rivista anarchica
anno 47 n. 416
maggio 2017






Pop songs

Stefano Gentile è quello che si dice un caro e vecchio amico: ci siamo conosciuti da ragazzi, primi anni Ottanta quindi ai cosiddetti “bei tempi” dell'autoproduzione e dell'autogestione - lui e Manuel suo fratello suonavano con gli Hyxteria, uno dei primissimi gruppi punk anarcopacifisti del nordest (zona Vittorio Veneto, poco più su di Treviso verso le montagne) e avevano messo in piedi una fanzine niente male di nome Nashville Skyline, pagine fotocopiate di agitazione e polemica come felicemente si usava allora. Se vi piace frequentare giri di musica di ricerca elettronica rumorismi e cose strane e sotterranee è senz'altro probabile che siate inciampati in una delle sue produzioni discografiche, prima con l'etichetta Amplexus e diventata poi 13/Silentes. Vi ho parlato di lui proprio nel mio debutto su queste pagine (“A” 118, aprile 1984) e più di recente ho segnalato (“A” 409, estate 2016) una sua produzione, il bel libro di Mirco Salvadori con abbinato cd di Gigi Masin.
Vi ho anche segnalato un suo recente libro di fotografie veneziane, sempre con un gran bel lavoro di Masin a fare da supporto/abbinamento musicale (“A” 414, marzo 2017).
Se date un'occhiata al catalogo di Silentes capite presto che chiamare “musica” tutto quello che Stefano ci ha messo dentro o è sbagliato o non è abbastanza: non c'è posto né per quella “musica” che infesta il nostro ambiente, intesa cioè come prodotto di consumo – che è poi come la si intende abitualmente dagli anni Ottanta in qua, nonostante il punk – né per certi confini di genere espressivo. Confini – ecco il nodo centrale: è un termine che perde non solo senso ma anche consistenza. Confini che appaiono oggetti pretestuosi ed inservibili, inadatti come filo spinato messo a circondare i pensieri, i ragionamenti, la mentalità – e la musica, appunto. Anzi, le musiche. Tutte: quelle riconoscibili e quelle no, quelle commestibili e quelle strane, quelle appena inventate, quelle ancora da inventare.
Questa uscita recente “Pop songs” è, come succede spesso da Silentes, un progetto che mescola/accosta/intreccia contributi sonori, grafici e scritti. Musica e immagine insieme a raccontare punti di vista sulla musica da adoperare e su quella impossibile a ricondurre ad un qualche uso, per condividere ricordi, illuminazioni e segmenti di percorso, per dire vecchie storie – vecchie perché successe ai ragazzi di ieri – ai ragazzi di oggi che hanno orecchie nuove e nuove teste affamate tra un orecchio e l'altro.
I ragazzi di ieri coinvolti si chiamano Vittore Baroni, Massimo Giacon, Paolo Cesaretti, Manuel Gentile, Lapo Belmestieri …e ci sono pure io. Tutti avevamo più o meno vent'anni negli anni Ottanta. Vittore e Massimo sono stati i promotori, con Piermario Ciani, del progetto Trax cioè una delle più intelligenti e simpatiche storie che potevano succedere e che sono poi successe alla cultura giovanile indipendente del nostro paese.
Paolo e Lapo li ricorderete senz'altro per Free, la fanzine fiorentina che si era distinta per la qualità dell'impostazione grafica e per la sua sensibilità così particolare e trasversale all'approccio musicale, proprio in quei tempi in cui l'acquistare un disco piuttosto che un altro poteva significare addirittura esporsi ad una scelta politica pubblica ed esplicita. Manuel ed io eravamo fanzinari agitati nel nordest – una volta che ti ci trovi in mezzo è difficile smettere, fanzinari si resta comunque e sempre da qualche parte, dentro – peggio che fumare.
L'ambiente sonoro è frutto di allucinazioni e manipolazioni sonore di Gianluca Favaron e dello stesso Stefano Gentile, sue anche alcune illustrazioni/collage pastello e argento che contribuiscono allo spaesamento complessivo.
Questo mese vi offro un testo ritagliato dal mio contributo scritto a questo libro/CD. Per informazioni e contatti vi invito a fare un giro in internet su 13.silentes.it – trovate tutto lì, il sito descrive un mare di suono in cui è bello naugrafare, perdersi, affogare, scomparire.

La copertina di Pop songs

Pop è il rumore che ascolto quando cammino per strada

La rivista di controcultura Re Nudo aveva organizzato nel settembre 1971 un festival pop a Ballabio, un paesetto poco a nord di Lecco: ci suonarono tra gli altri Claudio Rocchi e i Garybaldi, un cantautore psichedelico che di lì a poco si sarebbe consegnato a Krishna e un gruppo rockblues con il chitarrista di un'evidente ispirazione hendrixiana – per dire come pop fosse allora un abbraccio concettuale larghissimo stretto tutt'attorno alla musica e alla cultura di quel soggetto sociale nato dalle proteste del Sessantotto: i giovani. Re Nudo era una cosa nuova e chiaramente distante da quel genere di stampa normale che girava per casa. La conoscevo perché mi capitava di sfogliarla di sfroso, ma non riuscivo praticamente mai a comprarla – mica era facile fregare i giornali all'edicola del quartiere. Con ogni probabilità di Ballabio ero però venuto a conoscenza già tardi, a festival finito. Certo, non sarebbe stato proprio facile arrivarci, mi ero immaginato un'avventura di autobus e treni e pezzi a piedi e in autostop, ma mi sarebbe proprio piaciuto andare a un festival pop. E ai miei gliel'avevo detto, una sera a cena: si erano allarmati il giusto, mio papà e mia mamma spaesati di fronte alla musica pop come potevano esserlo un operaio socialista non scolarizzato e una casalinga di salute malferma strappati al paese dalla prospettiva di un lavoro fisso negli stabilimenti chimici. La cosa poi era andata spegnendosi velocemente con un pensa a studiare, dai, e un'amorevole pacca sulla spalla. Sono convinto che nessuno dei tre sapesse davvero cosa fosse un festival pop, e sapesse ancor meno cosa fare, cosa dire, come raccogliere le idee. Del resto avevo quattordici anni e avevo appena cominciato l'ITIS, classe prima sezione C. In casa c'erano tutt'altri pensieri e preoccupazioni: quello era stato un anno difficile dopo parecchi anni difficili, mesi di scioperi e manifestazioni a Marghera, mio papà era stato minacciato di trasferimento e il papà di più di un mio amico aveva rischiato il licenziamento.
Dimenticato (anzi, dico meglio: messo da parte in qualche cassetto della mente) Ballabio, sei mesi dopo vengo a sapere di un altro festival pop a Roma, a villa Pamphili, con Van der Graaf Generator e Hawkwind e gruppi italiani come Banco e Osanna e molti altri. Un “agglomerato di ambigue carovane di ragazzi e ragazze” stando all'Osservatore Romano, musica come rumore a rovinare la tranquillità il decoro il riposo degli abitanti della zona. Musica come rumore perfettamente adatto a me, pensavo – ma Roma era proprio lontana da Venezia, per andarci sarei dovuto scappare di casa. Figuriamoci, era solo un festival pop: l'ho messo nello stesso cassetto dov'era finito Ballabio, un cassetto che negli anni a venire avrei riempito sempre più malvolentieri.

Un nome che andava bene

Vi sto raccontando di cose che sono successe nei primi anni Settanta, quando le varie etichette divisorie in campo musicale non erano ancora state inventate. Oppure forse c'erano già, ma noi non lo sapevamo ancora. Per noi intendo io e i miei amici e compagni di scuola e di quartiere, quelli dei miei giri, ragazzi un po' così a cui la musica aveva occupato una zona strategica dentro in testa e che passavano dei mezzi pomeriggi ad ascoltarla più o meno clandestinamente invece di studiare. Pop era un nome che andava bene, un nome come un altro nel senso che non erano cose su cui valesse la pena perdere tempo a discutere.
Eravamo solo dei ragazzini, il mercato non si era ancora accorto di noi per trasformarci in consumatori, né noi ci eravamo ancora accorti del mercato. Eravamo tutti di famiglia operaia ed avevamo orizzonti corti ed esigenze corte, in casa non c'erano soldi e alla povertà eravamo abituati, e comunque a noi bastava davvero poco: un paio di jeans usati, una vecchia borsa militare a tracolla, l'eskimo, qualcuno il basco altri la caciòa da pescatore, però tutti affamatissimi di parole, suoni, visioni, suggestioni. Si chiamava musica pop (oppure musica rock, ma più raramente) quella che suonavano i gruppi strani della zona tipo le Orme ma era pop anche Patty Pravo perché no.
Dentro al mio scatolone mentale con sopra scritto pop rientrava di tutto, molto elasticamente: la musica strana e i festival nebulosi, appunto, e tutta una popolazione colorata di dropouts, capelloni, fricchettoni, poeti ed artisti, chitarre acustiche ed elettriche, femministe, beat, pacifisti, rivoluzionari, spostati e non-integrati, insomma tutte le varie sfumature della protesta.

I musicisti più complicati e strani suonavano musica pop. Nella “Guida alla musica pop” di Rolf Ulrich Kaiser, uscita in traduzione italiana alla fine del 1971 e comprata appena possibile accumulando gli spiccioli, c'era posto per tutto quello che stava tra l'A degli Amon Düül e la X degli Xhol, niente alla Z perché Frank Zappa stava nascosto sotto la M con le Mothers of Invention. Sparsi nel mucchio Peter Brötzmann, gli Embryo, i Tangerine Dream più vari nomi europei – molti sconosciuti che senz'altro sarebbe valsa la pena conoscere, ed in coda uno scritto a cura di Michele L. Straniero sulla canzone italiana di protesta. Pop era dunque un arcobaleno indistinto, non ancora indagato, definito, studiato, digitalizzato, non ancora settorializzato – certo s'era appena agli inizi del suo sfruttamento commerciale industriale.
Ci si ragionava però già sopra: Kaiser s'era già accorto dell'aria che tirava (titolo del 14° e ultimo capitolo del libro: “Soldi: la fine della nuova musica pop”). Anche in “Pop story” di Riccardo Bertoncelli (ed. Arcana, febbraio 1973) si parla esplicitamente e disinvoltamente di consumismo e contraddizioni già in copertina, nel sottotitolo. Mi accorgo che quando prima si faceva fatica a trovare non solo una qualche informazione attendibile (eravamo giovani sì ma non stupidi: nel leggere un giornale giovanile si arrivava presto a capire fin dove si spingeva l'influenza affilata degli inserzionisti) ma anche i testi delle canzoni, adesso escono in edicola piccole e medie riviste pop con dentro tutto un mondo da scoprire, e in libreria mettono fuori libretti pop e libri pop più grossi e più fighi, addirittura delle enciclopedie pop. Certi costano poco. Basta pagare.

Gianluca Favaron

La musica pop non è sempre felicità

A me piaceva ascoltare musica pop dunque, e, quando possibile, andare ai concerti. A scuola c'era abbastanza poco giro, solo pochi altri interessati con cui scambiare dischi e commenti e tiramenti: buona parte dei miei compagni, specie i ripetenti, sembravano aver già fatta propria l'accettazione del destino che si riassumeva nel mantra scuola-fabbrica-famiglia, cui a me piaceva aggiungere in coda il supermercato e il cimitero. Facile capire che ero uno stronzetto emarginato destinato a un futuro irto di problemi e complicazioni: a quindici anni nei miei sogni c'era posto per la musica pop, non per progettare una vita senza vie d'uscita fatta di fidanzate servizio militare matrimonio lavoro figli e altre assurdità. Mi spingeva alla musica pop una curiosità complicata e problematica, forse una deviazione della fame mentale e della ricerca di sensazioni gratificanti che spingeva altri miei coetanei allo stadio per le partite di calcio, o in chiesa per la messa beat, o ai raduni dei boy scout. A me piacevano le cose strane: mi incuriosivano, mi facevano sorridere, gioire, stare bene. Mi piacevano i libri strani scritti da gente strana. Mi piacevano le musiche strane e questo l'ho già detto, mi piacevano soprattutto quelle che agli altri non piacevano.
Pochi soldi, concerti gratis, dischi comprati nuovi pochi trovati usati di più rubati tanti, cassette casalinghe autogestite ma soprattutto: musica dalla radio. Per fortuna era iniziata l'epoca delle radio libere. Per fortuna mi ci sono ritrovato in mezzo, sono stato uno dei collaboratori più giovani di radio Mestre 103, una delle primissime. Per fortuna che in radio bazzicavano degli anarchici: mi hanno fatto da sorelle e fratelli maggiori, da maestri, da guida, da riparo, da ispirazione e da esempio. Per fortuna ero curioso: cercavo di partecipare a quante più potevo delle occasioni che mi capitavano a tiro, con la scusa dei servizi e delle interviste per la radio talvolta riuscivo a intrufolarmi ai concerti già dal pomeriggio, più spesso mi aggregavo ai gruppi di ragazzi più vecchi di me che protestavano per il prezzo eccessivo dei biglietti d'ingresso e sfondavano. Come mi piaceva fare casino, ritrovarmici in mezzo.
Dagli anarchici e dalle radio libere imparo una cosa importante: la musica pop non è sempre felicità e sole fuori. La musica pop sa raccontare anche il malessere, indica i semi della ribellione, l'insofferenza e la disperazione. È una chitarra elettrica che urla il rumore del Vietnam, è il racconto di voli in solitudine senza essere visti da nessuno, è profondità di abissi lisergici da cui è difficile risalire, è incubi che martellano la notte, è dubbio che esplode e mette crepe e infiltrazioni nei tuoi muri maestri. La musica pop è quello che trovo appena fuori della porta di casa, è il casino della mia città, è il rumore che ascolto quando cammino per strada, è il mio rumore.

Allenamenti con la fantasia

Ragionandoci sopra adesso, ero un ragazzino povero che abitava nella provincia dell'impero, la scarsità di mezzi economici costringeva me e i miei compagni a fare allenamento con la fantasia. E i concerti, vuoi mettere? Musica che accade davanti a te è senz'altro meglio di musica riprodotta da ascoltare, è un'esperienza più complessa, un ragionamento profondo e complicato. Ma, se ai concerti non ci puoi andare e l'alternativa è il silenzio, il buio sonoro, allora penso sia positivo avere, tramite una registrazione, la possibilità di godere della creatività musicale anche restandosene a casa seduti davanti a due casse acustiche immaginando di essere proprio lì a guardare le dita che si muovono mentre la musica prende forma. Io suonicchiavo la chitarra, e per me è stato importante aprirsi a questa libertà straordinaria, grande come il cielo e renderla tramite la fantasia così a portata di mano da poterla toccare. Mi sono ritrovato mille e mille volte ad ascoltare un disco dove avrei voluto leggere anche il mio nome scritto in copertina, dove mi immaginavo di essere lì dentro a suonare mentre nell'altra stanza c'è qualcuno che registra, io che sto a guardare gli altri del mio gruppo che mi guardano e gli viene da ridere e poi viene da ridere pure a me e ci si ritrova a tirarsi addosso manciate di note col flauto e la chitarra e la batteria come fossero palle di neve, a impazzire di felicità e volare, dissolverti, scomparire, bruciare, diventare luce. E chissenefrega se questa è musica pop. Oppure se però si è già in una zona sperimentale, territorialmente vicina al jazz, se è musica creativa, pop si vabbé ma forse già non è più pop, qui non ci sono confini – dentro al pop c'è posto per tutto. E poi, sul serio: ma chissenefrega. Chissenefrega.

Vittore Baroni

Grigio tutt'intorno e sopra

Stando al telegiornale e alla faccia scandalizzata del conduttore, chissenefrega avrebbe dovuto essere la parola d'ordine del punk. Occhio: il tempo passa, io sono cresciuto, non sono più il ragazzino in prima C ma mi sono diplomato, è già qualche anno che ho assaggiato il lavoro nero come fattorino magazziniere cameriere manovale commesso tuttofare. Ho anche avuto i primi scontri col sistema: licenziato in tronco dal primo lavoro vero perché obiettore di coscienza al servizio di leva militare quando ancora non si poteva. Sono al primo anno di università 1976 1977 quando da un'altra parte del mondo – ma triste proprio come da noi – qualcuno, dei ragazzi tipo come me, press'a poco la mia stessa età vent'anni, si rompono i coglioni della monotonia e del grigiore della vita e hanno la presunzione di inventarsi il punk. Non sanno suonare né cantare ma decidono di suonare e cantare comunque. Questa è la versione romantica della storia, quella che ci ha nutrito e che ci ha tenuto vivi a mille chilometri di distanza, in periferia, nei quartieri a rischio, nei casermoni delle case popolari, negli scatoloni di cemento ficcati in fondo a strade sterrate buie dove non arrivava neanche la corriera. Uso il plurale ancora: in mezzo a quei ragazzi c'ero anch'io, e ci credevo.
Ecco: il pop è scomparso. Se andiamo a guardare, non ce n'è improvvisamente più traccia nei manifesti, nelle scritte sui muri, nelle nostre fanzine fotocopiate. Di tutto quel cielo pop azzurro, perennemente primaverile, sono rimaste solo nuvole basse e nere, pioggia battente ogni giorno, pozzanghere a riflettere il grigio che sta tutt'intorno e sopra e che ci è venuto ad abitare dentro. Altro che pop, è stato come svegliarsi la mattina improvvisamente tutti ben consapevoli della situazione e del livello della merda: bisognava fare qualcosa, non volevamo morire in fabbrica, o finire a bere in un bar fino a non poterne più, o in un parco con una siringa piantata nel braccio. Il punk ci ha acceso sotto il culo la miccia del coraggio: non c'era niente da perdere, l'attitudine rompicoglioni e la mancanza di rispetto verso le istituzioni l'avevamo già nelle ossa visto che si viveva in quartieri di merda e si erano fatte scuole di merda e si erano confusi spesso e volentieri giochi da strada e piccolo teppismo.
Insomma, chi più chi meno ma tutti avevamo attraversato quegli anni caldi resistendo com'eravamo capaci, qualcuno con una fionda in tasca o un sasso in mano, altri a cercare chissà cosa appresso a un guru in India, altri ancora immaginando di imbracciare una chitarra elettrica come fosse un fucile.
A vent'anni ho imparato velocemente che non ci sono fucili pop, qua da noi: l'America è lontana, a distanza televisiva di sicurezza, e qua tira altra aria. I fascisti mettono le bombe nelle piazze, ci sono ragazzi come te che improvvisamente spariscono, pistole che finiscono sempre nelle mani sbagliate, le camionette della polizia i posti di blocco e gli incidenti in fabbrica diventano caratteristiche del paesaggio a cui piano piano ci si abitua.
Un giorno ti svegli e ci sono i carrarmati per le strade a Bologna. La primavera è finita, resta un inverno artificiale senza sole, lungo, grigio e rigido, neve velenosa che cade, silenzio. Nessun sogno, nessun futuro. Anni di piombo, di amianto, di televisione. Nessuna musica pop a scaldarti il cuore, a tenerti per mano mentre tutto intorno sanguina, a farti un po' di compagnia senza chiedere niente in cambio.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it