rivista anarchica
anno 45 n. 396
marzo 2015





Botta.../Ma lo Stato che cosa farà?

Il mio amico Andrea Papi propone (Anarchismo in divenire, in “A” 394, dicembre 2014/gennaio 2015) un percorso di liberazione sociale che superi la concezione della lotta contro un nemico identificabile, sconfitto il quale il mondo sarà più   vivibile. Al posto di una donchisciottesca guerra permanente e suicida contro falsi bersagli, Andrea indica un nuovo anarchismo costruttivo e sperimentale. Direi che la sua formula si può sintetizzare così: non aspettiamo un'impossibile palingenesi universale frutto della fata rivoluzione: facciamo, qui e ora, quanta più anarchia possibile: democrazia diretta, rifiuto di gerarchia, solidarietà, ecc.
Andrea invita al dibattito, ed io vi partecipo, con una domanda.
Premetto che concordo pienamente con Andrea quando scrive che non è più tempo di nemici facili: se una volta, nelle pagine dei gloriosi giornali anarchici, si poteva fare la caricatura del potere (il grasso banchiere, il prete osceno, il generale con lo sciabolone), oggi che faccia ha il potere?
Oggi il potere - quello vero, che conta, che decide - è invisibile come i nugoli di elettroni che guidano e regolano tutta la vita delle nazioni “tecnologicamente avanzate”.
Allora, evitiamo una lotta fallimentare contro questo fantasma, questo idolo e viviamo come se non esistesse. Creiamo strutture sociali, partendo dal rapporto tra individui che si conoscono per nome e si riconoscono reciprocamente dignità e valore; creiamo isole di libertà in un oceano di servitù. Creiamo esempi e ricette di una vita alternativa, migliore, libera.
Bellissimo. Giusto. Ora la domanda: ma quando questo arcipelago sarà abbastanza esteso (come Andrea auspica, ed io con lui), cosa farà il potere?
Ora il progetto può anche funzionare, perché coinvolge relativamente poca gente; non se ne parla, se non nell'ambito libertario. Tutto è sotto osservazione e controllo dei poteri costituiti.
Ma se la cosa continua, arriverà inevitabilmente un momento in cui la società sperimentale dovrà misurarsi con il potere, con la legge, con l'autorità, insomma con lo stato.
Quando la costellazione di esperienze sociali autogestite raggiungerà quello che lo stato riterrà un livello critico (cioè una minaccia alla sua integrità, al suo dominio, alla sua legislazione), cosa accadrà? Lo stato cosa farà? Accetterà serenamente la propria estinzione? Muterà senza convulsioni violente? Rispetterà la libera decisione della gente non più minuscola minoranza? Rispetterà, cioè, l'istanza che tende alla sua eliminazione? O forse Andrea prevede che si creeranno due corsie sociali? Due società? Una libera e una statale? Prevede la creazione di libere comuni, tipo ashram? E sarà lo stato a garantire/consentire/regolamentare l'esistenza delle comunità anti-statali?
Probabilmente, Andrea indica la necessità del radicale mutamento dei codici culturali che può avvenire solo con la pratica. Concordo del tutto.
Ma ritengo - e ammetto che sono molto pessimista - che tale diffuso mutamento sia lungo, difficile, doloroso. E che sia, questo mutamento, il nemico mortale del potere, qualunque esso sia, e che non risparmierà nessuna vita, non eviterà nessuna atrocità pur di impedirlo.

Paolo Cortesi
Forlì



...e risposta/La maniera giusta di non essere sopraffatti

Carissimo Paolo, grazie di essere intervenuto e d'incalzarmi con domande che hanno l'intento di aiutare a definire meglio le questioni.
Le domande che poni me le sono poste anch'io tutte le volte che ho pensato e scritto ciò di cui stiamo ragionando. Ma siccome sono tutte rivolte a ciò che sarà, anzi che supponiamo dovrà essere, a un certo punto ho smesso sia di pormele sia di tentare di rispondere, perché sono giunto alla conclusione che è praticamente inutile muoversi su supposizioni riferite a un futuro che si deve ancora definire in toto o quasi. A cosa serve?
Siccome però l'esercizio immaginario, pur essendo totalmente suppositivo, può invero aiutare a prefigurare, quindi a trovare, i modi più consoni per muoversi, allora ti dirò in breve come secondo me è probabile che il potere si muoverà nel caso che... ecc. ecc.
Innanzitutto una precisazione che chiarifica meglio il senso. Ciò a cui bisognerebbe tendere non sono tanto isole, che la parola indica luoghi delimitati separati, isolati appunto, da qualsiasi contesto. No! Io intendo proprio una società dentro la società esistente, che si muove al suo interno facendone parte con intenti e qualità d'azione capaci di modificarla profondamente proprio nel tessuto delle relazioni. Non quindi una cosa o più cose a parte, facilmente identificabili e isolabili, ma un bubbone che si espande e contamina, che contagia a poco a poco i gangli vitali dell'esistente oppressore fino a renderli inefficienti e repellenti.
Ma, è la tua domanda, il dominio esistente si lascerà corrodere e annichilire più o meno lentamente? Certamente no, ti rispondo sapendo di essere facile profeta. E lo farà in vari modi, reprimendo, calunniando, infiltrandosi e sabotando, mistificando, procurando molta infelicità e dolore. È quello che ha sempre fatto, che sa fare meglio e che gli funziona praticamente sempre, esclusa qualche rarissima eccezione.
Dal modo in cui hai posto le domande penso che siamo d'accordo. Adesso ti chiedo io: e allora? Anche se sarà così, come indubitabilmente penso che sarà, ragion per cui dovremmo prepararci ad affrontare gli eventi che ci attenderanno, può incidere questa terribile repressione sulle nostre scelte e la loro ragionevolezza? Il fatto che il potere tenterà d'impedire con ogni mezzo ciò che presumibilmente lo metterà seriamente in discussione può servire a modificare i nostri tentativi di emanciparsi? Credo proprio di no. Se la paura di essere repressi fosse una ragione sufficientemente sufficiente per astenersi dal muoversi saremmo ancora ai supplizi del medioevo nelle pubbliche piazze, vissuti interiormente come monito a non essere irregolari rispetto ai feudatari. Il fatto che il potere ci reprimerà, come del resto ha sempre fatto, deve solo diventare un monito per trovare la maniera giusta di non essere sopraffatti, come è quasi sempre successo, per proseguire il cammino verso la liberazione e la libertà autogestita, fino a quando non riusciremo a raggiungerla.

Andrea Papi
Forlimpopoli (Fc)



Forza del pacifismo, debolezza della violenza

Le seguenti riflessioni muovono dai contributi di Andrea Staid e Stefano Boni (Per una diversità delle pratiche) e di Rosellina “Rosy” Escalar (Metodi adeguati allo scopo) pubblicati entrambi in “A” 392 (ottobre 2014) nell'ambito del dibattito “Movimenti e Potere”.
Nel primo si legge: “Un movimento anarchico assolutamente pacifista ci suona contraddittorio e inefficace: rivendicare un cambiamento radicale dell'ordine costituito (con relativo abbattimento delle strutture istituzionali, finanziarie, repressive ed economiche che lo sorreggono) è difficilmente pensabile senza una dose di utilizzo della forza” e “pensiamo che l'azione diretta e non solo la pubblicistica e i convegni, siano ingredienti imprescindibili per immaginare la trasformazione” mentre nel n° 13 (Rosellina “Rosy” Escalar) “pratiche o azioni rivolte contro cose, simboli, strutture, merci, ecc. rientrano perfettamente nella metodologia non violenta (lo stesso Gandhi propagandava il sabotaggio)”.
Ho scelto questi momenti del dibattito perché a mio avviso tendenti all'approccio ideologico davanti a problemi d'ordine squisitamente politico. Nessuno può pensare alla esclusione a priori del ricorso alla forza nel corso di un momento rivoluzionario, ma è indiscutibile che la violenza non è più quello strumento ritenuto per lungo tempo decisivo per il suo successo visti i risultati controproducenti ottenuti dal suo impiego. Come ha ampiamente evidenziato il corso recente della storia.
Inoltre non si può parlare genericamente di violenza e potere (e di pacifismo) senza considerare che esse sono, concretamente, espressioni di un momento politico che una società vive in un determinato momento storico e quindi devono essere, di volta in volta, ridefiniti partendo dalla loro contingente realtà per essere tempestivamente affrontati con iniziative (politiche) specifiche inscritte in una strategia che non sarà mai, alla luce dell'attuale situazione, un “immaginare la trasformazione” (attraverso l'azione diretta) sopra proposta perché il potere oggi è forte soprattutto per aver assunto una dimensione mondiale immateriale e conseguentemente aspetti difficilmente decifrabili e difficilmente identificabili per cui la violenza propugnata sarebbe (è) rivolta solo ad alcuni suoi aspetti secondari. Il suo impiego - oltretutto - attualmente fornisce ai mass media (strumenti decisivi che il potere ampiamente controlla) l'opportunità di “legalizzare” sia la repressione sui compagni arrestati, sia per gettare ombre negative sui movimenti alternativi. A questo proposito basta vedere come giornali e TV si gettino famelici su tutte quelle notizie cavalcando le quali tendono ad attualizzare gli “anni di piombo” dimenticando che l'altra faccia della medaglia che celebra quel periodo vede incisi gli “anni della dinamite” dei servizi segreti collegati con le destre fasciste che dettero vita alle stragi di stato che oggi nessuno più ricorda. Queste precisazioni vanno unicamente intese a beneficio della precisione storica, quanto lontane da ogni accenno giustificazionista.
Una volta intrapresa la strada della non violenza essa non rinuncerà - se ritenuto necessario - al sabotaggio contro cose, simboli, strutture, merci, ecc. come giustamente propagandava Gandhi, sabotaggio da considerare però solo come eventuale strumento aggiuntivo di una strategia pacifista in atto portata avanti da una massa di persone fisiche, da un popolo in lotta; niente a che vedere - dal punto di vista della valenza politica - con quelle affermazioni di principio cui sopra abbiamo fatto riferimento. La concezione anarchica pacifista, come strategia per inverare un processo rivoluzionario nasce dalla consapevolezza dei reali, attuali rapporti di forza materiali, da ragioni d'ordine morale e di coerenza con i principi anarchici libertari e trova la sua forza nella inattaccabilità di un atteggiamento pacifista di massa che sfugge alla logica di un potere che storicamente ha nella violenza, in tutte le sue accezioni, la sua arma a tutt'oggi vincente. Inoltre, alla fine del secolo scorso, a partire da Seattle, una nuova coscienza sta attraversando i popoli di tutto il mondo. È una coscienza che varca monti e oceani e, seppure in maniera instabile, magmatica, carsica investe nazioni diverse e lontane tra loro, riempie le piazze di milioni di uomini, donne, giovani senza distinzione di cultura, credo religioso o altro uniti solo dall'aspirazione a un mondo nuovo, giusto, migliore.
L'elenco dei paesi attraversati da massicce mobilitazioni è molto lungo, Turchia, Brasile, Egitto, Spagna, Grecia, Tunisia, Bulgaria, India, Cile, Stati Uniti, Romania e vede impegnati anche paesi in crescita economica come Brasile e India. È un mondo che vuole togliere di mano alle vecchie lobby, alle caste e consorterie varie il potere sulla società per porre al centro di essa l'Uomo con la sua umanità e con la libertà (e responsabilità) per ciascuno di contribuire in prima persona alla definizione di un comune futuro! È un mondo che si caratterizza per essere “disarmato” in quanto armato solo della propria determinazione, che non persegue conquiste violente (anche perché la storia qualcosa ha insegnato); è un mondo che sa - o forse solo intuisce - che la sua rivoluzione sarà vincente solo se rivoluzionari saranno le sue finalità e le sue modalità.
Esso ci dice che il pacifismo, non la violenza, è il valore irrinunciabile per una umanità sulla strada della sua completa/definitiva (?) umanizzazione che è la stessa strada sulla quale marcia chi lotta per realizzare una società anarchica libertaria. Io ritengo che queste conclusioni rappresentino un fatto molto positivo ma è ancora niente se a quanto prospettato mancano quelle gambe che solo un grande e vasto sforzo politico-organizzativo può sperare di realizzare; uno sforzo che vada oltre l'attuale frammentazione del nostro movimento. Problema questo cui il documento della Federazione Anarchica Empolese Anarchismo e XXI secolo (“A” 391, estate 2014) prospetta una soluzione.

Ettore Pippi
della Federazione Anarchica Empolese



Occhio alla proprietà privata del denaro

Parigi. Milioni di persone hanno manifestato per protestare contro un delitto esecrabile. Ma forse quella non era solo volontà di protesta. C'era la felicità  di realizzare qualcosa da cui da troppo tempo, i sospetti che il potere induce tra i cittadini, aveva tenuto lontani e separati gli uni dagli altri.  Finalmente si era  tutti insieme, tutti anche quelli che materialmente quel giorno non erano a Parigi.
Intanto  tronfi personaggi nelle e delle prime file sfilavano plaudendo a se stessi convinti che quella folla appartenesse loro, fosse il segno tangibile di quanto quegli uomini e quelle donne sentivano di poter contare su di loro. E tutta la stampa ad intonare peana agli illustri rappresentanti dei valori della democrazia e della unità europea.
E allora: no! Gli slogan che assumono che i valori dell'occidente siano patrimonio comune degli europei, degli americani, ecc. sono falsi. È necessario che qualcuno lo ricordi. I fondamenti della democrazia non sono affatto unici in occidente. Max Weber in “L'etica protestante e lo spirito del capitalismo” precisò abbastanza puntualmente una differenza non minima. In estrema sintesi l'etica protestante e particolarmente calvinista, interpretava il successo economico, la ricchezza, come segnale dell'approvazione divina e degli austeri comportamenti terreni. Conseguentemente negativo era il vivere tra e per i debiti o aspettarsi assoluzioni o indulgenze divine e terrene tanto care (nel senso che effettivamente si pagavano fior di quattrini per ottenerle) alle gerarchie della Chiesa cattolica. Quando si stabilirono i patti europei, ci fu un tenue tentativo di mettere in risalto i valori del cattolicesimo, tentativo respinto con la scusa del laicismo, laicismo che ha permesso, comunque di inserire o ispirare norme orientate dal calvinismo. E la teoria calvinista e protestante la troviamo introdotta oggi in ogni decisione “democratica” dell'Europa che ha espunto i valori del 1789 pur da ciascuno ritenuti fondanti. La democrazia oggi da mezzo si è trasformato in fine attribuendo a se stessa il diritto autonomo di governare in base alla espressione della volontà politica della maggioranza contata però solo tra i voti espressi, rifiutandosi di considerare gli astenuti, le schede bianche o altro anch'esse espressione di volontà politica.
La pretesa della maggioranza di governare fino a nuove elezioni, al di sopra del Parlamento, che ne dovrebbe valutare via via le decisioni, è comprovata dalla serie di leggi in cui il termine stabilità la fa da padrone, impedendo così la individuazione di nuovi problemi o aggiustamenti delle soluzioni già definite e senza alcuna partecipazione.
Gli stessi, inoltre propongono ai cittadini di essere presenti sulla scena politica, presenza che sarebbe certamente auspicabile, ma che è dominata, invece, dall'ipocrisia dell'obbligo di accettare la possibilità del voto ogni 5 anni e l'accettazione acritica delle scelte dei candidati delle segreterie dei partiti.
Ma avere gli stessi valori non comporta avere automaticamente gli stessi interessi. La dinamica della produzione e i suoi sviluppi industriali poneva e pone problemi strettamente legati alla evoluzione (o involuzione) degli stessi fattori della produzione: Terra, Capitale e Lavoro. Il capitale, che in principio consisteva nel possesso di beni materiali e finanziari, ben presto si è reso conto, a mio parere, di due fatti strettamente collegati: il primo che man mano che cresceva la produzione in progressione superiore cresceva la popolazione e i suoi desideri; secondo: promuovere o andar dietro a queste crescite, che in un primo tempo avevano aumentato i profitti,  a poco a poco finivano con rendere minimi i profitti stessi per via delle quote destinate a bonificare quanto veniva inquinato o distrutto, mentre l'aumento delle popolazioni la loro sindacalizzazione e l'aumento dell'istruzione, tendeva a rendere precario, per decisioni politiche, (rivoluzioni, colpi di stato ecc.), per eventi di mercato (crisi ecc.) per eventi naturali: terremoti, inquinamenti da loro stessi provocati, la proprietà privata di quei beni materiali che  avevano loro  garantito il potere. Soluzione: relativo disinteresse verso il “Capitale beni reali privati” e massima attenzione al potenziamento del “Capitale bene finanziario”.
Per mettere a posto le cose, il controllo dei valori monetari era la prima mossa da compiersi. Questo fu facile da realizzare promuovendo l'acquisto di beni e finanziandoli in termini così convenienti che una società abituata all'indebitamento e al consumismo non ha esitato a buttarvisi allegramente a capofitto. Ma i debiti sono debiti ed i creditori sono lì a condizionare profondamente la società e la crisi che ne consegue. A questo punto si è quasi realizzata la proprietà privata della moneta. Ora non restava che unificare in un'unica moneta quelle di un territorio, con caratteristiche omologhe sia in termini di religione, di governi, di cultura e sindacalmente abituati o orientati a difendere salari piuttosto che diritti dei lavoratori.
L'Europa sembrava fatta apposta. Aveva messo in comune alcune cose tra cui quelle più interessanti e cioè le forze militari strette in un alleanza che, comunque, facendo capo proprio al paese in cui le scuole di economia avevano messo a punto il piano stesso, fornivano la massima garanzia insieme alla pratica di corruzione che coinvolgeva quasi tutti i governi, le istituzioni se non addirittura i cittadini. Inoltre la proprietà privata del danaro comporta che un governo che volesse tentare di sfuggire alle crisi con progetti di sviluppo e di investimenti per realizzarli poteva  contare solo sul danaro “privato” che sarebbe stato reso disponibile solo alle condizioni di coloro che ne sono i proprietari. (Grecia insegna).
E l'Italia? In Italia i proprietari della moneta si trovavano di fronte ad una popolazione che aveva si un grandissimo debito pubblico, cosa senz'altro da loro fondamentalmente apprezzata in quanto forniva sostanziali margini di ricatto verso i governi in carica (vedi ancora Grecia) ma possedeva un altrettanto consistente risparmio privato. L'Italia, dunque, doveva, al più presto, essere resa malleabile attraverso l'introduzione di vincoli destabilizzanti fondati su una austerità capace, in breve, di promuovere povertà, disoccupazione, fragilità assistenziale ecc.
Niente è stato più iconograficamente descrittivo della volontà calvinista  dell'Europa dell'austero Prof. Monti, nominato Presidente del Consiglio Italiano ma  presto non sopportato dal suo popolo abituato a leader più “espansivi”, “allegri” e con grande facilità di affabulazione. Un Capo dello stato, fedelissimo all'Europa, immaginò una sostituzione con un democristiano, Letta, che venne sbrigativamente messo da parte in favore del vero soggetto sponsorizzato dall'Europa che vedeva in lui il giovane rampante, capace di mostrarsi, a parole, come contrarissimo all'austerità nord europea,  ma di fatto deciso a non distaccarsi da tutto ciò che era stato messo felicemente in pratica e soprattutto di concludere ciò che era rimasto in sospeso.
Che resta da fare?
Accettare ciò che il potere ci permette di fare: chiedere lavoro, per lasciar loro, con prosopopea seria ed infame affermare che il lavoro dobbiamo crearcelo da noi (come se non ce ne fosse già tanto da fare?)
Considerare giusti e disinteressati gli interventi diretti a ridurre il welfare? (Senza accorgerci che tanto i ricchi se ne fregano perchè hanno i loro ospedali e le loro scuole)?
Sottoscrivere entusiasticamente l'abolizione di ogni diritto dei lavoratori in cambio di flessibilità (devastante pratica che  separa dal proprio  presente  dal proprio passato, dai propri valori e dai propri territori nonché dalla solidarietà delle persone che si e ci amano con relativa e devastante perdita di identità, oltre che spesso di parte dei salari?
Goderci l'infinita giustizia che hanno realizzato sulle pensioni eliminando quelle legate agli ultimi salari e sostituendoli con  calcoli sui contributi versati, come se l'ammontare di questi dipendesse dal lavoratore e non dai padroni che fissano quando assumere, quanto essere pagato e soprattutto se e quando interrompere il tuo lavoro...
Ma il passo decisivo dei proprietari privati del denaro è quello di avere individuato nella miseria e l'ignoranza, la risorsa per arricchirsi di più e capace, per se stessa, di scongiurare ogni possibilità di rovesciamento del potere. Sanno che le rivoluzioni possono essere realizzate, con speranza di successo, solo se hanno alle spalle una forte preparazione culturale e tecnica che deve, per prima cosa sostituire tutte le strutture di potere esistenti con proprie forme organizzative. Ogni altra rivoluzione se non è impregnata da questa volontà creativa, sarà costretta, nel tentativo di rafforzarsi, di sostituire i capi delle strutture istituzionali sperando di poterle orientare verso i propri fini. Ma così facendo è probabile si realizzi solo un colpo di stato.

Angelo Tirrito
Palermo



Cosenza/La Fucina anarchica compie un anno

Domenica 14 dicembre, in uno dei capannoni delle ex officine Calabro-Lucane di Cosenza, la Fucina anarchica ha festeggiato il primo anno di attività, di autogestione, lotte, antispecismo, anarcosindacalismo e pratiche libertarie.
Questo complesso di edifici è situato quasi in centro, tra via Popilia e viale Parco, a pochi minuti da corso Mazzini, la strada pedonale nel cuore della città nuova. Le Calabro-Lucane un tempo erano le littorine e le corriere che, sulla rete ferrata e quella stradale, percorrevano le due regioni dell'estremo stivale italico. In questo complesso di capannoni si effettuavano le manutenzioni meccaniche fino a quando, negli anni Novanta, allorché in Italia avvenne la svolta neoliberista e delle privatizzazioni, le officine vennero dismesse e le strutture furono occupate in autogestione da diverse realtà di Cosenza, tutte fortemente impegnate nel discorso politico, culturale e sociale della città, ma squattrinate e senza santi in paradiso. L'intero complesso edilizio meriterebbe una riqualificazione, vista anche la posizione strategica che occupa nel nucleo urbano, ma le istituzioni non sono disposte a investirci un centesimo. Ovviamente, per gli interessi dei palazzinari, di tanto in tanto spunta la minaccia dello sgombero dell'area. Intanto, le diverse realtà presenti vanno avanti.
La Fucina anarchica la si ritrova sistemata alla meno peggio, in un magazzino di circa cento metri quadri. In un angolo sono collocati i libri, le riviste e quant'altro per la propaganda anarchica; le copie di Umanità Nova risaltano in evidenza, con un grande salvadanaio per la campagna di sottoscrizione straordinaria necessaria a impedire la chiusura del giornale. Dalla parte opposta, in una stufa sistemata sopra la vecchia fucina dell'officina, bruciano ciocchi di legna. Tira bene la stufa e il fumo sale indisturbato verso l'alto, mentre il calore si propaga nell'ambiente lasciando dietro la grande porta in ferro il primo gelo portato dai monti della Sila.
Il musicista Migliuzzo Manuzio suona qualche pezzo del suo repertorio Reggae&Roll e Pop. Gira del vino locale proveniente dalle generose uve di Donnici, le colline sopra Cosenza. Verso le 18.30, come da programma, inizia la presentazione del libro Calabria ti odio di Francesco Cirillo. Breve saluto di Maria Fortino, che spiega anche il senso dell'agire politico e dell'iniziativa intercalata nel primo anniversario della Fucina anarchica. Subito dopo è Oreste Cozza che dialoga con l'autore sui contenuti del testo. Oreste è un po' l'anima della Fucina; dopo aver inserito qualche riflessione sulla ricorrenza della struttura, inizia a conversare e a porgli delle domande.
Francesco Cirillo è una figura storica dell'antagonismo politico calabrese, ambientalista, scrittore e giornalista. Calabria ti odio, pubblicato per i tipi di Coessenza, è una raccolta di cinquanta storie che raccontano della Calabria, una terra di forti contraddizioni che riesce a farsi amare e, allo stesso tempo, odiare. È facile capire che il libro di Cirillo scatena l'indignazione, apre visuali d'osservazione nella Calabria violentata, saccheggiata, avvelenata da criminali rimasti impuniti, e dove tutto è controllato dalla politica e dalla massoneria. Allo stesso modo, con maggiore significato simbolico, si percepiscono figure forti e delicate, guerriglieri delle utopie, figure minori di un popolo mai domo. Questa dicotomia, questi frammenti contrastanti caratterizzano i contenuti di questo testo, consentendo al lettore di alternare differenti stati d'animo e forti riflessioni.
Ai dubbi di Oreste sul “Che fare?”, Francesco Cirillo non vede altre soluzioni: cercare di integrare il movimento nel territorio, andando per le strade e tirare dentro gli artigiani, i giovani, il popolo in generale, per discutere sui problemi e sulle vertenze in corso, per creare delle zone cuscinetto, per creare dinamiche sociali.
Al termine della presentazione è stato proiettato un video appositamente montato per raccontare dell'occupazione e dei lavori di ristrutturazione della Fucina. La serata è proseguita con la musica dei Cantori della Fucina e una cena rigorosamente vegana e a chilometri zero.

Pino Fabiano
Cotronei (Kr)




I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Milena Morniroli (Clermont-Ferrand – Francia) in ricordo di Paolo Soldati, 100,00; Giuseppe Ideni (Forcoli – Pi) 10,00; Filippo Della Fazia (San Vito Chietino – Ch) 15,00; Vincenzo Argenio (San Nazzaro – Bn) 10,00; Paolo Facen (Feltre – Bl) 10,00; Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 10,00; Marino Frau e Nicola Pisu (Serrenti) 50,00; Benedetto Valdesalici (Villa Minozzo – Re) 10,00; Antonio Pedone (Perugia) 30,00; Diego Zandel (Roma) 10,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo – Sa) 40,00; Marco Castaldi (Colle Val d'Elsa – Fi) 60,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 10,00; Gudo Bozak (Treviso) 260,00; Federico Zenoni (Milano) 40,00; Marco Parente (Venezia Mestre) 25,00; Roberto Caselli (Parma) 10,00; Fausta Saglia (Ghiare di Berceto – Pr) 60,00; Fondazione Gaber (Milano) contributo per la collaborazione nell'organizzazione della serata “La fiaccola dell'anarchia” a Rosignano l'8 gennaio 2015, nel 150° anniversario della nascita di Pietro Gori, 1.250,00; Alessandro Sancamillo (Latina) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Franco Pasello e Paolo Soldati, 500,00; Giampaolo Pastore (Milano) 20,00; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto, Marina e Minos Gori, 80,00; Helga Bernardini (Milano) 20,00; Mauro Pappagallo (Torino) 10,00;  Massimiliano Bonacci (Bologna) 15,00; Davide Giovine (Torre Pellice – To) 15,00; Renato Sacco (Alba – Cn) 25,00; Luigi Vivian (San Bonifacio – Vr) 10,00; Maria Teresa Giorgi Pierdiluca (Senigallia – An) 10,00; Fulvio Casara (Venasca – Cn) 10,00; Valerio Pignatta (Semproniano – Gr) 10,00; Stefano Piovanelli (Vicchio – Fi) 20,00; Giovanni Maletta (Bergamo) 10,00; Rocco Tannoia (Settimo Milanese – Mi) 10,00; Mario Alberto Dotta (Aymavilles - Ao) 10,00; Franco Melandri e Rosanna Ambrogetti (Forlì) 25,00; Sergio Pozzo (Arignano) 10,00; Pietro Busalacchi (Napoli) 10,00; Daniele Ferro (Voghera – Pv) 6,00; Libreria San Benedetto (Genova) 3,20. Totale € 2.849,20.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Antonio Orlando (Cittanova – Rc); Manuele Rampazzo (Padova); Nicola Farina (Lugo – Ra); Vittorio Golinelli (Bussero – Mi); Antonella Trifoglio (Alassio – Sv); Gudo Bozak (Treviso); Carlo Carrera e Yvonne Pastori (indirizzo non identificato: se leggete, fatecelo sapere!) 150,00; Davide e Selva (Lugano – Svizzera); Francesco Barba (Frankfurt a/M – Germania); Liana Borghi (Firenze); Maurizio Guastini (Carrara) 150,00; Fiorella Mastandrea e Amedeo Pedrini (Brindisi); Lucio Brunetti (Campobasso); Stefano Quinto (Maserada sul Piave – Tv); Luca Gini (Villa Guardia – Co); Tiziano Viganò (Casatenovo – Lc) ricordando Franco Pasello e Pierluigi Magni; Oreste Roseo (Savona) ricordando Giovanna Caleffi Berneri, Aurelio Chessa, Mario Mariani ed Elio Fiori, 150,00; Massimo Locatelli (Inverigo – Co) 115,00; Giacomo Ajmone (Milano). Totale 2.065,00.