rivista anarchica
anno 48 n. 422
febbraio 2018






Schiavi del XXI secolo


Amministrazione della giustizia, sfruttamento del lavoro in carcere, repressione delle minoranze.
Il nostro corrispondente dagli USA ritorna sulla questione carceraria, cartina al tornasole di quella democrazia. Che vista dall'interno delle sbarre...

“Il quinto venne assunto in galera
per un indizio da poco
e fu crocefisso col ferro e col fuoco”.

(“L'impiccato”, Francesco De Gregori, 1978)

Il 26 febbraio 2012, per le strade di Sanford, Florida, il diciassettenne nero Trayvon Martin venne assassinato con un colpo d'arma da fuoco da George Zimmerman, autoproclamato vigilante, originario della Virginia, spesso al centro di episodi di violenza. Martin stava rincasando, non aveva fatto nulla e non era armato. Tuttavia Zimmerman inizialmente non venne neanche incriminato e in seguito fu assolto con formula piena, grazie a una legge assurda la cui costituzionalità è invano dibattuta.1
Tre mesi dopo, in quello stesso tribunale, Marissa Alexander, un'afroamericana che, per difendersi dall'ennesima aggressione del marito, aveva sparato un colpo di pistola a scopo intimidatorio, senza ferire nessuno, ricevette una condanna a vent'anni dopo dodici minuti di camera di consiglio.
Il tema dell'amministrazione della giustizia negli USA, esemplificato da questi due episodi, esigerebbe un ripensamento radicale e un'opinione pubblica indignata ma, per la maggior parte, gli americani sembrano poco interessati alla questione, distratti forse da altre priorità. In genere ben pochi trovano modo di riflettere su tribunali e prigioni fin quando la questione non li riguarda personalmente. Per me invece, ultimamente, il tema del carcere è diventato un'ossessione che non mi lascia dormire sonni tranquilli. Tutto è cominciato da un documentario:2 guardarlo è stato come gettare lo sguardo oltre l'orlo di un abisso sul quale ancora non mi ero ancora affacciato.
L'impero coltiva i suoi miti e i politici qui, per far carriera, devono mostrare di aderirvi senza esitazione. L'eccezionalismo americano è fra questi: una congettura che proclama gli Stati Uniti nazione diversa, superiore ad ogni altra, luce posta dalla provvidenza sulla cima di un monte a guida e ispirazione del resto del mondo.3 Tuttavia, ecco una grande contraddizione: uno dei punti forti di questa filosofia è la garanzia costituzionale di una giustizia equa per tutti, introdotta già nel 1789 con il VI emendamento della costituzione. Ma oggi languiscono nei penitenziari milioni di detenuti, in prevalenza provenienti dai settori più poveri e dalle minoranze, condannati senza processo, abbandonati nelle mani di speculatori senza scrupoli, sfruttati, costretti al lavoro forzato grazie ad un altro emendamento della costituzione.4 È una luce ingannevole, dunque, quella posta sopra la collina.
“L'America è diventata una grande prigione”, scriveva nel 2001 il regista Michael Moore,5 e aggiungeva: “Siamo una società che premia e onora i gangster delle grandi imprese che sfruttano le nostre risorse e si arricchiscono con la borsa, mentre assoggettiamo i poveri a un sistema giudiziario brutale che colpisce a casaccio”. In quello scritto Moore sparava a zero contro Clinton e Bush, colpevoli di aver fatto incarcerare milioni di poveri mentre concedevano generosamente la grazia a ricchi filibustieri della finanza. Oggi più di allora questo è il paese dell'incarcerazione di massa: mai si era vista una nazione con un così alto numero di detenuti.

Una fucina di violenza

Per tre anni ho vissuto negli USA senza sapere che qui, come in una favola dal finale sballato, si chiudono le scuole pubbliche per costruire nuovi penitenziari, perché il carcere assicura profitti che l'istruzione non garantisce.6 È bastato posare lo sguardo su questa mostruosa impresa capitalista per individuarne ramificazioni e conseguenze e oggi mi accade di incontrare chi denuncia questo sistema e chiede scuole, ospedali e lavoro al posto di prigioni.
Chi critica il sistema giudiziario e penitenziario americano, sottolinea i danni arrecati non solo ai detenuti ma anche alla comunità nel suo complesso. Infatti, anche volendo ammettere il beneficio di togliere dalla strada, per periodi più o meno lunghi, individui pericolosi e violenti, gli operatori del settore sottolineano che tali detenuti sono un'esigua minoranza ma vengono a contatto con una massa di giovani che, per difendersi, sono costretti a tirar fuori il peggio di se stessi. L'incarcerazione di massa è quindi una fucina di violenza e rappresenta, per la comunità, una duplice minaccia: imprigiona arbitrariamente individui marginali ma generalmente innocui, cui la società non offre alcuna possibilità di inserimento e li restituisce alla strada molto più disperati, violenti e pericolosi.
Per chi è testimone di tutto ciò eventuali riforme sono utili ma non sufficienti: si mette piuttosto in dubbio la legittimità stessa del carcere, la sua utilità. Movimenti e associazioni ragionano sulla possibile eliminazione del sistema penitenziario, delle pene misurate in mesi ed anni da scontare in cella in misura proporzionale al crimine commesso; chiedono piuttosto una decisa inversione di rotta verso la riabilitazione e il reinserimento dei condannati e mettono sul tavolo proposte concrete: depenalizzazione dei reati minori, abrogazione degli incentivi economici che inducono la polizia ad eseguire arresti irragionevoli,7 eliminazione della cauzione come strumento di carcerazione preventiva, percorsi di riabilitazione alternativi alla detenzione, graduale sostituzione dei penitenziari con strutture aperte alla vita comunitaria. Le enormi risorse risparmiate riducendo drasticamente le strutture carcerarie sarebbero destinate alla prevenzione, espandendo l'accesso alla casa, al lavoro, all'istruzione e alla salute delle comunità a rischio, garantendo così la decisa diminuzione dei reati conseguenti alla condizione di povertà di molte comunità. Un aspetto peculiare è rappresentato dal grande numero di detenuti affetti da problemi mentali, che non dovrebbero trovarsi in carcere ma in adeguate strutture sanitarie.
A queste richieste si aggiungono quelle di favorire la regolarizzazione di irregolari e richiedenti asilo che affollano i centri di detenzione per migranti; un settore in espansione che attualmente rappresenta, per i costruttori, un affare maggiore degli stessi penitenziari.8
Esiste insomma, negli USA, un movimento abolizionista, minuscolo ma combattivo, che coltiva grandi speranze e promuove piccoli, ragionevoli progetti, per cominciare a cambiare concretamente le cose.

“Sarò io il prossimo?” Un fermo immagine del documentario “13th” di Ava DuVernay

Corruzione e immensi profitti

In questo viaggio nella realtà penitenziaria statunitense mi è accaduto di incontrare persone cui il carcere ha cambiato la vita, che ci siano finiti dentro o ci siano entrati per lavorare. Storie stupefacenti come quella di Steve Morton, l'avvocato che ha lanciato la campagna per chiudere l'inferno di Rikers, il carcere collocato sull'omonima isola nell'East River fra Manhattan e il Bronx.9 Afroamericano cresciuto in un ghetto di New York, Morton, appena quindicenne, fu condannato a sei anni per il furto di uno zainetto da un giudice crudele che avrebbe voluto infliggerne il triplo, perché tanto il suo destino di delinquente cronico era, a suo parere, ormai certo. Chiuso in una cella con venti altri, Morton dovette subito imparare a difendersi per sopravvivere nella bolgia di Rikers.
Furono anni di inferno fino a quando un educatore scoprì le sue capacità intellettuali e gli propose di studiare: “tu dovresti essere al college, non in galera”, gli disse. Così Morton passò dal carcere agli studi in legge e dentro non c'è più tornato, smentendo quel giudice che l'aveva marchiato a vita. La sua campagna sta coinvolgendo centinaia di cittadini ed è persino appoggiata dal comune di New York. Nel 2015 avrebbe dovuto incontrare l'allora presidente Obama ma gli venne negato l'ingresso alla Casa Bianca perché, a distanza di vent'anni, quella condanna ricevuta da ragazzino è ancora inscritta nel suo certificato penale.10
Liza Peterson, artista eclettica e impegnata, l'ho incontrata invece al teatro afroamericano di Harlem, dove il suo lucido monologo sul carcere ha fatto il tutto esaurito per tre mesi. Il suo impegno è cominciato per caso, con un corso che le avevano chiesto di tenere per i detenuti di un penitenziario. L'educatore che l'ha vista in azione il primo giorno le ha raccomandato di approfondire: “hai bisogno di conoscere il contesto, studia cos'è il complesso industriale carcerario”, le disse. Quell'incontro ha cambiato la sua vita: da quella sera non ha più interrotto il suo impegno per i detenuti e per quelle donne, che tante volte ha incontrato negli autobus, che vanno avanti a indietro fra la grande città e le prigioni sparse nelle fredde campagne del nord.
Grazie a questi incontri ho compreso che quello dell'incarcerazione di massa è un altro episodio capitalista, una storia losca di grandi investimenti, di corruzione e immensi profitti, consumata sulla pelle della gente. Un pozzo senza fondo di buoni affari: appalti per gli studi di fattibilità, la progettazione, la costruzione, l'arredo, le tecnologie di sorveglianza da installare. Appalti per la gestione, le polizie private ed il loro equipaggiamento. Appalti per la fornitura di servizi, per l'industria alimentare e quella farmaceutica. Appalti per le compagnie telefoniche e per le ditte di trasporti, sulle rotte che collegano carceri isolate con le grandi città. Appalti per i mezzi blindati che trasportano i detenuti.
Una volta riempite, le carceri diventano fonte di manodopera schiavizzata per le industrie che utilizzano i detenuti per le loro catene di produzione: un business che, probabilmente, fuori dalle mura dei penitenziari, entra in competizione col mercato del lavoro, contribuendo a tenere bassi i salari e alta la disoccupazione in determinati settori.

Una lotta irrinunciabile

Per garantire il funzionamento di questo lucrativo sistema è necessaria la permanenza costante nei penitenziari di questa forza lavoro priva di diritti. Anche per questo le lobby, in combutta con la politica, hanno spinto negli anni per l'approvazione di leggi sempre più severe. Alcune costringono i giudici a comminare pene sproporzionate e a non tener conto di circostanze attenuanti; altre obbligano a una condanna senza sconti di pena, benefici o libertà vigilata; altre ancora stabiliscono pene minime obbligatorie durissime per i recidivi, anche quando hanno commesso reati minori o semplici infrazioni.
Nell'ombra operano multinazionali dai nomi asettici, sconosciute al grande pubblico, come le americane CCA e WCC e la britannica G4S, colosso mondiale del settore. Sigle dietro cui si celano conglomerati d'affari potentissimi, in continua espansione e ramificazione. La G4S, che ha esteso i suoi interessi alla fornitura di quegli armamentari antisommossa che hanno trasformato i vecchi poliziotti di quartiere americani in moderni e spaventosi robocop, è oggi il più grande datore di lavoro privato in Europa e Africa. A confronto il movimento abolizionista è davvero piccola cosa e appare senza speranza di fronte a tanta potenza. Eppure chi ne fa parte non si dà per vinto e invita a non scoraggiarsi, perché è tanto insignificante il suo peso politico quanto necessario il suo programma.
Gli storici più seri insegnano che le grandi riforme, negli Stati Uniti, non sono mai state regali della politica ma frutto di lotte che hanno costretto i politici a cambiar rotta. Non Lincoln ha abolito la schiavitù, ma le masse di neri che hanno combattuto nella guerra civile, facendo pendere l'ago della bilancia per la vittoria del nord. Lyndon Johnson non avrebbe mai firmato l'abolizione del segregazionismo se l'America e il mondo intero non fossero stati scossi da quella grande rivolta nonviolenta cominciata nel dicembre del 1955 in un autobus segregato a Montgomery, Alabama, quando Rosa Parks rifiutò di obbedire all'ordine di cedere il suo posto ad un bianco.
Chi chiede l'abolizione del carcere vuole tornare a riempire le strade di gente determinata a cambiare il corso del sistema giudiziario, perché si chiudano le prigioni e si tornino ad aprire buone scuole. È una lotta irrinunciabile, perché in quelle celle sono rinchiusi milioni di schiavi del XXI secolo.

Santo Barezini

  1. Le leggi sintetizzate nella formula: “Stand your grounds”, in forza in quasi tutti gli stati USA, stabiliscono il diritto a non ritirarsi di fronte a una minaccia e autorizzano l'uso della forza, anche letale. Una forma molto ampia di legittima difesa, che viene estesa anche al “sentirsi minacciati”, quindi non necessariamente come risposta a una minaccia reale e senza riferimento a una difesa proporzionale all'entità della minaccia subita.
  2. “Tredicesimo emendamento ”, A-420, pag. 73-76.
  3. “Seduto sopra una polveriera”, A-418, pag. 45 (un delirante prodotto dell'immaginazione). Di questa e altre teorie che forniscono la base ideologica dell'espansionismo americano si tornerà a parlare in modo più dettagliato.
  4. Il XIII emendamento che, nel 1864, abolì lo schiavismo e i lavori forzati, stabilendo però un'eccezione per i detenuti.
  5. “One Big Happy Prison”, Penguin Books 2001.
  6. Nel giugno 2013 Matt Stroud, su Forbes, denunciò lo scandalo del governo della Pennsylvania che, adducendo ristrettezze di bilancio, chiudeva 23 scuole pubbliche licenziandone tutto il personale, ma destinava 400 milioni di dollari alla costruzione di un nuovo penitenziario, che non andava neanche a risolvere i problemi di sovraffollamento delle strutture esistenti, essendo stato concepito in sostituzione di esse. Casi simili si registrano ovunque.
  7. Un esempio sono certi poliziotti che, a New York, si appostano dove sanno di incontrare giovani che hanno già avuto a che fare con la giustizia e li fermano per piccole infrazioni, come l'aver gettato a terra il biglietto della metro. Avendo già la fedina penale “sporca” questi ragazzi sono soggetti all'arresto obbligatorio che, attraverso il sistema degli incentivi, garantisce ai poliziotti un extra in busta paga.
  8. Nel 2016 l'Amministrazione Obama ha firmato un contratto da un miliardo di dollari con la CCA, multinazionale del settore, per la detenzione di richiedenti asilo provenienti dall'America Centrale.
  9. “L'isola invisibile”, A-421, pp. 30-33. Si veda anche il sito closerikers.org.
  10. Arresti e condanne, anche per infrazioni insignificanti restano menzionate nel certificato penale di quasi tutti gli Stati USA, vita natural durante.