rivista anarchica
anno 47 n. 416
maggio 2017




Dibattito TSO e psichiatria/ Uno “stato di eccezione” duro da sradicare?

Riflettere sul TSO significa chiamare in causa l'intera Legge 180 e ripercorrere il significato della riforma psichiatrica del 1978 in tutta la sua portata, dal punto di vista sanitario e soprattutto giuridico, perché sulle modalità di compiere l'accertamento sanitario si gioca, in senso tecnico e “umanistico”, una rivoluzione di prospettiva finalizzata ad introdurre un nuovo modo di pensare non solo all'interno della cultura medica – e già questo rappresenta di per sé un elemento straordinario di rottura col passato – ma nella società nel suo complesso.
Non si deve infatti considerare l'“opera” di Franco Basaglia alla stregua di un semplice cambio di paradigma scientifico; la psichiatria ha conosciuto una lunga stagione di avvicinamento verso l'utilizzo di tecniche e prassi “terapeutiche” più attente alle esigenze dei malati mentali anche prima del varo della legge. L'apertura degli istituti, in talune circostanze, era già una modalità operativa conosciuta dagli psichiatri in piena cultura positivistica, l'epoca aurea del modello manicomiale.
L'aspetto dirompente e autenticamente “trasgressivo” della legge si apprende dal suo primo postulato che recita testualmente: “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”.
L'intera 180 assume come proprio presupposto non già la regolamentazione dell'azione medica, la quale diviene, ovviamente, parte fondante del dettato legislativo, ma solo come necessaria conseguenza, bensì la regolamentazione dei diritti del “malato di mente”, considerato come persona, come cittadino di uno “stato di diritto”.
Porre a guardia del testo normativo il richiamo forte alla natura volontaria di ogni accertamento e trattamento sanitario significa riconoscere la libertà come valore fondante della cura medica, anche nei casi estremi in cui si debba provvedere senza l'attesa di eccessive mediazioni. Questo è il motivo per cui in ogni momento dell'intervento in situazioni di acuzie (le uniche per le quali è lecito prevedere un atto di costrizione sanitaria) il dovere dello psichiatra consiste nel coinvolgere la persona al fine di condividere la cura prospettata nell'ottica di ottenere la sua partecipazione volontaria.
Essere liberi significa essere riconosciuti nella propria volontà; cioè accettare l'intervento e introdurlo nella propria storia personale, come un momento di crisi, senza che s'introduca una soluzione di continuità con la vita precedente.

La proposta di Basaglia
La legge 180 rappresenta un tentativo di conferire legalità alla condizione del malato mentale e perciò occorre interpretarla focalizzando l'obiettivo sulla persona e non su un dispositivo disappropriante, così come si è trasformato nella concreta e levigata esperienza il TSO, come si è visto nelle tante – troppe storie – che ne suggellano la realizzazione, come quella di Franco Mastrogiovanni, documentata sul numero 413 di “A”. Il TSO può rappresentare di fatto uno “stato di eccezione”, all'interno di una realtà politica dove i poteri sulla persona vengono esercitati in modo arbitrario, con la complicità di sindaci maggiormente preoccupati della loro immagine pubblica piuttosto che del benessere dei loro cittadini, ma non lo è de jure, almeno nei suoi presupposti culturali e filosofici.
La 180 non ammette letture diagonali: il TSO possiede un carattere di eccezionalità e la ricerca unilaterale e senza curvature della volontà del soggetto è lo strumento per non disappropriarlo di una coscienza personale e della libertà.
Lo strumento obbligativo è pensato in larga misura come un “servizio” a favore del soggetto e non come strumento d'azione contro la sua dignità. Deve anzi conservare e proteggere la dignità umana, altrimenti rischia di trasformarsi in uno strumento di tortura. E di tortura possiamo parlare senza remore linguistiche, senza enfasi, né passione umanitaria. L'articolo 1 della Convenzione contro la tortura del 1984 afferma infatti che questa fattispecie di condotta può essere rilevata in ogni situazione in cui si procura “dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche” (e il TSO li provoca entrambi) per motivi basati su “qualsiasi forma di discriminazione”. In questo caso la discriminazione ha origine nella malattia mentale, considerata fonte di “alienazione”, di follia, di “anormalità”, che presuntivamente preclude al soggetto di esprimere liberamente il suo volere.
Chi non ha potere su se stesso non ha diritto alla legge. Ma si tratta del principio opposto a quello sancito dalla 180. Proprio su questa consapevolezza si orienta la proposta di Basaglia, prescrivendo in ogni momento la ricerca della volontà del soggetto, l'intervento condiviso, il rispetto della persona e la sua dignità. Perché allora si realizzano i TSO come momenti in cui il vestito normativo s'interrompe e ad uno “stato di diritto” si sostituisce uno “stato d'eccezione”?
Certamente la risposta non può essere ricercata nella legge, nelle sue “oscurità”, tanto proclamate dai detrattori della libertà umana, dai sedicenti difensori di una psichiatria “amica e intelligente”, ben cosciente dei “bisogni” dei malati mentali e delle “misere condizioni” in cui versano quando si prospetta l'extrema ratio del TSO.
I rischi maggiori sono collegati alle modalità tecniche attraverso le quali si attua l'intervento; le stesse che – paradossalmente – fungerebbero da fattori di “protezione” per il soggetto in quanto fattori limitativi dell'azione di forza prevista dalla norma. Essa infatti prevede che sia l'autorità sanitaria locale, su richiesta di due medici (dei quali uno psichiatra del servizio pubblico) a ordinare l'intervento, e cioè il sindaco, il quale demanda alle forze dell'ordine il compito di effettuare in concreto l'operazione.
Da questo momento, fino al ricovero presso il Servizio di diagnosi e cura, previsto all'interno di un ospedale generale, il malato di mente, è – di fatto – privo di ogni tutela legale, poiché la sua condizione è stata valutata di tale gravità da impedirgli di discernere l'utilità delle cure terapeutiche proposte dai sanitari. Una volta internato nel reparto, un simile stato permane finché non si trasforma in un trattamento sanitario volontario o le condizioni di acuzie lo obblighino a subire gli effetti della cura fino a remissione.
In tutto questo arco di tempo il soggetto vive all'interno di uno “stato di eccezione”; spesso accade che lo staff sanitario non si preoccupi affatto di ricercare la sua adesione al progetto di cura e le sue condotte, i suoi atteggiamenti, perfino le richieste di aiuto vengono considerate come effetti della condizione mentale alterata e finiscono col confermare la misura di sicurezza attuata. Si tratta infatti di una vera e propria misura di sicurezza, camuffata da intervento sanitario.

Modificare la legge in senso protettivo
Le reazioni individuali che accompagnano la prima fase del TSO, con l'impiego della polizia e la presenza dei medici attestanti l'infermità mentale, ricordano da vicino le pratiche di arresto, gravate dall'ipocrisia di chi agisce “per il bene” di un soggetto giudicato in quel momento incapace. Ogni atto di volontà, dalla fuga alla risposta aggressiva, sono posti entro la cornice fenomenica della malattia e perciò negati a priori come risposte allo stato di eccezione a cui il soggetto è sottoposto. L'idea dominante corrisponde a quella di un infermo mentale, il quale reagisce malamente alla privazione della libertà. La malattia è responsabile delle sue azioni, non la violenza insita nella situazione in cui egli si sta trovando.
La legge 180 ha cercato di limitare gli effetti provocati da un simile intervento, ma evidentemente non è stata in grado di evitarlo.
Il problema centrale consiste nella realizzazione di uno spazio durante il quale viene sospesa la copertura normativa per il “soggetto-malato-di-mente”: egli non possiede i requisiti per esprimere la propria libertà e la propria volontà, pertanto è obbligato a conferirle ad altro. Chi? La legge prevede che sia il giudice tutelare ad assumere i poteri delegati della persona costretta. Entro 48 ore dal ricovero coattivo, il giudice tutelare ha il compito di prendere in carico il caso e affiancarsi al malato per sopperire alla vacuità di legge di cui è sofferente.
Questo non basta; nel frattempo le regole dello stato d'eccezione possono provocare ingenti danni e assecondare pratiche violente nei confronti del malato stesso, camuffate da condotte di cura “necessarie”, come ad esempio la contenzione a letto. Inoltre la distanza fra il tribunale, dove opera il giudice, e il servizio ospedaliero ove risiede il malato è del tutto incolmabile. Nessun giudice tutelare si reca al letto del paziente per ascoltare le sue richieste, per osservare che i suoi diritti siano effettivamente garantiti.
Occorre quindi intervenire per modificare la legge, in senso protettivo per il soggetto; protettivo nel concreto, viste le esigenze di tempo, che la condizione di urgenza prevede, e che affrontino il problema della tutela in maniera radicale.
La nostra proposta consiste nel restituire alla persona un diritto reale e non formale, pur conservando le garanzie insite nell'affidare all'autorità giudiziaria il compito finale di sorveglianza sull'operato sanitario.
In termini più espliciti: è utile che il giudice tutelare mantenga l'ufficio di giurisdizione, ma la sua lontananza dal contesto sanitario deve essere supplita da un presidio giuridico-sanitario in grado d'intervenire nell'immediato e di accompagnare il malato in ogni fase del trattamento, assicurando che la cura prevista ricerchi costantemente la sua adesione volontaria e quindi ripristini lo stato di diritto come prerogativa terapeutica.

Fin da subito
Per questo motivo sarebbe opportuno che nella realizzazione del TSO venisse coinvolto, fin da subito, un soggetto a cui conferire un potere delegato, a difesa del malato e dei suoi diritti: un avvocato, nominato d'ufficio (da attingere ad adeguato albo pubblico) e pagato dallo Stato. Ad esso spetta il compito di informare il giudice tutelare su tutte le questioni relative al caso, stimolando la produzione di adeguate azioni legali in grado d'integrare in ogni momento le facoltà represse dal TSO.
Lo stesso avvocato potrebbe essere investito del ruolo di curatore speciale o di amministratore di sostegno e quindi esprimere le volontà del suo assistito, sotto i vincoli giuridici e deontologici vigenti.
Infine, a maggiore tutela dal malato, all'avvocato dovrebbe essere delegata la nomina (obbligatoria) di un medico di fiducia; uno specialista, sempre a carico dello Stato, il cui compito consisterebbe nell'affiancamento alla persona, con funzioni di giudizio sulla conferma o meno della misura sanitaria da adottare nel momento in cui viene richiesto il TSO, proseguendo le sue prestazioni durante le fasi successive di ricovero.
In questo modo rimarrebbero sempre due sanitari a proporre l'intervento, ma nella condizione di un giusto contradditorio, dove la posizione del malato venga salvaguardata dalla presenza di un medico che garantisca per lui (il suo medico curante, lo psichiatra che lo ha in cura, ad esempio).
Solo in caso di controversia si dovrebbe ricorrere ad un terzo sanitario (psichiatra pubblico) a cui affidare il parere conclusivo. Anche in questo caso, tuttavia, la presenza vigile e attiva del medico del paziente, avrebbe la funzione di evitare azioni arbitrarie e contrarie al suo effettivo benessere, obbligando i sanitari del servizio di diagnosi e cura a presentare documentate valutazioni sull'evoluzione della cura e sul coinvolgimento del malato stesso.
In caso contrario il suo parere verrà relazionato all'avvocato e da questo al giudice tutelare, che, nella sua autorità, potrebbe assumere misure di controllo e di intervento atto a cessare il trattamento in corso nelle modalità svolte dal presidio sanitario.

Lino Rossi
Canossa (Re)

Ronchi dei Legionari (Go), 16 settembre 1975 - Cento utenti dei Servizi di salute mentale
insieme a Franco Basaglia partono dall'aeroporto di Trieste per una trasvolata
sopra la città, Venezia, il litorale adriatico e dell'Istria.
“Molti a bordo vorrebbero riconoscere l'Istria e il loro paese. Il giorno precedente la gita
aerea, i piloti e gli steward del DC-9 che si sono offerti per questo raduno sono stati
per un'intera mattinata a San Giovanni accompagnati da Maria Grazia Giannichedda,
giovanissima sociologa sassarese. [...] In una riunione improvvisata hanno conosciuto
i viaggiatori. Davanti alla chiesa hanno spiegato e illustrato tutti i particolari del volo.
L'idea del volo era nata qualche mese prima durante uno dei tanti viaggi sulla tratta
Trieste-Roma di Franco Basaglia. [...] A Basaglia l'assistente di volo Gennaro Imperatore
aveva detto “Ah! Quante' me piacesse fare qualche cosa con voi”. Basaglia lo provoca.
Gennaro accetta la sfida. Deve convincere i vertici Alitalia, il sindacato, le associazioni dei
piloti, i gestori dell'aeroporto di Ronchi. [...] Al termine del volo, i trasvolatori erano stati
ospiti dell'amministrazione comunale di Ronchi dei Legionari e avevano partecipato
a una festa popolare organizzata dall'Associazione dei partigiani. Un'allegria
incontenibile fino a notte tarda. Alla festa insieme a Basaglia c'era sua moglie Franca
Ongaro e, ospite per l'occasione, David Cooper. Prima del ballo e delle grigliate, come
vuole il rituale di queste sagre, dibattito. Questa volta sulla questione degli ospedali
psichiatrici.” (da “Non ho l'arma che uccide il leone” di Peppe Dell'Acqua)


Dibattito TSO e psichiatria/ L'esperienza I.E.S.A. a Collegno (To)

Nel contesto della città di Geel, in Belgio, ormai da molti anni, si sperimenta l'inserimento di malati psichici all'interno di famiglie tradizionali.
Queste famiglie, chiamate «foster families», prendono in carico le necessità dell'«ospite» (di natura pratica, ma anche affettiva) in cambio di un supporto economico, sotto la supervisione attenta di operatori formati a riguardo.
Questo approccio alla malattia psichica ha due vantaggi. Da un lato offre al paziente l'opportunità di un reale inserimento sul territorio, che gli dia la possibilità di una graduale riadesione alla vita della comunità. Dall'altro consente alla famiglia di avvalersi di una entrata economica, utile a fare fronte alle molte spese legate a questa ospitalità.
In Italia, questo servizio viene erogato da quasi vent'anni e si chiama I.E.S.A. (Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici), e copre circa il 25% del territorio.
Essendo stato riconosciuto come buona pratica clinica, nel 2017 è previsto inoltre l'allargamento del modello I.E.S.A. a tutte le Asl della Regione Piemonte.
In ambito di Salute Mentale, il servizio rappresenta un'avanguardia in termini di politica clinica, costituendosi come prosecuzione del percorso iniziato da Franco Basaglia a fine Anni 70 con la chiusura delle realtà manicomiali.
Nel corso di una recente intervista fatta con il dottor Gianfranco Aluffi, dirigente psicologo presso l'Asl To3, curatore e pioniere di I.E.S.A. in Italia (avendolo attivato a Collegno nel 1997), ho avuto modo di approfondire alcuni aspetti relativi al servizio, che mi hanno permesso di inquadrarne gli aspetti fondamentali.

Il passato
A Geel questa metodologia di intervento (inserire pazienti psichiatrici all'interno di famiglie «normali») esiste da 700 anni, ben prima della nascita della psichiatria stessa (avvenuta circa 200 anni fa). A partire da questo modello, nel tempo sono state sperimentate nel resto d'Europa, soluzioni simili.
In Italia andiamo a fine 1800: alcune realtà di «patronato famigliare» nel contesto di città come Reggio Emilia, Imola, Firenze, già sperimentavano inserimenti di «persone disturbate» all'interno di contesti non istituzionalizzanti, sul modello di Geel. Con il passare degli anni, l'avvento delle dittature e delle collaterali persecuzioni sociali «igieniche», il progetto e le sue sperimentazioni vennero accantonate quasi ovunque lasciando ampio margine di intervento alle strutture chiuse.
Dopo il fascismo e con la chiusura, molti anni dopo, dei manicomi in seguito alla legge 180 detta «legge Basaglia», progetti di questo genere videro nuova vita e trovarono terreno fertile in particolare in area Piemontese, con il lavoro pionieristico dello psicologo Paolo Henry con gli ex-degenti dell'ospedale psichiatrico di Grugliasco.
Nel 1997, il servizio I.E.S.A fu creato dal dottor Aluffi, dapprima sul territorio di Collegno; in seguito, tale modello, è stato esteso ad altre realtà italiane (fra cui Firenze, Treviso, Bologna, Modena, Lucca, Pisa, Barletta, Oristano).

Il presente
Il servizio I.E.S.A. è attivo da circa 20 anni sul territorio coperto dall'ASLTO3, che conta circa 600mila abitanti. Sulla totalità di questi abitanti al momento sono attivi circa 50 progetti (cioè ci sono 50 utenti psichiatrici accolti). Come spiega il dottor Aluffi «esistono differenti tipologie di inserimento del paziente: full-time (cioè per tutta la giornata, compresa la notte) a breve, medio e lungo termine, e part-time (cioè per una parte della giornata, secondo gli accordi presi in fase di costruzione del piano di inserimento, ritagliato intorno al paziente e alla famiglia).

I criteri di inserimento
Per poter usufruire del servizio I.E.S.A., il paziente che diventerà «ospite» deve soddisfare alcuni requisiti di base. Sono escluse persone con tendenza recente al furto, con precedenti di aggressione o dal temperamento violento che potrebbero minare l'incolumità del nucleo famigliare ospitante.
Non esiste invece un criterio di esclusione basato sulla diagnosi. Il dottor Aluffi a proposito di questo punto sottolinea che alla famiglia non viene comunicata la diagnosi del paziente che ospiterà, al fine di ridurre al massimo il crearsi di aspettative e pregiudizi a riguardo della persona che verrà inserita. Questo aspetto assume particolare rilevanza nell'ottica dell'abbattimento dello stigma sociale nei confronti del malato psichiatrico e nel tentativo di fornire la possibilità di un reinserimento reale, non simulato, al paziente all'interno del contesto territoriale.

Come avviene l'abbinamento ospite-famiglia
In fase di abbinamento tra ospite e famiglia, naturalmente, gli operatori I.E.S.A. valutano con cura il tipo di utente, i suoi trascorsi, la sua idoneità al servizio. Esiste inoltre un reperibilità telefonica costante, per le famiglie ospitanti, a cui rispondono gli operatori I.E.S.A in caso di emergenze.
Per quanto riguarda le famiglie, queste vengono scelte e ritenute idonee in seguito ad un'accurata e approfondita indagine da parte degli operatori I.E.S.A.. Tale percorso di selezione prevede diverse fasi strutturate in forma di colloqui e visite domiciliari. Al termine è previsto un adeguato percorso formativo. A seguito della valutazione del possibile abbinamento, l'«ospite» viene presentato alla famiglia ospitante e infine inserito. Viene così a crearsi una struttura tripolare ai cui vertici ci sono l'ospite stesso, l'equipe I.E.S.A e la famiglia.

I vantaggi per il paziente
Dal punto di vista clinico, il servizio I.E.S.A. rappresenta il superamento completo delle politiche cliniche centrate sull'internamento e l'istituzionalizzazione dei malati psichici. Seguendo una linea immaginaria che parte dal periodo di Basaglia, un servizio di questo genere permette di chiudere il cerchio proponendo un reinserimento reale del paziente, non costretto a vivere dissociato dalla realtà, ma calato al suo interno.
I vantaggi in termini di qualità della vita sono enormi, con meno farmaci prescritti, un contesto caratterizzato da una normalità affettivamente calda (realtà di cui un paziente psichiatrico, preso negli ingranaggi delle continue ricollocazioni dentro strutture o alloggi protetti, si dimentica presto) e possibilità di ricollocamento reali.
Chiunque abbia mai lavorato in ambito psichiatrico avrà osservato come il contesto iper-protetto di una struttura chiusa, un alloggio supportato, un reparto frequentato per troppo tempo, conducono a una regressione del paziente a stati di dipendenza completa nei confronti del personale sanitario.
La lotta di Basaglia partiva da queste evidenti constatazioni: ciò che diveniva sempre più chiaro era la necessità di trovare altre soluzioni al chiudere il malato psichico in strutture protette; per fare questo occorreva da un lato ridurre i pregiudizi del popolo sano nei confronti del malato, dall'altro tentare di restituire al paziente quel ruolo sociale conferito solo dall'esserci, vivere all'interno di quella stessa società (oggi si direbbe fare «empowerment» al paziente).
Il servizio I.E.S.A. tenta, inserendo il paziente all'interno di una famiglia tradizionale, di restituirgli un ruolo sociale che lo veda riabilitato alla vita collettiva. Per chi volesse avere uno scorcio di come possano effettivamente funzionare questi abbinamenti, consiglio la visione di questo documentario girato dal regista Lillo Venezia.

I vantaggi per la famiglia
Alla famiglia viene elargita e consegnata dallo stesso «paziente», una cifra che può arrivare fino a 1030 euro mensili, utili a coprire le spese della convivenza. Il fatto che l'eventuale «assegno terapeutico» integrativo venga affidato al paziente, assume rilevanza laddove l'obiettivo sia quello di restituire potere «contrattuale» alla persona.
Su questo punto il servizio I.E.S.A. differisce dal modello di Geel, dove il bonus economico viene affidato alle famiglie ospitanti, rendendole di fatto «dipendenti» dalla struttura psichiatrica madre preposta all'erogazione del servizio. In questo senso, il modello italiano si pone in modo maggiormente radicale, garantendo al paziente una reale autonomia economica.
Aluffi su questo punto fa notare che il modello di Geel, impedendo al paziente l'accesso ai soldi, rischia di perpetrare il metodo «istituzionalizzante» e «assistenzialistico» usato da sempre per la gestione delle malattie psichiche, senza procedere a un vero rinnovamento in termini di politica clinica. Da qui la decisione di far transitare nelle mani dell'ospite l'eventuale assegno terapeutico erogato dall'Asl per garantire il rimborso spese alla famiglia ospitante.
L'abbinamento corretto di una famiglia e un paziente, inoltre, dà spesso luogo a situazioni di vantaggio reciproco anche in termini affettivi: non è raro osservare come la famiglia si leghi in modo profondo all'ospite, e viceversa, realizzando uno degli obiettivi prioritari che il servizio si pone in termini psicosociali.

Raffaele Avico
avico.raf@gmail.com



Dibattito gestazione per altre/ Femminicidio: contrordine compagne!

Stamattina la mia radio è autonomamente scivolata da Radiopopolare a Radiomaria, giusto accanto. Il predicatore di turno ce l'aveva con il femminicidio: “...questa violenza prevaricatrice e inaccettabile, espressione di odio e debolezza...”
Urge cambiare il bersaglio di Femminismi, Nonunadimeno e di tutte le future mobilitazioni femministe antiviolenza: non vorremmo mica farci confondere con Radiomaria?!?
Con la stessa logica, l'appello delle 50 lesbiche contro la GPA (Gestazione per altre/maternità surrogata) è drasticamente criticato dal collettivo Femminismi (“Riproduzione, tecnologia, capitalismo”, in “A” 414, marzo 2017) perché è stato “applaudito dalla Binetti”. Non lo sapevo. Embé? È la Binetti a dettare la linea politica femminista? “Femminismi” sostiene che dobbiamo preoccuparci della comunicazione. Davvero non vi accorgete che la Binetti è una scusa da parte di Famiglie arcobaleno e degli altri fautori della commercializzazione della procreazione per diffamarci e quindi non dover rispondere ai nostri argomenti? I quali sono in primo luogo il fatto che la Gpa, che è un istituto giuridico e non un dono, fa diventare la gravidanza un lavoro con conseguente vendita del figlio-prodotto.
Per questo siamo contrarie all'introduzione in Italia di questo istituto giuridico, che dice che la donna che partorisce non è la madre legale - già vedo una folta schiera di immigrate svolgere questo ulteriore lavoro domestico, proprio come accade in Grecia dove la Gpa è una realtà. Diremo loro che la gravidanza non necessariamente deve diventare maternità? Certo che no, può essere una fantastica occasione di guadagno.
Dopo la sentenza che a febbraio a Trento ha conferito a due uomini il titolo di doppio genitore con un certificato di nascita in cui la madre non era nemmeno menzionata (nelle adozioni si scrive che vuole rimanere anonima, il che significa che ha avuto per lo meno una chance di riconoscere la figlia) abbiamo di nuovo preso l'iniziativa e sottoscritto e pubblicato un altro testo: “Cari compagni gay, vi invitiamo a non festeggiare la cancellazione della madre”. Questa lettera è stata variamente censurata, sbeffeggiata, ignorata dai gay, alcuni dei quali ci accusano di fomentare l'omofobia con le nostre parole (pochi altri rappresentano pensanti eccezioni e ci danno ragione).
Riflettiamo insieme: il fatto che le coppie gay facoltose comperino i bambini all'estero/paghino delle donne perché facciano figli da consegnare loro con tutti gli obblighi di legge (non vedo la differenza: non vanno mica in luoghi dove le donne possono veramente scegliere ma dove sono obbligate dalle “ordinanze pre-nascita”) è un fattore di aumento o di diminuzione dell'omofobia?
Il fatto che non lo si dica all'interno del movimento Glbt, tutto preso dalla retorica del dono e contro-dono (a parte noi poche che veniamo prontamente diffamate come fondamentaliste religiose, fasciste o anche peggio, espellendoci dal movimento) secondo voi aumenta o diminuisce l'omofobia?
En passant, esistere come lesbica è ciò che provoca in primo luogo gli atti di “omofobia” – che non è una malattia ma un giudizio sociale sull'omosessualità, tradotto in violenza. È sempre colpa nostra.
Quando il papa si preoccuperà anche dell'omofobia, forse smetterete finalmente di fare accuse a vanvera per evitare di confrontarci con gli argomenti di noi “binettiane”.
Cordialmente

Daniela Danna
Milano
una delle 50 firmatarie della lettera delle lesbiche dopo la sentenza di Trento




Il nostro no alla GPA

In Italia il dibattito rispetto alla maternità surrogata sembra polarizzato tra sostenitori, individuati soprattutto nella comunità Lgbt e oppositori organizzati nelle reti del cattolicesimo reazionario. La verità è che nel mondo si confrontano visioni assai più complesse e trasversali. Una estesa rete internazionale di associazioni e studiose appartenenti al movimento delle donne e del lesbismo opera da tempo opponendosi al sempre più florido mercato della gravidanza, che anche attraverso il sostegno di alcune legislazioni estere, si ammanta di gratuità e solidarietà utilizzando il termine ambiguo di gestazione per altri:

  • La Gpa (gravidanza per altri/maternità surrogata) non è una tecnica di riproduzione assistita: è una gravidanza come le altre
  • Non esiste Gpa altruistica, le donne sono sempre pagate
  • La portatrice che dà alla luce un bambino è sua madre (di nascita)
  • Ma è ridotta ad essere solo una lavoratrice, con controlli sul suo corpo e sulla sua vita
  • Chi va all'estero sceglie paesi dove la Gpa obbliga la madre a separarsi dalla figlia
  • Quello che i committenti acquistano è un neonato
  • Nel caso di gameti propri, acquistano comunque il neonato perché la filiazione è stabilita per legge escludendo la madre, che ha il ruolo di fattrice retribuita
  • I neonati devono essere separati dalla madre solo in circostanze eccezionali, non per l'obbligo di un contratto firmato più di nove mesi prima
  • Siamo contro l'introduzione della Gpa in Italia perché le donne non sono fattrici di bambini “altrui”.

a cura di D.D.



Dibattito Mamme No Inceneritore/La libertà, non il protagonismo

La risposta di Valentina Riemma sullo scorso numero di “A” (Protagonismo nelle lotte o circonvoluzioni linguistiche?) per me è stata una grande delusione. Non essendo in grado di affrontare le questioni che pongo, mostra i muscoli: sarebbero in duecento. E allora io posso rispondere che a pensarla come me sono molti, molti di più.
Definire battibecco la critica che rivolgo al loro nome mostra quanta poca capacità relazionale abbiano: si mettono sul piedistallo e da lì giudicano ma senza dare una spiegazione del loro punto di vista, senza argomentarlo e quindi evitando il confronto. A quello che non si vuole capire e con cui non ci si vuole confrontare si dà semplicemente una connotazione negativa. Non hanno capito la critica che faccio alla mitizzazione del ruolo materno e alla sua riproposizione nelle relazioni con gli altri, che invece (per essere più chiara) non vogliono essere trattati come bambini piccoli da accudire e curare. L'accusa nei miei confronti di giudizi verticali calati dall'alto, sembra un altro modo per non rispondere alla questione che pongo. Loro sono tante e quindi hanno ragione. A loro interessa il protagonismo a me la libertà.
Io per parlare e avere coscienza del potere delle donne non ritengo di dover tornare al neolitico: mi basta pensare alla partecipazione delle donne da sempre in tutti i movimenti e le rivoluzioni in tutto il mondo, basti pensare a tutti i movimenti del 68, degli anni 70, il 77, il femminismo e tutte le lotte di liberazione nel mondo, e un po' prima alle partigiane, e alle comunarde, e alle eretiche comunitarie. Altroché neolitico! Io preferisco trovare il modo di trasformare l'oggi.
Diciamo che l'atteggiamento adottato nella risposta apparsa sul numero 415 di “A”, cozza con l'immagine di assemblee in cui tutti si sentono a loro agio, dove non si danno giudizi verticali, ma a proposito di giudizi verticali non affermano che io ho “l'amore per la polemica finalizzata all'aver ragione (di fallocratica memoria)”? La fallocratica memoria è davvero una caduta di stile. E il voler essere protagoniste è troppo spesso citato come uno scopo. I leader sono scacciati per prenderne il posto.
Quello che noto di più io è una totale chiusura intellettuale alle ragioni dell'altro.
Ma io non sono interessata a schieramenti, né al conteggio di numeri, ma a usare il cervello per trasformare il mondo attraverso teoria e pratica. Qui non vedo poste ragioni ma vedo mostrare i muscoli, muscoli che però sono piuttosto avvizziti.
Il mio scopo era non lasciar passare questa scelta del nome come se fosse normale, su una rivista come “A”, che mi sta a cuore insieme ai suoi lettori. Per chi vuole superare i ruoli e le identità di genere (come il movimento “non una di meno” che sta mobilitando davvero tante donne e uomini), ogni termine va discusso e vanno smontati tutti i dispositivi distruttivi della libertà.

Marvi Maggio
Firenze


dibattito anarchismo


Botta...
Fuori dai soliti “sacri schemi”


1. Il male che fa del bene
Chi si approcciasse alla tematica della mafia, o della malavita in generale, focalizzandosi unicamente sugli aspetti archetipici considerati “negativi” di essa, si precluderebbe la possibilità non solo di combatterla, ma anche soltanto di comprenderne le dinamiche. Il modello mafioso-malavitoso è a suo modo tuttora “vincente” perché parte da un'analisi del contesto contemporaneamente semplice e piuttosto acuta: lo Stato, il potere in genere, lascia spazi di dominio vacanti, lascia fasce di popolazione al di fuori dei propri giochi, si disinteressa di taluni ambiti, ed è in tali interstizi (che a volte sono vere e proprie voragini) che il malaffare si insinua, presentandosi non tanto nei panni della minaccia, quanto in quelli della alternativa concreta. Nascere in contesti degradati, anche nelle cosiddette “democrazie” occidentali, spesso implica un contatto pressoché quotidiano con varie forme malavitose, contatto che spinge gli individui ad una scelta di campo obbligata: associarsi al contro-potere malavitoso per arricchirsi, o per prestigio, o anche solo per cercare di arrabbattarsi o, al contrario, provare a comportarsi a rigor di legge, pur determinando così una sorta di cortocircuito logico per il quale l'individuo si trova a fare da baluardo vivente, ad immolarsi in nome di regole create da un potere, da uno Stato che non si è fatto scrupolo di metterlo ai margini, di affamarlo, di abbandonarlo al suo destino. In determinati contesti (e questo dovrebbe essere indice alquanto preoccupante dello stato di salute delle democrazie) la malavita riesce in quello che lo Stato non può e non vuole fare: dare lavoro, speranza, persino una certa qual sorta di “dignità” all'individuo. Soltanto mettendo in luce questo fatto si può comprendere come mai le politiche intraprese per combattere la malavita, anche e soprattutto le più repressive, non siano state efficaci: si possono incarcerare, torturare e uccidere milioni di mafiosi, ma se non si contrasta l'humus nel quale la mafia si rigenera, se non si offre una reale alternativa di emancipazione alle fasce di popolazione che subiscono l'influsso mafioso, se non si prova concretamente a dare speranza a chi speranza non ne ha, la guerra è persa in partenza.

2. La Società contro lo Stato?
Da una prospettiva differente potrei sovrapporre quanto scritto a proposito della malavita all'analisi dello Stato, in particolare quello democratico. Considerare lo Stato come insieme di inesorabili meccanismi di dominio da contrastare con veemenza – lettura (sacrosanta, intendiamoci) che caratterizza la visione antagonista, in particolare anarchica – senza tenere presenti quegli aspetti per i quali lo Stato rappresenta al contrario un elemento positivo nella vita degli individui ad esso assoggettati è errore strategico e interpretativo gravissimo. Non c'è nemmeno bisogno di (ri)leggere l'agile volumetto Microfisica del potere, basta solo guardarsi allo specchio per rendersene conto: lo Stato non esercita soltanto coercitivamente il suo potere, quanto piuttosto si pone quale garante delle regole, delle infrastrutture, della nostra stessa sopravvivenza. Lo Stato ci garantisce l'istruzione, la sanità, vie di comunicazione, spazi condivisi, talvolta ci dà lavoro o ci supporta in situazioni di particolare gravità. Contrastare ideologicamente l'entità Stato implica dunque anche il tenere presente quei risvolti dello Stato che ci fanno comodo, che ci vanno più che bene, ai quali rinunciare sarebbe difficile persino per il più coerente e convinto militante, figuriamoci per coloro che con l'anarchia hanno poco a che fare.
E se non fosse argomento spinoso e dispersivo, il medesimo parallelismo in questa sede potremmo fare anche per i potentati sovranazionali, per gli organismi comunitari, per gli istituti bancari e finanziari: esercitano spietatamente il loro dominio sugli Stati e sugli individui ma al contempo li sorreggono, permettono alle economie di non stagnare e ai disperati di trovare rifugio; fa più comodo insomma averceli amici che nemici, come dimostrano vicende come quelle di Tsipras in Grecia, giusto per fare un esempio.
Ma rimaniamo, nel nostro piccolo, sullo Stato.
Partendo dai presupposti sopraesposti non potremmo non rilevare come l'antagonismo anarchico si trovi di fronte oggidì ad una scelta alquanto scomoda: auspicare nostalgicamente una rivoluzione di matrice libertaria (che peraltro dovrebbe avere una dimensione sovrastatale, addirittura globale, per avere senso), identificando quindi non solo chi tale rivoluzione è chiamato a combattere e attraverso quali mezzi, ma delineando anche un'alternativa concreta (e compatibile con la condizione dell'individuo nel XXI secolo, ben diversa da quella dell'uomo del XIX secolo, sulla cui pelle erano state drappeggiate le utopie del pensiero anarchico classico) al paradigma statale che emendi gli elementi peggiori di tale paradigma senza però farne rimpiangere i migliori; oppure mettere tra parentesi la palingenesi rivoluzionaria in favore di un opportunismo consapevole che, invece di affrontare di petto l'entità Stato (in una guerra che, oggi, sembra completamente senza speranza), provi ad innestare battaglie anarchiche (per ispirazione e per modalità d'azione) che ne destabilizzino la struttura di dominio senza intaccarne gli aspetti positivi legati al benessere sociale. Tertium non datur.

3. Anarchici oggi: tra incudine e martello
Da profano, chi scrive è oggettivamente incuriosito di conoscere le ipotesi operative di quanti – e non sono neanche pochi, almeno a leggere svariati volantini anarchici circolanti in occasione di manifestazioni e iniziative di vario genere – sostengono a tutt'oggi la necessità di una rivoluzione popolare in senso “tradizionale”. Il rischio tangibile è che il richiamo ad una rivoluzione da venire possa tradursi in un immobilismo deleterio ed estetizzante, in un reiterarsi di antiche pratiche oggi svuotate di qualsiasi tipo di valenza e peso specifico, che possa rappresentare un paravento per la mancanza di azione concreta, o di progettualità, o di semplice capacità di lettura della realtà circostante.
L'alternativa “opportunistica” è d'altra parte, a parere dello scrivente, sicuramente più onerosa. Essa spinge a riconsiderare alcuni punti consolidati del pensiero anarchico, costringe a mettere in discussione principi avvertiti come ineludibili1, implica la necessità di “sporcarsi le mani” all'interno di un agone politico del quale non si vorrebbe far parte e di mettersi in gioco attraverso una serie di pratiche quotidiane volte a destrutturare, nel proprio microcontesto, i meccanismi di dominio insiti non astrattamente nello Stato, quanto nella vita concreta di tutti i giorni. È anche la posizione che si regge di più sul dialogo con le realtà più o meno distanti dall'orbita anarchica, che rifugge maggiormente da ogni tipo di chiusura intellettuale aprioristica e da ogni tendenza all'astrattismo sterile di chi concepisce la propria anarchia come pura “erudizione libertaria”.

Igor Cardella
Palermo

1 Già Camillo Berneri, a ben vedere, ammoniva: «Il richiamo ai principi a me non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni di uomini e non di dei, delle opinioni che hanno avuto fortuna per due o tre anni, per decenni, per secoli anche, ma che, poi, sono finite per sembrare barocche a tutti.»


...e risposta
Ma è un'illusione destinata a infrangersi


A Claudio Venza, nostro collaboratore, militante anarchico nel gruppo “Germinal” di Trieste (aderente alla Federazione Anarchica Italiana), abbiamo chiesto di replicare alla lettera di Igor Cardella.

Ci sono delle osservazioni interessanti nel testo di Igor Cardella come la necessità di identificare le vere cause della potenza della mafia e la sua evoluzione recente è un passaggio obbligato per capire un radicamento sociale da non sottovalutare né semplicemente da criminalizzare. È prevedibile, continua Igor, che finché esistano aree di degrado sociale, la “reale alternativa” offerta dai potentati mafiosi appaia come fonte di lavoro e speranza e pure, secondo lui, di una sorta di “dignità” individuale.
Il ragionamento che deriva da queste affermazioni risulta, a mio parere, assai poco convincente se si usa un metro anarchico per misurare i problemi e le possibili soluzioni. In effetti non esiste, e Antonio Cardella (di cui Igor è figlio) lo ha ripetuto molto spesso, una lotta mortale tra Stato e Mafia, ma piuttosto una serie di sfide basate però su un'intesa di fondo che passa attraverso “infiltrazioni” negli apparati statali, anche quelli repressivi, che permettono alla malavita non legalizzata di sopravvivere e di guadagnare terreno nel controllo della vita comunitaria. Di tanto in tanto emerge qualche esempio di tale sostanziale connivenza con casi eclatanti di funzionari, addirittura dei servizi segreti, che si rivelano agenti mafiosi. E se vengono denunciati, e magari condannati, appare credibile che ciò succeda per un conflitto di interesse tra diversi gruppi di esponenti politici ed economici che fanno un riferimento a questa o quella “famiglia” mafiosa.
Il punto centrale del discorso di Igor su cui riflettere e criticare è piuttosto quello della valorizzazione di aspetti positivi dello Stato, che sarebbero utili, anzi indispensabili, e “che ci fanno comodo” per l'esistenza quotidiana. Non si può certo negare che lo “Stato dei servizi” (altro concetto caro ad Antonio) serva a coprire bisogni collettivi veri e propri: dall'istruzione alla sanità ad altri settori. Ma occorre considerare che lo Stato ricava la propria forza dall'espropriazione delle potenzialità della società stessa che, a parole, cura e protegge. Cosa sarebbero le spese militari, gli incentivi ai padroni, le grandi opere se non ci fosse, a monte, un sistema fiscale a cui è difficile sottrarsi soprattutto per i lavoratori dipendenti? E cosa potrebbe fare la polizia se non arruolasse, anche grazie alla disoccupazione dilagante, masse di giovani in cerca di sopravvivenza? Lasciamo stare i “potentati sovranazionali” dove il privilegio e l'arbitrio, l'ipocrisia e il cinismo costituiscono la regola imperante.
Inoltre ci sono già terreni, come quello dell'educazione-educazione-cultura, nei quali si dimostra praticamente come sia possibile, oltre che auspicabile, sviluppare una positiva attività extraistituzionale. Ammettiamo che non sia possibile oggi la rivoluzione classica, quella teorizzata nell'Ottocento da Bakunin e da Malatesta che, con uno scontro violento metta in crisi definitiva la gerarchia oppressiva e il sistema di controllo e condizionamento. Da questa considerazione però non appare logico, e soprattutto non si può dedurre meccanicamente, un “opportunismo consapevole” che metta in forse “la struttura di dominio senza intaccarne gli aspetti positivi legati al benessere sociale”. Si alimenta l'ipotesi, per me un'illusione destinata a infrangersi presto, di poter progredire verso la libertà e la solidarietà, l'autonomia e il federalismo attraverso un poco chiaro “sporcarsi le mani all'interno di un agone politico”. Un ambiente, quello politico, che, tra l'altro, gode di pessima reputazione in buona parte dei nostri interlocutori popolari.
Altro tipo di discorso è quello di chi tenta, consapevole dei propri limiti, di realizzare spazi liberati dal Potere attraverso concrete esperienze di autogestione e di parità tra soggetti protagonisti. Le comuni egualitarie, le scuole antiautoritarie, i sindacati libertari, i centri di solidarietà fraterna e molte altre strutture sorte con uno spirito di indipendenza dalla logica statale e capitalista possono costituire un punto di partenza per un movimento che, invece dell'“astrattismo sterile”, voglia propagare il gusto della libertà e della fraternità. E l'anarchismo specifico potrebbe dare un senso più completo e convincente a queste, e ad altre, esperienze di una lotta quotidiana che crea e mantiene la vera speranza di liberazione. Una liberazione che cerchi di applicare una metodologia anarchica coerente, certo non facile, ma in grado di evitare le trappole delle scorciatoie istituzionali: l'uso di mezzi coerenti con i fini.
Nel complesso l'intervento di Igor Cardella apporta un punto di vista per un confronto più ampio e articolato che, se da una parte non si chiuda nella pura affermazione dei principi immutabili e sacri, dall'altra parte non cada in una debole pratica “politica” che prescinde del tutto dagli stessi valori di riferimento. Valori che vanno dalle aspirazioni libertarie alla coscienza umana, dalla sensibilità antigerarchica all'azione modernamente sovversiva. A mio parere su questo terreno di sperimentazione e di impegno costante si misura l'esistenza e la validità dell'appello anarchico agli sfruttati e oppressi. Anche a quelli di oggi.

Claudio Venza
Trieste


Replica...
Essere anarchici oggi senza chiusure stagne


Ringrazio Claudio Venza per l'intervento, che mi ha reso consapevole di alcune criticità e ambiguità presenti nel mio scritto.
In primo luogo, è evidentemente apparsa dalle mie parole poco chiara l'intenzione di utilizzare la mafia/malavita più come metafora che come elemento a sé stante: così come non abbiamo speranza di cercare di capire e affrontare il fenomeno mafioso focalizzandoci solo sui suoi aspetti negativi, non abbiamo speranza di comprendere e combattere i dispositivi di potere statali se non tenessimo conto degli ambiti nei quali lo Stato si presenta in vesti protettive o addirittura “salvifiche”. Che poi Stato e Mafia non siano entità in perenne lotta tra di loro, ma che al contrario sembrino spesso due facce della stessa medaglia, è un dato di fatto che Venza fa bene a rimarcare (e che nel mio piccolo avevo sottolineato anche io, proprio tra le pagine di questa Rivista, nell'articolo apparso sul numero 381).
L'altro punto sul quale Venza opera una critica acuta è quello relativo alla seconda parte dello scritto, quando accusa la frase “sporcarsi le mani all'interno di un agone politico” di essere ambigua e considera illusoria la speranza “di poter progredire verso la libertà e la solidarietà, l'autonomia e il federalismo” attraverso tale strategia. L'infelice riferimento che ho utilizzato però non implica certo la trasposizione delle istanze anarchiche in sede istituzionale (anche perché, come ogni anarchico sa, il termine politico non è affatto sinonimo di istituzionale o partitico), quanto la necessità di un dialogo con individui che, pur non riconoscendosi negli ideali libertari o anti-statali, possano perseguire battaglie comuni con il movimento anarchico.
Per essere più concreto, se si manifesta contro la TAV o il MUOS di Niscemi è abbastanza miope, a mio parere, non stabilire contatti con altri manifestanti “rei” di non essere anarchici, sarebbe una strategia isolazionista destinata a relegare il movimento anarchico in un ghetto autoreferenziale: è opportuno perciò, nei fatti, superare talune differenze per raggiungere uno scopo comune. Che poi le differenze permangano è sacrosanto, ma solo l'assenza di dialogo rende le differenze insormontabili e il messaggio anarchico di difficile comprensione e diffusione.
Infine il punto più problematico, ovvero quello che attiene all'essere anarchici oggi: cioè cosa debba comportare l'essere anarchico, in cosa debba trasparire l'anarchia individuale, cosa differenzi il modus vivendi anarchico da quello di chi anarchico non è. Venza su tal punto si espone additando “chi tenta, consapevole dei propri limiti, di realizzare spazi liberati dal Potere attraverso concrete esperienze di autogestione e di parità tra soggetti protagonisti”.
È sicuramente un'indicazione suggestiva e meritoria, però anch'essa tutt'altro che priva di ambiguità. “Realizzare spazi liberati dal Potere” è sicuramente una base d'azione, ma rischia di parcellizzare la nostra vita individuale in compartimenti stagni per cui sia possibile essere anarchici in taluni contesti e non esserlo in altri: cioè, al lavoro, in famiglia, con gli amici si è liberi di essere esattamente come tutti gli altri (con il corollario di compromessi, anche istituzionali, che ciò implica), nell'ambito della esperienza militante (in qualsiasi forma la volessimo intendere) invece si è un anarchico, in una sorta di concezione “part-time” dell'anarchia. Proprio in questo caso il richiamo a principi/valori inviolabili e inamovibili diventa mero artificio speculativo: se sono veramente inviolabili e inamovibili, dovrebbero accompagnarci in ogni ambito della nostra esistenza, non soltanto negli spazi che possiamo ritagliarci tra quelli “liberati dal Potere”.

Igor Cardella


...e controreplica
Senza perdere la nostra identità “utopistica”


Nella discussione con Igor Cardella ho trovato la (purtroppo non frequente!) volontà di intendersi e di confrontarsi in modo riflessivo. Ho visto concretizzarsi la capacità di ascolto e di risposta positivamente costruttiva.
Così ho compreso meglio, nella sua replica, cosa intendeva Igor quando scriveva “sporcarsi le mani nell'agone politico”, un concetto che mi sembrava un'eco di un “possibilismo istituzionale” che non può giovare, dal mio punto di vista, allo sviluppo coerente del discorso anarchico. Se con questa indicazione si intende, come fa poi Igor, la partecipazione alle lotte di base, dal NO TAV al NO MUOS, mi pare che nel movimento non ci sia quasi nessuno che predichi e metta in pratica la “strategia isolazionista”. Piuttosto credo che sia diffusa la pratica di collaborare con quei movimenti spontanei che diano la speranza di sviluppare una possibile coscienza antiautoritaria.
Altro discorso è quello, che lui non fa ma che è spesso presente, di “dissolversi nel movimento di lotta” perdendo le proprie specificità per trovare subito più simpatie e consenso. A rimanere se stessi, cioè critici di ogni forma di Potere e al tempo stesso attivi militanti, dovremmo pensarci con l'organizzazione specifica. Qui convogliano, si spera, le esperienze concrete delle mobilitazioni in atto e si riflette insieme sul nostro contributo il più possibile coerente, oltre che incisivo. Lo diceva anche un certo Errico, in tempi lontani. Egli ha costituito per molti una fonte di “insegnamento” (si passi il termine antipatico) mettendo in evidenza una differenziazione tra gli ambiti operativi dell'anarchismo, quello “nella storia”, e quello “contro la storia” per usare un'espressione di un teorico nostro contemporaneo (Nico Berti anche se ora è giustamente molto discusso).
Essere anarchici a “part-time”, come sostiene ironicamente Igor, può sembrare incoerente, ma non significa “parcellizzare la nostra vita individuale in compartimento stagni”. Anzi.
Un certo gradualismo pratico significa non assumere solo il ruolo dell'ipercritico osservatore laddove si intravedono pericoli di autoritarismo. Come si vede anche in queste settimane con le nuove mobilitazioni “femministe”, si tratta di collaborare con chi protesta contro questa o quella ingiustizia e disuguaglianza tenendo ben presente che la soluzione reale, quella dell'abolizione della piramide economica e culturale, si costruisce passo dopo passo. Passi da compiere, concordo con Igor, ma anche tenendo sempre presente la nostra identità “utopistica”.

Claudio Venza
Valtellina




E noi continueremo a scaldarci a legna...

Ce lo dicano chiaramente che saremo obbligati a comperare il loro gasolio e il loro metano per scaldare le nostre abitazioni, senza scomodare per questo il PM 10 e le polveri sottili causate dalla combustione dei nostri fuochi di legna domestici.
Insistano pure nell'affermare che dopo aver bruciato per oltre due secoli carbone e petrolio non esiste alcuna responsabilità nel riscaldamento globale del Pianeta, sostenendo che i cambiamenti climatici e l'effetto serra sono invenzioni e menzogne di ecologisti paranoici; niente a che vedere, secondo loro, con la libera circolazione di autotreni diesel e navi portacontainer (il cui traffico marittimo in questi ultimi 20 anni è cresciuto del 400 per cento) che ci riforniscono di milioni di tonnellate di merci a basso costo, provenienti-da Cina e altri Paesi che crescono seguendo il nostro assurdo e disastroso modello di sviluppo.
Possono spiegarci all'infinito che questo libero mercato fondato sulla speculazione finanziaria è positivo per il nostro quotidiano consumismo usa e getta e l'esistenza di uragani come Katrina o Sandy, prolungate siccità in ogni stagione o improvvise e violente alluvioni, estati tiepide e piogge invernali siano fenomeni “naturali” da sempre esistiti...
Possono farci credere che l'agricoltura industriale,legata alla dipendenza del petrolio con fertilizzanti chimici e pesticidi, non sia nociva alla salute e che la crescita economica illimitata sia la salvezza per superare l'attuale crisi finanziaria, facendoci dimenticare che i 500 milioni di persone più ricche del pianeta sono responsabili della metà delle emissioni globali e che 85 (ottantacinque) persone controllano le stesse ricchezze di metà della popolazione mondiale.
Ci confondono poi le idee facendoci credere che il gas metano è l'alternativa verde a carbone e petrolio, in aperta concorrenza e togliendo spazio e investimenti alle energie rinnovabili quali solare ed eolico; ci nascondono però una pericolosa realtà: il gas estratto con la diffusa tecnica estrattiva della fratturazione idraulica (fracking) causa il 30 per cento in più di fuoriuscite di metano rispetto alle tecnologie convenzionali.
Il problema, di cui non si parla, è che il metano disperso nell'atmosfera trattiene il calore del sole con un'efficienza del 34 per cento in più rispetto all'anidride carbonica con emissione di gas serra superiore al petrolio e impatto sul riscaldamento globale uguale al carbone “il metano intrappola il calore in modo ancora più efficace nei primi dieci-quindici anni successivi al suo rilascio: il potenziale di riscaldamento globale è 86 volte superiore a quello dell'anidride carbonica” (Naomi Klein Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano, 2015).
Ogni luogo dove si estrae carbone, uranio, petrolio o gas viene sconvolto nei suoi equilibri naturali, trasformandosi in area devastata, depressa ed ecologicamente irrecuperabile.
Non parliamo poi di estrazioni in acque profonde o sotto la banchisa dell'Artico, del disastro della BP nel Golfo del Messico, delle petroliere affondate, degli oleodotti difettosi, dei pozzi di petrolio bruciati in Medio Oriente nel corso di decennali guerre di mercato e di conflitti politico-religiosi. Per alimentare le nostre stufe e camini possiamo invece svolgere una seria manutenzione dei territori in cui viviamo, concimare orti e campi con le ceneri della legna, migliorare l'ambiente naturale che ci circonda praticando un'agricoltura biologica che non avvelena i terreni, mantenendoli fertili e puliti.
Scenderemo quindi col piede di guerra contro le vostre speculazioni energetiche e finanziarie, la vostra presenza tossica, i vostri veleni quotidiani e contro ogni tentativo autoritario di limitare la nostra autonomia e le nostre libertà.

Ribelli nella montagna
via C. Battisti, 39
23100 Sondrio (So)



Fuocoammare.1/ Ma manca una spiegazione e i rifugiati sono ostaggi senza riscatto

Ho letto con interesse il bell'articolo di Renzo Sabatini (in “A” 414, marzo 2017) sulla questione dei migranti, tanto dibattuta in questi ultimi mesi su tutti i mezzi di comunicazione nazionali e non solo.
Vorrei solo porre l'accento sul tanto declamato film di Gianfranco Rosi Fuocoammare perché a mio avviso questo film si colloca perfettamente nella retorica governativa sulla questione dei migranti. Non a caso fu trasmesso in prima serata sul maggior canale nazionale.
Nella sua narrazione asciutta e commovente Rosi dimentica di dare una spiegazione obiettiva del perché sta succedendo tutto questo, omette di parlare delle politiche degli stati che impediscono alle persone di lasciare la propria terra se non fuggendo e rischiando tutto quello che hanno, la vita in primis, in un viaggio pieno di insidie e pericoli dove la probabilità di morire o di essere torturati, violentati e imprigionati è molto alta.
Tutto questo per approdare finalmente in un'altra gabbia che noi chiamiamo accoglienza. Non si può fare un documentario e pretenderlo tale raccontando solo un aspetto della storia, umanamente commovente certo, ma insufficiente a capire questo fenomeno e questa vergogna frutto di politiche internazionali che fanno per esempio di Lampedusa l'unico approdo possibile nel Mediterraneo mentre per noi europei se volessimo andare a fare una vacanza nel Corno d'Africa basterebbe comprare un biglietto aereo. E loro, quelli che arrivano sui barconi attraversando mille pericoli perché non possono prendere un aereo e andare dove desiderano?
Perché il documentario non lo racconta e si limita a mostrare un'accoglienza militarizzata? Dove sembra che l' Italia sia un paese in guerra. E chi sta arrivando che ci fa così paura da accoglierli, si fa per dire, con la Marina Militare? Perché Rosi non ne parla e non mette in risalto il razzismo di queste politiche di accoglienza che rendono ostaggi persone diverse tra loro che per diversi motivi decidono di abbandonare la propria terra nella speranza di un futuro migliore?
No, Rosi non dimentica di raccontare, non vuole. La sua è una presa di posizione precisa in linea con tutto quello che ci raccontano su queste migrazioni, su queste persone che diventano nelle mani dei cosiddetti stati civili occidentali dei nuovi schiavi che alimentano il business del terzo settore e producono ricchezza, cioè lavorano senza essere pagati perché stare forzatamente fermi e rinchiusi nei centri di accoglienza, quasi fosse una loro scelta, si sa, non sta bene e allora perché non usare la loro forza lavoro se puoi non pagarli?
Un documentario per essere tale deve cercare di raccontare la storia nella sua totalità, deve cercare di dare delle risposte e porre delle domande scomode altrimenti si riduce a pura retorica, a un vuoto esercizio di stile, come in questo caso,gettando solo uno sguardo superficiale su queste persone che diventano ostaggi senza riscatto.

Matteo Cariaggi
Casarza Ligure (Ge)

La locandina del film


Fuocoammare.2/ Ma fa vedere quel che di solito non appare

Ringrazio Matteo Cariaggi per l'attenzione e l'interesse con cui ha letto il mio articolo apparso su “A” 414 (marzo), nel quale ho citato il documentario di Rosi.
Ricordo che, uscendo triste e con gli occhi umidi dal cinema dove si proiettava Fuocoammare, il commento di una signora mi indispose. Il film non le era piaciuto, perché non metteva in risalto lo sforzo che il governo italiano sta facendo per salvare i migranti: il suo zelo patriottico era più forte della commozione per il dramma appena visto. Il film, dunque, è capace di suscitare perplessità di segno opposto, qualcuno si aspetta la denuncia del sistema, altri vogliono che sia sposata la propaganda governativa.
Fuocoammare non soddisfa nessuna di queste aspettative, è un film che parla soprattutto di Lampedusa, ma penso abbia il merito di farci vedere quel che di solito non appare: i morti nelle stive, i migranti spossati, l'inutile corollario di controlli polizieschi, la militarizzazione del soccorso e del territorio, il contrasto fra la vita dell'isola e il dramma a mare, la semplice umanità del medico condotto. Il racconto dei motivi della partenza, del dolore del viaggio, viene affidato al canto degli stessi migranti e questa a me pare una buona scelta.
Fuocoammare, con le sue poche parole, più che a un documentario mi fa pensare alle mostre di Salgado, con le sue foto bellissime, drammatiche, totalmente prive di didascalie: viene lasciato a chi guarda quelle immagini di costruirsi la storia, documentarsi, trarne un giudizio.

Renzo Sabatini
Roma



Oriente e Occidente/ A chi servono queste categorie?

Negli ultimi anni c'è stata una vera inflazione di quella che potremmo definire la categoria di Occidente (con la maiuscola), che può essere variamente declinata come “civiltà occidentale”, “mondo occidentale”, “cultura occidentale”, ecc. Con queste formule in genere si definiscono principî, valori e regole, ma pure un way of life che abbraccia molte dimensioni dell'esistenza, nella sfera pubblica come in quella privata.
La categoria di Occidente già nel nome presenta molti caratteri di ambiguità, perché rinvia ad una dimensione geografica ed etero-referenziale: l'Occidente è ciò che è altro dall'Oriente. Per un altro verso questa categoria è moderna, non ha più di due secoli e quando è stata coniata, nell'epoca del nazionalismo, degli imperi europei e del colonialismo, l'Oriente non costituiva né una minaccia, né un modello alternativo di vita, ma era solo terra di conquista. L'Occidente si identificava con “la civiltà dell'uomo bianco”, con quella ritenuta la civiltà in quanto tale e rinviava esplicitamente alla “missione civilizzatrice” dell'Europa nei confronti del resto del mondo, in particolare del continente africano ed asiatico, dalla Cina al Sud Africa, terre di conquista di tutte le nazioni europee.

Una geopolitica ideologica
L'auto-rappresentazione dell'Europa e delle sue antiche colonie - e nuove potenze mondiali, in primis gli USA - come “Occidente” aveva però una sua logica storica ed insieme geografica, cioè geopolitica, che risaliva ai miti fondativi della cultura europea. L'idea, o meglio la teorizzazione di uno “scontro di civiltà” che opponeva Oriente ed Europa, nasce con le guerre persiane che si combatterono dal 490 al 479 a.C. Mentre i Persiani rappresentavano un intero continente, l'Asia, che dominavano dall'Indo all'attuale Turchia, i Greci si identificavano con l'Europa, termine con il quale si definiva l'Ellade ed i territori ad asse confinanti, non certo paesi come la Germania o la Gran Bretagna.
Dopo le guerre persiane si teorizzò, già allora per fini politici, uno scontro tra due civiltà,quella asiatica[orientale] e quella greca[occidentale], caratterizzate da valori e stili di vita diversi, incompatibili. Tra la Grecia delle libere città, come Atene, spesso rette da regimi democratici fondati sull'autogoverno (”governare ed essere governati a turno”, era la formula della democrazia secondo Aristotele) e l'Asia del “Re dei Re” persiano, dove “uno solo era libero” e tutti gli altri servi.
Lo scontro tra Grecia e Persia fu rappresentato a posteriori come la lotta fra libertà ed autocrazia, tra un mondo di eguali e un impero di sudditi. Non solo, ex post si ricostruì una storia di questo presunto “scontro di civiltà”, che fu fatto risalire alla guerra di Troia, il primo grande scontro tra Grecia ed Asia, fra Oriente ed Occidente, se si preferisce. Questa è la versione che troviamo in Erodoto, lo storico delle guerre persiane, e in autori come Tucidide, Isocrate, Gorgia, ecc. Inoltre Erodoto, nelle sue Storie, fa risalire ancora più indietro tale conflitto, attraverso il ricorso al mito che per i Greci ha una valenza assai simile alla storia, con riferimenti al rapimento di Io e di Medea, ad esempio.
Contrapposizione rappresentata attraverso una ricostruzione successiva ed ideologica, se pensiamo che Troia e i suoi abitanti sono descritti da Omero come una città e genti elleniche per lingua, religione, costumi ed usanze, senza considerare che nelle stesse guerre persiane sembrano prevalere, in Grecia, le rivalità tra le diverse poleis, piuttosto che il sentimento nazionale e la solidarietà contro lo straniero asiatico.

Il cristianesimo e l'Oriente
Questa ambiguità permane in tutta la storia europea ed “occidentale”, nel senso che l'identità europea nel corso dei secoli si presenta sotto vesti contraddittorie dove, per giunta, l'elemento “occidentale” è fortemente compromesso con quello “orientale”. Pensiamo, ad esempio, al ventennale dibattito sulle radici cristiane dell'Europa, disputa fuorviante per molteplici ragioni; innanzitutto perché il cristianesimo nato in Palestina, da un profeta che si dichiara fedele allo spirito della legge ebraica, ed interno alla tradizione ebraica nasce come una religione orientale, che si sviluppa nei primi due secoli soprattutto nel contesto medio-orientale. In secondo luogo perché con cristianesimo spesso si intende solo il cattolicesimo e tutt'al più la componente luterana, ignorando, ad esempio, vaste correnti e presenze non considerate canoniche, come quelle delle sette eretiche che si sono sviluppate per secoli su tre continenti e, nel caso dello gnosticismo, fino all'alba dei tempi moderni.
Anche quando si è identificato l'“Occidente” con il cristianesimo, per contrapporlo all'“Oriente” islamico, si è operata una forzatura che non corrisponde ai dati storici. Per motivi diversi tanto il cristianesimo che l'islam non si ritengono estranei l'uno all'altro: per molti secoli i polemisti cristiani ritennero l'islam una versione eretica del cristianesimo, che riprendeva dottrine ebree e cristiane per stravolgerle, riconoscendo, ad esempio, in Gesù la sola natura umana, come i nestoriani, o negando la sua morte sulla croce come i docetisti. Da parte loro i musulmani si ponevano nei confronti dei cristiani nella stessa maniera in cui questi ultimi si rapportavano al giudaismo: una continuazione che era allo stesso tempo una conferma e un inveramento, ma pure il superamento di un credo che non aveva più una ragion d'essere, in quanto il cristianesimo avrebbe rappresentato una fase della rivelazione superata dall'islam e dal suo profeta, Muhammad, che nel Corano viene definito il “sigillo della profezia”. I rapporti tra l'“Occidente” cristiano e l'“Oriente”islamico sono molto più articolati di quanto vogliano far apparire le varie teorie degli “scontri di civiltà”.
Ciò appare anche sul piano storico: vedere nel “dispotismo orientale” dell'impero ottomano una forma di autocrazia politica, specchio dell'intolleranza religiosa tipica dell'islam, è stata una visione diffusa per secoli in Europa, nei contesti culturali più diversi, da Proudhon a De Maistre, ma semplicistica e fuorviante. L'impero ottomano non conobbe l'inquisizione, i processi e le condanne per eresia, e quando gli ebrei furono espulsi dalla Spagna della cattolicissima Isabella di Castiglia nel 1492 cercarono e trovarono rifugio presso la Sublime Porta ed altri regni musulmani del nord Africa.
Ancora una volta il binomio “Occidente “ e “libertà” è stato chiamato in causa nel corso del XX secolo, nello “scontro di civiltà” fra “il mondo libero” ed il comunismo, rappresentato dalla propaganda fascista e nazista come il credo di orde di nuovi mongoli e tartari che si apprestavano a travolgere la civiltà europea, dimenticando che il comunismo era nato nelle università tedesche e nelle fabbriche inglesi. Il modello liberal-democratico di matrice europea e statunitense ha finito per identificarsi con l'Occidente, almeno secondo l'opinione corrente, sempre nel segno della libertà: dell'individuo, del mercato, del credo religioso...
Ha scritto recentemente Franco Cardini: “È in atto, nella nuova estrema destra liberal-liberista statunitense che sta radicandosi anche in Europa, un serrato tentativo di presentare la Åeciviltà occidentale' come un dato obiettivo dotato di una sua identità, che sarebbe fondata sulla libertà individuale, sui diritti naturali dell'uomo, sulla democrazia rappresentativa”, visti come il sistema istituzionale e la visione del mondo di un Occidente che sarebbe il solo capace di esprimere nella storia “valori universali” (in AA.VV., Genealogie dell'Occidente, 2015, p. 59).

L'Occidente e la sua presunta civiltà
Questo visione dell'Occidente, che è allo stesso tempo un mito e un'invenzione, sembra essere penetrata negli ambienti più diversi, tanto che persino in ambito libertario si parla oggi di “Elogio dell'Occidente” (così si intitola il libro di Franco La Cecla pubblicato da Elèuthera), in nome delle molte libertà che farebbero parte del patrimonio genetico dell'Occidente. Conquiste riconosciute come non indolori, di cui si è dovuto pagare un conto salato grazie al razzismo, al colonialismo, allo sfruttamento di altri popoli e via dicendo. Ma pur sempre conquiste di cui andare fieri e che hanno portato con loro gli anticorpi per combattere mali come il colonialismo e l'imperialismo “made in the West”.
La conclusione sembra essere: smettiamola di piangerci addosso o di fare gli ipercritici autolesionisti, sul modello della “gauche caviar” che mangia beluga e sputa nel piatto, anche perché gli altri (gli orientali, i musulmani, i mongoli, i cinesi?) non sono certo meglio di noi. Forse sono solo più sfigati, mi sembra potersi dedurre dal ragionamento, perché non hanno la capacità e la forza di imporre il loro modello, anche se non gli mancherebbe certo la voglia di farlo (vedi Daesh e compagni).
Ci sarebbe molto da dire, a partire dalle premesse di quest'elogio, ma mi voglio limitare a due sole considerazioni.
La prima è che non capisco l'utilità di far ricorso alla categoria di Occidente se si vuol fare l'elogio del sistema liberal-liberista di matrice anglosassone. Quando si parla di Occidente come di un mondo, una civiltà e una visione della vita, si dovrebbe rinviare ad una realtà stratificata nella storia, come lo sono state tutte le grandi civiltà dell'uomo, da quella greca a quella cinese, da quella persiana a quella cristiana. Se con Occidente si intende la modernità caratterizzata dal modello liberal-liberista perché scomodiamo l'Oriente e l'Occidente? Dovremmo lasciar perdere anche il riferimento alla modernità: se dalla storia del Novecento togliessimo fenomeni “anti-occidentali” come il fascismo, il nazismo ed il comunismo non resterebbe molto, quasi niente.
L'Occidente e la sua presunta civiltà semplicemente non esistono, mi dispiace dare questo triste annuncio ai tanti “occidentalisti” in circolazione. La conferma viene proprio dagli entusiasti dell'Occidente, una variegata umanità nella quale troviamo gli autori e le correnti ideologiche più diverse: dai cattolici tradizionalisti agli illuministi, dai neo-pagani ai liberal-democratici, dai neo-fascisti ai razzisti e via dicendo.
Ognuno ha la sua idea di Occidente, ognuno lo caratterizza a suo modo e poiché si tratta di costruzioni ideologiche, di “interpretazioni” della vicenda storica, ogni teoria ha una sua ragion d'essere, una sua legittimità, seppure limitata e parziale. Come negare, ad esempio, che il cristianesimo ha condizionato per più di mille anni la storia e la cultura europee? Ma pure che il modello del pluralismo e della libertà religiosa che caratterizza tutta la modernità occidentale è altrettanto parte di questa identità?

La libertà come privilegio
La seconda ed ultima questione è quella della libertà, descritta come la caratteristica principale del modello di vita occidentale. Almeno due sono le condizioni necessarie perché la libertà possa dirsi qualcosa di più di una parola vuota: la libertà non può essere solo sinonimo di mancanza di vincoli e condizionamenti, ma deve tradursi anche in capacità ed opportunità. È difficile, ad esempio, che una persona ignorante ed analfabeta possa definirsi libera in senso pieno: libera da che cosa? dalla conoscenza, dal sapere, dalla scienza? Per camminare nella vita servono scarpe, strade, mezzi di locomozione, stazioni di servizio, solidarietà e tant'altro. Se tutto questo manca che ce ne facciamo della libertà?
Un'altra importante caratteristica della libertà dovrebbe essere quella della condivisione. La libertà non può essere lo stigma che designa l'appartenenza ad un club esclusivo, la condizione di un'élite, lo status di una minoranza. Anche nel carcere ci sono i liberi, si chiamano secondini, nei campi di lavoro si chiamano guardiani. Nell'Occidente euro-americano, perché di questo si tratta, la libertà non è stata solo un diritto e una conquista, ma pure un privilegio condiviso solo ed in modo diverso dai membri del club, dai cittadini, dai nativi, da quelli riconosciuti degni di essere coaptati nel club.
Quanto poco e male abbia fatto e faccia il cosiddetto Occidente per promuovere fuori dei suoi confini una libertà che sia la liberazione dalla miseria, dall'ignoranza, da un destino di disperazione e di mancanza di prospettive è cosa evidente che non merita commento. In conclusione, a chi serve la categoria di Occidente? Non certo a chi ha in mente un'idea della libertà propositiva e condivisa.

Enrico Ferri
Roma



Salento/ Una terra svenduta alle mafie

Salve,
sono Egidio Marullo, presidente dell'Associazione Culturale “Amo per Amo”, di Calimera (Le), dopo qualche tempo ho da poco ho rinnovato l'abbonamento a nome dell'associazione. Vi abbiamo conosciuto e abbiamo collaborato con voi nel 2014, quando abbiamo organizzato delle manifestazioni legate a Fabrizio De Andrè, proiettando il documentario “Faber” di Bruno Bigoni e Romano Giuffrida e gli altri documentari da voi editati, abbiamo ospitato lo stesso Bigoni e Mariano Brustio, il grande Piero Milesi e Dori Ghezzi.
Oggi vi scrivo dopo aver letto l'articolo sulla vicenda TAV sul penultimo numero della rivista.
Vi scrivo come cittadino di una terra, il Salento che da anni è oggetto di brutture e oscenità ambientali, offesa mortalmente dall'ilva di Taranto, dalla centrale a carbone di Cerano e da altre mille congiure.
Vi scrivo per segnalarvi l'ennesima offesa ambientale di stato inaccettabile, il gasdotto TAP (trans adriatica pipeline) che partendo dall'Azerbaijan dovrebbe portare il gas nel cuore dell'Europa. Questo serpentone approda in Italia a San Foca, marina di Melendugno, località costiera del basso adriatico situata tra Lecce ed Otranto, attraverso un tunnel sotterraneo (ma non troppo) che arriva su un tratto di costa meraviglioso, ricco di posidonia in mare e adiacente ad una riserva naturalistica in terra, in un parco naturale composto da rigogliosa macchia mediterranea e uliveti secolari.
Dopo più di 5 anni di battaglie civili e burocratiche si arriva oggi 28 marzo 2017 all'inizio della fine.
La polizia, in assetto antisommossa, sposta di peso i manifestanti pacifici per consentire l'inizio dei lavori che beffardamente cominciano dall'espianto di circa 1.800 alberi di ulivo, simbolo della nostra cultura, della nostra terra, della nostra civiltà. Il Salento è stato svenduto alle mafie ed ai poteri internazionali da una classe politica e dirigente scellerata e senza scrupoli. Destra e sinistra, svuotate da valori e significati, hanno affossato i diritti dell'ambiente, disumanizzando un territorio o nella migliore delle ipotesi abbandonandolo.
Io credo nell'autodeterminazione dei popoli, delle comunità, dei cittadini. Vi chiedo, in nome di questa storia e di questi valori di dare visibilità a questa vicenda, senza le azioni strumentalizzanti che da ogni parte minacciano di appropriarsi di battaglie civili trasversali.
Grazie di cuore

Egidio Marullo
Calimera (Le)



I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Daniele De Paoli (Novate Milanese – Mi) 10,00; Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo – Sa) 40,00; Ermes Vedovelli (Castello di Brenzone – Vr) per una copia Pdf, 2,00; Giacomo Gnemmi (Ancona) per una copia Pdf, 2,00; Daniele Leoni (Portomaggiore – Fe) 10,00; Rino Quartieri (Zorlesco – Lo) 50,00; Pietro Mambretti (Lecco) 40,00; Giovanni Galilei (Cinisello Balsamo – Mi) per versione Pdf di 13 numeri di “A”, 52,00; Lorenzo Belardinelli (Reggio Emilia) per una copia pdf, 5,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Matilde Bassani e Ulisse Finzi, 500,00; Andrea Perin (Milano) 40,00; Andrea Vittorio Novati (Milano) 7,00; Alessandro Brilli (Sesto Fiorentino – Fi) 10,00. Totale € 768,00.

Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo anche le quote eccedenti il normale costo dell'abbonamento. Per esempio, chi ci manda € 50,00 per un abbonamento normale in Italia (che costa € 40,00) vede registrata tra le sottoscrizioni la somma di € 10,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo di cento euro). Pina Pelazza (Milano); Silvano Montanari (San Giovanni in Persiceto - Bo); Gualtiero Mannelli (Pistoia); Paolo Vedovato (Bergamo); Enrico Calandri (Roma); Franca Bombieri (New York – Usa); Giancarlo Nocini (San Giovanni Valdarno – Ar); Battista Saiu (Biella). Totale € 800,00.