l'assassinio di Dollfuss, dichiarandosene completamente estraneo.
Ma la strada era ormai segnata. Mussolini si sfilò rapidamente, man mano che il regime di Hitler conquistava il centro della scena internazionale, pensando prudentemente di entrare nella sua orbita e von Schuschnigg non poté far altro che consegnarsi all'abbraccio mortale della Germania nazista. Il 12 febbraio 1938, nel corso di un vertice a Berchtesgaden organizzato con qualche margine di ambiguità dall'ambasciatore tedesco a Vienna von Papen, firmò un accordo che prevedeva l'abrogazione della norma che aveva messo fuori legge il partito nazionalsocialista austriaco, la liberazione di tutti i suoi militanti ancora in prigione, la nomina dei filo-nazisti Seyss-Inquart a capo del ministero dell'Interno, Glaise-Horstenau della Guerra, che avrebbe dovuto provvedere a integrare i due eserciti, e Fischböck delle Finanze, che avrebbe dovuto provvedere all'inserimento del sistema economico austriaco in quello tedesco. Il 9 marzo il cancelliere tentò una mossa disperata, indicendo per la domenica successiva, 13 marzo, un plebiscito, chiedendo alla popolazione di esprimersi con un sì o con un no sull'annessione alla Germania, annessione che giorno per giorno stava avvenendo nei fatti, con la regia di Seyss-Inquart. Chiese anche l'appoggio dei socialdemocratici, liberando dalle prigioni i militanti e permettendo la ricostituzione legale del partito. E lo ottenne in nome dell'opposizione frontale al nazismo, che in quel momento coincideva con la salvaguardia dell'indipendenza austriaca. Ma questa svolta politica arrivava troppo tardi. Compiuta qualche anno prima, avrebbe sicuramente impedito la deriva nazista, ma il terreno d'intesa avrebbero dovuto essere le istituzioni liberali. Ma von Schuschnigg era il tipico esponente delle classi dirigenti conservatrici dell'Europa tra le due guerre, che pensavano che la soluzione del problema storico dell'integrazione delle classi popolari nella nascente società di massa doveva passare attraverso la costruzione di regimi autoritari a partito unico, nutrendo profonda diffidenza e autentico disprezzo per i modelli democratici occidentali. Hitler reagì ordinando movimenti di truppe alla frontiera, comunicando contemporaneamente al cancelliere, tramite Seyss-Inquart, che il plebiscito doveva essere assolutamente annullato. Von Schuschnigg si piegò, avendo constatato che ormai la polizia e l'esercito erano stati ampiamente infiltrati dai nazisti. Ottenuto questo successo, Hitler rilanciò subito, secondo quella che era una sua tipica caratteristica, chiedendo le dimissioni del cancelliere e la nomina al suo posto di Seyss-Inquart. Questi avrebbe dovuto inviare un telegramma a Berlino chiedendo l'intervento tedesco per sedare i disordini che minacciavano la sicurezza della capitale. Disordini, inutile dire, inesistenti. Von Schuschnigg si piegò nuovamente, ma il presidente della repubblica Miklas si rifiutò di nominare Seyss-Inquart, che assunse comunque il potere a capo di un governo provvisorio e chiese l'intervento tedesco, mentre con un ultimo sussulto di dignità von Schuschnigg tenne un nobile discorso alla radio, in cui rendeva nota la natura della minaccia tedesca, smascherando la menzogna con cui Hitler aveva cercato di giustificare il suo intervento. Così il 12 marzo le truppe tedesche entrarono a Vienna. L'Austria venne cancellata dalle carte geografiche, diventando il giorno dopo l'Ostmark. Qualche mese dopo, anche questo barlume di identità venne dissolto e la nuova provincia venne smembrata in distretti amministrativi, ricalcati sui confini dei Länder storici. Mussolini fece sapere che l'Austria gli era «indifferente», mentre il premier inglese Chamberlain dichiarò alla Camera dei Comuni che una Germania più soddisfatta nella sua naturale sfera d'influenza sarebbe stata meno aggressiva nei confronti degli interessi fondamentali dell'Inghilterra e della Francia. Aggiungendo che la Gran Bretagna non avrebbe garantito l'indipendenza della Cecoslovacchia. Le porte per il patto di Monaco erano aperte. Poi sarebbe toccato alla Polonia.

12 Marzo 1938 - La prima pagina del Los Angeles Times

L'ultima volta della nazionale austriaca

Tra le conseguenze dell'Anschluss ci fu anche lo scioglimento della federazione di calcio austriaca, che venne inglobata in quella tedesca. Il campionato austriaco venne soppresso e annesso a quello tedesco, attraverso la creazione di un girone denominato dell'Ostmark, che si disputava all'italiana con partite di andata e ritorno, la cui vincitrice era ammessa al campionato nazionale tedesco. L'unica squadra austriaca a fregiarsi del titolo tedesco fu nel campionato 1940-41 il Rapid Vienna, che detiene, così, il singolare record di aver vinto il campionato di due nazioni differenti. Val forse la pena ricordare che tra il 1934 e il 1942 lo Schalke 04, la squadra per cui faceva il tifo Hitler, vinse sei dei suoi sette scudetti. Anche nelle squadre austriache venne proibito il professionismo, che i nazisti consideravano un segno di decadenza dello sport, parte della congiura materialista ebraica tesa a fiaccare lo spirito ariano; ma solo dopo i mondiali del 1938, per non compromettere l'impegno dei calciatori austriaci selezionati per la nazionale.
E, naturalmente, venne sciolta anche la nazionale austriaca. Terminò così l'epopea del Wunderteam, che non ebbe la possibilità di sigillare con la vittoria ai mondiali del 1938 la sua straordinaria parabola. Il 5 ottobre 1937, battendo a Vienna la Lettonia per 2 a 1 l'Austria si era assicurata la qualificazione alla fase finale che si sarebbe disputata in Francia dal 4 al 19 giugno 1938. Ma il 5 giugno, allo Stade de Gerland di Lione la Svezia non trovò nessun avversario, accedendo automaticamente ai quarti di finale.
Ma prima che fosse posto mano allo scioglimento definitivo, i gerarchi nazisti pensarono di poter impiegare utilmente per un'ultima volta la nazionale di calcio austriaca. Hitler aveva deciso di sottoporre l'Anschluss al giudizio popolare, soprattutto per fronteggiare le critiche dell'opinione pubblica internazionale, che pure disprezzava, ma non era ancora in grado di ignorare, fissando per il 10 aprile un plebiscito su tutto il territorio nazionale. Così, il ministro della propaganda Goebbels, che significativamente aveva lo sport tra le sue competenze, si diede da fare per organizzare al Prater di Vienna una partita di calcio amichevole tra le nazionali dell'Austria e della Germania, anzi tra la selezione dell'Ostmark e la selezione dell'Altreich, per suggellare l'amicizia tra i due popoli. Hugo Meisl era morto l'anno prima, il 17 febbraio 1937, e la responsabilità della scelta di accettare la sfida venne delegata da dirigenti e compagni a Sindelar. Molti calciatori spingevano per giocare, perché sarebbe stato il selezionatore della nazionale tedesca Sepp Herberger a decidere chi di loro sarebbe stato convocato in nazionale per i mondiali francesi. Sindelar era d'accordo. Anche se aveva in mente qualcos'altro.
Le due squadre avevano la stessa divisa ufficiale, maglia bianca e pantaloncini neri, ma allora toccava alla squadra di casa indossare la seconda divisa, per dovere di ospitalità. Così il pomeriggio di domenica 3 aprile 1938 gli austriaci scesero in campo agli ordini dell'arbitro tedesco Alfred Birlem con una fiammante maglia rossa, che abbinata ai pantaloncini bianchi e ai calzettoni rossi riproduceva la bandiera nazionale. In avvio i tedeschi tentarono di imporre la loro potenza atletica, ma ben presto gli austriaci presero in mano le redini del gioco. Iniziò allora uno sconcertante balletto dalle parti del portiere tedesco Jakob: agli ordini di Sindelar, gli austriaci, dopo aver saltato i difensori avversari, rinunciavano ostentatamente a segnare, volgendo sguardi di sfida verso la tribuna delle autorità, dove stava seduto von Tschammer und Osten, nominato da Hitler Commissario del Reich per gli sport, dopo aver guidato l'organizzazione delle Olimpiadi di Berlino. I tifosi austriaci ci misero poco a capire cosa stava succedendo: il Wunderteam stava irridendo i tedeschi, che con la forza stavano sovvertendo i valori sportivi, cancellando i migliori. Finché, al 17' del secondo tempo Sindelar lasciò partire un tiro “alla Sindelar“, infilando la palla nell'angolino della porta difesa da Jakob. Quindi inscenò un per lui del tutto inedito balletto di gioia sotto la tribuna dei gerarchi, tra le risa divertite del pubblico. Qualche minuto dopo, il terzino Schasti Sesta raddoppiò con una sassata da cinquanta metri. Lo stadio si riempì di bandiere austriache saltate fuori da chissà dove, la gente era esaltata e per un momento credette di dimenticare cosa stava davvero succedendo.
La sconfitta urtò non poco i tedeschi, tuttavia il senso dell'operazione era contenuto nella cerimonia finale. Le due squadre sfilarono insieme, come previsto dal copione di Leni Riefenstahl che stava riprendendo la partita; quindi si misero sull'attenti davanti alle autorità e al comando di von Tschammer und Osten scattarono nel saluto nazista. Due calciatori, però rimasero impassibili, con le braccia ostentatamente lungo i fianchi: Matthias Sindelar e il suo grande amico Schasti Sesta, il cui padre era stato arrestato insieme ai suoi compagni socialdemocratici nel 1934. Von Tschammer und Osten se ne andò infuriato, Leni Riefenstahl dovette tagliare qualche metro di pellicola, mentre la notizia si sparse per Vienna, nonostante la censura della radiocronaca. Per una settimana, Sindelar divenne il simbolo dell'Austria che non voleva morire. Ma la realtà non avrebbe tardato a reclamare le sue ragioni. Il 10 aprile i sì all'Anschluss furono il 99,08% nella Grande Germania nel suo complesso e il 99,75% in Austria.

12 Marzo 1938 - Anschluss / annessione dell'Austria.
Nella foto l'esercito tedesco a Salisburgo

Un orgoglioso rifiuto

La mattina dopo Sepp Herberger si recò a casa di Sindelar per proporgli la convocazione in Nazionale. Herberger era uomo di sport – ma si può essere solo uomini di sport quando il mondo intorno sta bruciando? – e aveva bisogno del centravanti austriaco per vincere i mondiali. La sua era una buona squadra, atleticamente preparata, ma povera di tecnica e di fantasia. Il rifiuto opposto da Sindelar fu netto. Addusse come giustificazione i ripetuti problemi al ginocchio e l'età che ormai gli rendeva difficile recuperare in una competizione serrata come il campionato mondiale, dove si giocava ogni due o tre giorni. Ma a nessuno, tantomeno ai tedeschi, sfuggì che i motivi del rifiuto erano ben altri. In un intervista rilasciata nel dopoguerra, Herberger – che attraversò indenne il nazismo, allenando ininterrottamente la nazionale tedesca fino al 1964, vincendo clamorosamente i mondiali del 1954 battendo in finale a Berna la grande Ungheria di Puskás – riferì, ancora incredulo dal suo punto di vista, che Sindelar decise secondo criteri estranei a valutazioni sportive. Non riusciva a capire come un calciatore poteva rinunciare a diventare campione del mondo, raggiungendo la giusta consacrazione di una carriera straordinaria, per questioni che non avevano niente a che fare con il calcio e con lo sport. Per inciso, la spedizione francese della squadra tedesca fu un disastro. Accolti da urla e fischi fin dal loro arrivo in albergo, i tedeschi vennero eliminati al primo turno dalla Svizzera di Karl Rappan, l'inventore del verrou, il nonno del catenaccio. Andati in vantaggio al 29', i tedeschi erano stati raggiunti allo scadere del primo tempo, senza più riuscire a superare la difesa elvetica. La ripetizione della partita avvenne sempre al Parco dei Principi di Parigi cinque giorni dopo, esaurite tutte le partite degli ottavi di finale. Al momento del saluto nazista della squadra tedesca volò in campo di tutto, così come succederà prima delle partite degli azzurri al momento del saluto fascista. I tedeschi si portarono in vantaggio per due a zero, grazie a un'autorete, al 22' del primo tempo. Ma gli svizzeri, prima accorciarono le distanze, ancora allo scadere del primo tempo, quindi raggiunsero nuovamente il pareggio al 64', schiantando, infine, gli avversari grazie a una doppietta del centravanti del Ginevra Servette André Abegglen. 4 a 2 tra le urla di scherno del pubblico. Due anni dopo, i tedeschi sarebbero tornati a Parigi, ma questa volta ricacciarli sarebbe costato sangue e sofferenze atroci.
Matthias Sindelar venne trovato morto nel suo appartamento accanto alla sua compagna, l'ebrea italiana Camilla Castagnola, la mattina del 23 gennaio 1939. Avrebbe compiuto trentasei anni pochi giorni dopo. Dei suoi ultimi mesi di vita si sa molto poco. Le uniche certezze riguardano la sua carriera sportiva, le cui informazioni si possono ricavare dallo spoglio dei quotidiani e dalle statistiche ufficiali della sua squadra e della federazione austriaca. Sindelar partecipò con l'Austria Vienna – per qualche mese Sportclub Ostmark, fino a che le proteste dei tifosi imposero nel luglio del 1938 il ritorno al nome originale – al girone austriaco del campionato tedesco, giocando l'ultima partita il giorno di Santo Stefano a Berlino contro l'Hertha, segnando il goal del 2 a 2 finale. Il suo ultimo goal. Per il resto si rincorrono troppe versioni difficilmente verificabili, perlopiù basate su testimonianze raccolte, anche a molta distanza dai fatti, da giornalisti sportivi, poco sensibili alle regole storiografiche sull'uso delle fonti, o affidate a ricostruzioni che hanno subìto troppi passaggi per essere pienamente attendibili.
Così, l'identità di Camilla e le circostanze in cui Matthias la conobbe – suggestiva e delicata la versione che tratteggia Nello Governato nel suo La partita dell'addio, ma per sua stessa ammissione basata su ipotesi e adattata alla costruzione narrativa del suo romanzo – sfuggono a una collocazione precisa. Allo stesso modo è molto verosimile che la Gestapo avesse aperto un fascicolo su di lui e lo stesse seguendo, così come le sue simpatie socialdemocratiche – tutta la sua biografia sembra indicare questa direzione – sono quasi certe, ma anche in questi casi nessuno ha prodotto un riscontro definitivo. È, invece, quasi sicuro che Sindelar non fosse ebreo, mentre è solo probabile che la voce che lo fosse venne fatta circolare ad arte dalla Gestapo.
Ma, in fondo, importa poco. Sarebbe certamente opportuno che qualcuno cercasse con cognizione di causa di fissare con precisione quanto avvenuto per chiarire fino in fondo i contorni di una vicenda così significativa. Ma questo lavoro, pur doveroso e indispensabile, non aggiungerebbe nulla alla grandezza del gesto di Sindelar. Per chi vuole vedere, il suo significato è di una eloquenza evidente.

La tomba di Matthias Sindelar

Lo spirito dei tempi

Sappiamo, però, per certo che Sindelar difese pubblicamente Michl Schwarz, quando venne allontanato dalla presidenza dell'Austria Vienna. Tra i primi provvedimenti presi riguardo al calcio austriaco c'era anche – e come poteva mancare – l'allontanamento di tutti i dirigenti e i calciatori ritenuti ebrei. Al termine di una partita dell'Austria Vienna, un gruppetto di militanti del partito nazista si era avvicinato mentre Schwarz e Sindelar stavano conversando sulla porta degli spogliatoi, urlando minacciosamente che era proibito parlare e salutare «un porco e ricco ebreo». Sindelar – su questo, invece, abbiamo molte concordanti e inoppugnabili testimonianze – rispose: «Ogni volta che avrò la fortuna di incontrarla, signor presidente, le dirò sempre buongiorno», chiudendo la questione. Schwarz riuscì, poi, a fuggire a Zurigo e al termine della guerra riassunse la presidenza dell'Austria Vienna, che mantenne fino al 1955. Morirà novantenne nel 1968.
Anche le circostanze in cui avvenne la morte di Sindelar restano avvolte nel mistero. La versione ufficiale parla di avvelenamento da monossido di carbonio, dovuto al cattivo funzionamento della stufa che riscaldava l'appartamento. Un incidente molto comune all'epoca, specie nel quartiere dove era rimasto a vivere Sindelar. Camilla gli sopravvisse tre giorni, senza mai riprendere conoscenza. Ma restano molte zone d'ombra. Intanto, i corpi vennero ritrovati dalla Gestapo, che gestì tutta l'operazione, fatto del tutto inusuale ed è proprio difficile pensare a un caso fortuito. Non venne ordinata l'autopsia, né sembra sia stata ordinata un'inchiesta, né venne mai trovato l'eventuale fascicolo relativo, nemmeno nel dopoguerra. D'altra parte nel caos delle convulse fasi della liberazione molti documenti andarono perduti; inoltre i sovietici restarono a Vienna fino al 1955, quando l'Austria venne neutralizzata e restituita alla propria sovranità, e le ragioni della guerra fredda si sovrapposero alle ragioni della storia degli anni trenta. Troppe cose non erano funzionali ai nuovi scenari. L'unica autorità esterna che la Gestapo ammise nell'appartamento di Sindelar fu una squadra di vigili del fuoco, che riferirono di non avere sentito odore di gas, né di aver riscontrato difetti di funzionamento della stufa, ma non furono autorizzati a stendere un referto. E da ultimo, i corpi di Matthias e Camilla vennero immediatamente cremati dopo le esequie, impedendo per sempre qualsiasi riscontro.
La notizia si sparse subito per la città. Nessuno ebbe dubbi sul fatto che Sindelar fosse stato assassinato dalla Gestapo, ed è difficile pensare il contrario. Anche la tesi del suicidio, che pure ancora oggi è molto accreditata, sia nella versione dell'uomo depresso e sconfitto che ha visto crollare il suo mondo, politico e sportivo, sia nella versione dell'eroe romantico che compie l'ultimo gesto di rivolta, sembra avere poca consistenza. Nell'un caso e nell'altro sembra mal combinarsi con la biografia di Sindelar e con il suo modo di essere.
L'amministrazione nazista di Vienna cercò di imporre funerali in forma strettamente privata, ma ben presto arrivarono alla sede dell'Austria Vienna oltre quindicimila telegrammi, che resero impossibile impedire lo svolgimento di una cerimonia pubblica. Qualche giorno dopo, oltre quarantamila viennesi accompagnarono il feretro di Matthias allo Zentralfriedhof, il cimitero centrale di Vienna. Da allora ogni 23 gennaio sulla sua tomba continua a raccogliersi una piccola folla di tifosi e gente comune, anche dopo che i suoi compagni e quelli che l'hanno conosciuto se ne sono andati, per ricordare il grande campione che non si dimenticò di essere un uomo.
Sindelar, però, non è diventato un simbolo, perché non rispecchiava lo spirito dei tempi. Nell'Europa tra le due guerre – e credo ancora oggi – la tranquilla determinazione di chi pensa di dover rispondere prima di tutto a se stesso, alla propria struttura morale, al proprio modo di essere quali che siano le condizioni che regolano la vita pubblica, non era per nulla un atteggiamento diffuso. E comportamenti come quelli di Sindelar inquietano perché ricordano a tutti che non esistono strade obbligate, che è sempre possibile reagire alla prepotenza e all'ignoranza. Né la retorica della lotta resistenziale vale a riscattare le viltà e i piccoli interessi che permisero l'ascesa di Hitler. I vibranti discorsi di Winston Churchill alla Camera dei Comuni – cui pure ogni europeo dovrà per sempre eterna riconoscenza – non riusciranno mai a far dimenticare l'ignavia di una intera generazione e a cancellare il senso di desolazione che ci stringe lo stomaco quando rileggiamo i discorsi che nella stessa aula pronunciò Neville Chamberlain.
Ma c'è dell'altro. Matthias Sindelar, pur essendo stato uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, stenta a essere ricordato come tale. Ha infranto il dogma che il calcio è un mondo che basta a se stesso, che chi ci si dedica deve dimenticarsi di quello che succede intorno a lui. Il fastidio per chi non ha pensato solo a segnare e giocare è così grande da aver rimosso i valori assoluti che il suo calcio ha rappresentato. Per cui, se vi capiterà di vedere su qualche campetto di periferia un ragazzino talentuoso infilare la palla all'incrocio dei pali con un morbido tiro a rientrare, vi prego, non ditegli più «tiri come Maradona», ma «tiri come Sindelar». Oltretutto farete la figura di chi il calcio lo conosce davvero. E augurategli di diventare un uomo retto e buono come lui.

Giovanni A. Cerutti

Per saperne di più

La figura di Matthias Sindelar è stata riportata al centro dell'attenzione in Italia dal bel romanzo di Nello Governato La partita dell'addio. Matthias Sindelar, il campione che non si piegò a Hitler, Mondadori, Milano 2007.
Governato ha scelto di colmare le lacune sulla biografia di Sindelar attraverso la forma del romanzo, scelta che lo ha anche indotto ad adattare alcune circostanze alla costruzione dell'impianto narrativo. Il racconto è comunque coerente con i fatti storici e ha il suo punto di forza nella ricostruzione dall'interno dei meccanismi che regolano il mondo del calcio e nel disegno della psicologia di Sindelar. Governato è stato, infatti, un centrocampista di ottimo livello, a lungo colonna della Lazio.

Informazioni precise sulla carriera di Sindelar si trovano sulle pagine dedicate al centravanti austriaco e a Hugo Meisl dal sito ufficiale della Fifa, Fifa.com. Un accenno alla storia di Sindelar si trova anche nel libro di Simon Kuper Ajax, The Dutch, The War, Orion, London 2003.

In occasione degli europei disputatisi in Austria e in Svizzera nel 2008 sono stati pubblicati numerosi articoli su Sindelar di valore diseguale. Tra quelli che ho consultato segnalo quello di Jonathan Wilson, Sindelar: the ballad of the tragic hero, pubblicato su “The Guardian“ il 3 aprile 2007, quello di Robin Stummer, The striker who snubbed Hitler, pubblicato sul “New Statesman“ il 12 giugno 2008 e quello di Simon Kuper Political Football: Matthias Sindelar, pubblicato su “Channel 4 News“ il 16 novembre 2007.

Per la sintetica ricostruzione delle vicende dell'Anschluss e dell'Austria degli anni venti e trenta, ho fatto riferimento ai classici lavori di William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962 (ed. or. The Rise and Fall of the Third Reich, Simon & Schuster, New York 1960), di Helmut Konrad Stadler, Austria, in Il fascismo in Europa, a cura di S. J. Woolf, Laterza, Roma-Bari 1968 e di Massimo L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea dalla restaurazione all'eurocomunismo, Loescher, Torino 1977.


La svastica allo stadio

Si chiude con questa quarta puntata la serie di articoli, firmati da Giovanni A. Cerutti, dedicata ai rapporti tra calcio e nazismo. I precedenti contributi di questa serie sono apparsi sul numero 374 di “A”, ottobre 2012 (“Árpárd Weisz, un maestro del calcio europeo inghiottito nel nulla”), sul numero 375, novembre 2012 (“Ernest Erbstein, l'uomo che fece grande il Torino”) e sul numero 376, dicembre 2012-gennaio 2013 (“La squadra del ghetto“).