rivista anarchica
anno 44 n. 386
febbraio 2014




Attenti a non mitizzare i berberi

Cara redazione,
ho appena letto insieme al mio compagno Abdellah, che è di origine marocchina, berberofono e arabofono, il racconto di viaggio in Marocco (“Il segreto per diventare un uomo libero” di Gianluca Luraschi, pubblicato in “A” 384, novembre 2013). Ecco la sua opinione, da me tradotta (e condivisa).
È un bell'articolo però un po' fuori dalla storia. Infatti i berberi sono stati grandi conquistadores. Il Tarik che ha dato il nome a Gibilterra (Jebel Tarik, la montagna di Tarik) era berbero e non arabo e, come si sa, ha conquistato l'Andalusia.
In Spagna, in varie città (Toledo, ad esempio), si parlava soprattutto il berbero. L'arabo era usato per l'amministrazione (e la religione). I regnanti in Marocco erano berberi e non arabi. Almoravidi e Almohadi per esempio: sono stati loro ad aver governato il Maghreb, ma anche la Spagna, un pezzo dell'Italia...
Anche l'uso della parola “conquista” fa parte di una visione occidentale. Gli arabi venivano a convertire, a organizzare la vita politica e le istituzioni statali, ma non occupavano, anche perché, dal punto di vista demografico, sarebbero stati incapaci di occupare i territori musulmani vastissimi all'epoca (fino alla Cina). Poi legavano il potere a rappresentanti delle popolazioni locali (come appunto Tarik Ibn Zyad).
Sarebbe dunque uno sbaglio lasciare intendere che gli uomini liberi berberi sono contro lo stato o le organizzazioni statali, fin quando queste organizzazioni non toccano le libertà che ritengono fondamentali: parlare la loro lingua (che conservano oggi ancora), i loro modi di vivere, per esempio il nomadismo, l'artigianato, ecc. Sarebbe forse utile riflettere più a lungo su questa loro forma di libertà.

Isabelle Felici e Abdellah Diyari
Montpellier (Francia)

La resistenza No Tav, dalla piazza al tribunale

Raccontare l'opposizione alla costruzione del Tav in val Susa non è solo riportare fatti, se pur importanti, legati alle vicende che vedono l'opposizione a chi inizia a predisporre cantieri e macchinari su quelle terre, ma è comprendere le intelligenze e i corpi che agiscono, elaborano forme di resistenza e praticano lotte attaccando i sostenitori dell'opera. Tutto ciò dando voce a una eterogeneità di visioni del mondo, modalità di espressione e pratiche difficilmente rintracciabile nei movimenti sociali italiani.
Ormai non è più solo l'opposizione al Tav che si leva dalle voci della valle, ma le ragioni che stanno dietro ai molti no che si levano contro il Tav sono molteplici e toccano molti ambiti, dalle questioni ambientali a quelle legate alla gestione autoritaria del potere da parte di chi opera scelte sovradeterminando “facce” e strutture sociali dei territori in cui vengono calate.
Una volta scoperchiata la pentola non si torna più in dietro; sembra essere questa la consapevolezza di migliaia di donne e uomini della Val Susa che scelgono il loro territorio come luogo di vita e di resistenza tanto nelle strade delle cittadine che lo popolano quanto sui sentieri delle loro montagne.

Resistere in strada e nel bosco
Il 16 di novembre si è tenuta a Susa una grande manifestazione di protesta che ha visto la partecipazione di oltre trentacinquemila persone “contro la militarizzazione del territorio in difesa dell'ambiente e contro lo sperpero di denaro pubblico”. Con queste parole d'ordine è stata indetta la manifestazione.
La ratifica del manifesto di propaganda, dopo essere stato discusso fra i vari comitati locali, è avvenuta durante un'assemblea popolare il 25 ottobre a Bussoleno. In quell'occasione uno dei leader della protesta ha spiegato le ragioni della scelta premettendo che: “Come abbiamo sempre detto questa opera è il bancomat della politica e la banca delle mafie. Dobbiamo far sì che questo sogno diventi un incubo. Ogni centesimo messo in quell'opera è un centesimo sottratto a scuola, sanità, servizi, ricerca e alla cura del territorio. Chiediamo all'assemblea di farsi carico e di approvare questa manifestazione che per farla diventare grande non può essere organizzata solo dai comitati”.
Il titolo del manifesto “Contro la militarizzazione del territorio” indica che siamo di fronte, spiega ancora l'attivista, a uno “scempio civile e naturale... dico che resistere non è solo un diritto ma anche un dovere,..,”. Il primo punto del manifesto è contro il “Furto di denaro pubblico. La Torino-Lione non è per il futuro di figli e nipoti, al contrario se la fate cancellate il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti”. Il secondo punto è contro la repressione e i molteplici episodi, dai più gravi ai più banali come durante un “volantinaggio dove non si è bloccata la strada, non si è fermato nessuno non si è fatto nulla, tutti sono stati identificati; questo vuol dire che il diritto di esprimersi per i No Tav non esiste più” . Inoltre il terzo punto riguarda la richiesta di un lavoro, ma un lavoro “utile e dignitoso, non ci possiamo limitare a chiedere lavoro, perché anche quello del boia è un lavoro. Lavoro utile e dignitoso, ..,”. Infine spiega ancora: “Scendiamo in piazza anche per rivendicare la cura del territorio oltre che per la sua difesa: non si può spendere miliardi di miliardi in un'opera inutile”.
L'assemblea popolare ha ratificato sulla base del consenso la proposta dei comitati e tutte le persone hanno iniziato il lavoro di costruzione della manifestazione che si sarebbe svolta di lì a qualche settimana. Ma anche nei boschi si resiste, in tanti e in tanti modi diversi. Questo ci porta a evidenziare ancora una volta che tutti possono partecipare, ognuno con le sue modalità e con le sue visioni del mondo.
Bevendo un caffè in un bar, un attivista ci racconta che un gruppo di cattolici della valle si reca ogni giorno intorno al cantiere per pregare di fronte al pilone votivo, da loro costruito durante la Libera Repubblica della Maddalena. Il pilone dedicato alla Madonna è adesso sistemato appena fuori dalle recinzioni e gli attivisti cattolici si recano quotidianamente a pregare là; grazie a questo sono i più informati delle attività che si svolgono all'interno del cantiere che costeggiano per raggiungere il loro luogo di culto. Condividere poi ciò che vedono durante le loro preghiere, scrivere articoli per giornali quotidiani e organizzare proteste e assemblee con tutte le altre componenti sono le attività principali che hanno raccontato.
Ma nei boschi si annida anche Giacu, un folletto speciale che veglia sul bosco della Maddalena di Chiomonte, e che i folletti No Tav durante le notti vanno a cercare per ammirarne i rumori e scherzi di disturbo verso le decine di militari di esercito, polizia, carabinieri e guardia di finanza che presidiano il cantiere fortificato.
Qualche volta però i folletti no Tav sono intercettati dalla polizia che uscendo dal cantiere impedisce loro di assistere agli spettacoli di Giacu. Il 19 luglio 2013 i feriti sono stati molti e una ragazza ha subito violenze da parte della polizia.
I folletti non si arrendono e come nella tiepida serata del 6 dicembre 2013 si recano spesso in passeggiata notturna al cantiere e talvolta in gruppi di oltre duecento persone; anche in quella data Giacu ha donato loro qualche gioco pirotecnico ai margini del perimetro di recinzione del cantiere. Anche in quest'occasione tutti possono partecipare; c'è chi va più vicino a Giacu, chi resta più lontano a osservare e chi semplicemente accompagnando le passeggiate condivide speranze e pratiche di lotta.
Agire la resistenza non è cosa indolore. Oltre alle botte e ai lacrimogeni sono molteplici gli strumenti usati dalla magistratura Torinese contro gli attivisti no Tav.

Resistere nei tribunali
Molti sono colpiti dalla repressione. Oltre alla criminalizzazione di anarchici e antagonisti appartenenti ai No Tav, consuetudine nel panorama italiano, il numero dei procedimenti contro i No Tav si aggira attorno a 99 e ci sono oltre 500 persone fra denunciati, indagati e giudicati in almeno un grado di giudizio.
Anche amministratori locali e semplici cittadini che aderiscono alla lotta No Tav hanno spesso subito le iniziative della magistratura torinese. Chi sa se è proprio l'enorme eterogeneità di questo popolo in miniatura, che dice tutti questi no, che ha favorito un vero e proprio salto di qualità da parte della magistratura che, da quest'anno, ha iniziato a muovere l'accusa di reato di terrorismo e associazione sovversiva.
Come spiegavano alcuni avvocati durante il convegno del 7 dicembre 2013, tenutosi a Bussoleno, dal titolo “Diritto alla resistenza”, il salto di qualità non è dovuto solo all'evoluzione nella gravità delle accuse e dei reati contestati ai No Tav da vent'anni a questa parte, ma è ritracciabile anche in tanti aspetti procedurali dei processi contro il movimento.
Un esponente del legal team ricordava che nei processi No Tav, come nelle scelte di custodia cautelare, sembra sempre più evidente il peso attribuito all'appartenenza politica del soggetto indagato e tale aspetto ricorda, sostiene sempre l'avvocato, il metro usato nella Germania degli anni trenta dove era non solo il fatto ma la persona a cui si contestava tale fatto a determinare la pena inflitta. Altri interventi hanno sottolineato la denuncia dell'Europa contro il sovraffollamento delle carceri italiane e gli avvocati, a tal proposito, sottolineano che la custodia cautelare, detenzione in attesa di giudizio, è indicata come una estrema ratio nell'ordinamento italiano, mentre nei confronti dei No Tav sembra essere usata con una certa disinvoltura. I diversi interventi hanno sottolineato una molteplicità di aspetti sia di interpretazione del diritto che procedurali e possiamo affermare che tutto ciò non ridefinisce certo l'ordinamento italiano, ma ne dà almeno un'interpretazione piuttosto peculiare.
In conclusione, tornando al bosco, sembra interessante far notare che la strada che porta al cantiere è nel suo ultimo tratto interdetta al libero transito da ordinanza prefettizia. Tale ordinanza però, come stabilito dalla giurisprudenza, deve avere carattere di eccezionalità ed essere temporanea. Da quando sono iniziati i lavori di costruzione del cantiere, oltre un anno e mezzo fa, sono state circa 13 le ordinanze che si sono susseguite senza interruzione di tempo. Anche in questo caso, sottolineano i legali, osserviamo una certa interpretazione, quantomeno peculiare, della normativa.
Ascoltando le parole degli avvocati e osservando i folletti No Tav è immediata la comprensione che sono molteplici i terreni su cui gli attivisti intervengono. Inoltre, ridurre la lotta contro il Tav a una lotta contro l'alta velocità appare fuorviante.
Ormai non lottano più solo contro una grande infrastruttura fortemente dannosa per l'ambiente e costosa per le tasche di tutti gli italiani, ma contro un intero sistema di gestione dei rapporti clientelari, come spiega Cicconi nel suo testo Il libro nero dell'alta velocità, basato sul sistema di appalti in project financing, contro un sistema di gestione degli istituti di democrazia rappresentativa che non tiene conto delle voci che si levano dai territori, contro gli interessi delle élites economiche e politiche che sovradeterminano le “facce” dei territori e le strutture sociali di questi ultimi.
Una volta scoperchiata la pentola non si torna più indietro; sembra essere questa la consapevolezza di migliaia di donne e uomini della Val Susa che scelgono il loro territorio come luogo di vita e di resistenza tanto nelle strade delle cittadine che lo popolano quando sui sentieri delle loro montagne.
Espandere la resistenza anche alle aule dei tribunali è un ulteriore fronte di lotta che indica la consapevolezza di questo movimento, per cui anche in queste arene è necessario rallentare la scure che i potenti di turno scelgono di usare.

Luca Giacomelli
Volterra


Termina il dibattito su
Libertà senza Rivoluzione”

Con l'intervento di Stefano d'Errico termina il dibattito conseguente all'uscita del volume Libertà senza Rivoluzione di Giampietro ”Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sono intervenuti Franco Melandri e Domenico Letizia (”A” 378, marzo), Luciano Lanza e Andrea Papi (“A” 379, aprile), Luigi Corvaglia e Alberto Ciampi (“A” 380, maggio), Marco Cossutta e Salvo Vaccaro (“A” 381, giugno), Persio Tincani e Fabio Massimo Nicosia (“A” 382, estate), Enrico Ferri e Antonio Cardella (“A” 383, ottobre), Cosimo Scarinzi e Francesco Codello (“A” 384, novembre), Claudio Venza e Lorenzo Pezzica (“A” 385, dicembre 2013 - gennaio 2014) e ora Stefano d'Errico.



Dibattito
Libertà senza Rivoluzione/17

Stefano d'Errico/Anarchismo, liberalismo e politica: di necessità virtù

Per Berti l'anarchismo trascende ogni stereotipo in ordine alle altre teorie politiche: è una 'creazione universale umana'. Collocata nella storia dentro il movimento operaio, scrive Berti, 'l'idea anarchica è nata in contrapposizione al liberalismo (“destra”) e al socialismo (“sinistra”) perché, mentre liberali e socialisti hanno interpretato' i valori di libertà ed eguaglianza 'in modo indipendente', nullificandoli entrambi, l'idea anarchica 'li ha intesi come inscindibili'. Ma la domanda è: cosa fare quando (e noi aggiungeremo se) 'la rivoluzione non è più all'ordine del giorno'? La risposta è ancora nella specificità dell'anarchismo: 'Alla contrapposizione destra/sinistra subentra la contrapposizione autorità/libertà, dominio/libertà'. Obietteremo che resta irrisolta la dicotomia diseguaglianza/equità. Ma Nico risponde con Clastres: 'la relazione politica del potere precede e fonda la relazione economica di sfruttamento. Prima che economica, l'alienazione è politica, il potere è prima del lavoro, l'economico deriva dal politico, l'emergere dello stato determina l'apparizione delle classi'. Per Berti, quindi, l'economico 'se ha una propria esistenza storica, non ha (...) autonomia antropologica. Va dunque rovesciata la concezione marxista che vede il politico come dipendente dall'economico e dal sociale. Lo stato non è una semplice sovrastruttura; anzi esso è un elemento strutturale, è “causa prima”, perché è dallo stato che nasce la società di classe'. Mentre 'la fede (...) che, attraverso la lotta di classe (...) si potesse giungere al redde rationem rivoluzionario, distruggendo il regime capitalistico, ha spinto l'anarchismo a porre la priorità dell'eguaglianza rispetto a quella della libertà'. Secondo me, rotture rivoluzionarie ce ne saranno ancora (il potere non passa la mano). Anche se il problema del 'mercato' è più complesso, il sistema capitalista è da abbattere e l'eguaglianza resta indifferibile. Ma questo non sposta i termini della questione. Mentre la libertà è un principio inalienabile, la rivoluzione non può diventare 'dogma' valoriale. La rivoluzione attiene al metodo (perciò è più che lecito discuterne). Senza libertà non si dà (vera) rivoluzione: la prima conta quindi più della seconda. Inoltre, lottare è un 'imperativo' anche quando non vi sono condizioni rivoluzionarie. Perciò, se tale fosse la sfida, dovremmo comunque affrontarla. Berti si spinge anche oltre: l'assetto capitalistico è alienante e gerarchico perché 'non è l'economico che ha raggiunto una sua autonomia dal comando politico, ma è il politico che ha assunto una particolare veste: quella economica' (piena attualità). Tutto ciò non nega l'anarchismo, unico nel negare stato e autonomia del politico. Anzi, afferma la centralità di una politica a guida etica, strumento per una società 'senza (e contro) lo stato'. Ecco il punto. Berti afferma la necessità del qui ed ora (etica della responsabilità) per il movimento libertario: lotta per 'libere istituzioni sempre rivedibili e modificabili'. Ricorda, di Bookchin, il 'municipalismo libertario quale strumento di democrazia diretta realizzabile in ambito locale anche attraverso l'eventuale, possibile partecipazione alle elezioni comunali'. Ma Berti insiste tanto sulla 'parentela' col liberalismo, che (è innegabile) conserva pur sempre lo stato, perché questo s'è interrogato sulla democrazia. Dei tanti interventi sul libro, solo Luciano Nicolini (Cenerentola n.° 153) fa riferimento alla questione costituzionale: la democrazia, infatti, da sola non basta (neppure se democrazia diretta). C'è un limite invalicabile fra democrazia e populismo, altrimenti si giunge a Mussolini e Hitler (per via elettorale), o a Lenin e Stalin (per ...operaiolatria).
Berti accosta Kant e Bakunin: 'Agisci in modo da trattare l'umanità, così in te come negli altri, mai solo come un mezzo per (...), ma sempre e allo stesso tempo come un fine. Agisci con le massime che desidereresti divenissero leggi universali' (Kant) e '...Sono veramente libero solo quando tutti (...) sono ugualmente liberi. La libertà di ogni individuo è (...) soltanto il riflesso della sua umanità' (Bakunin). Basta col mito della 'perfezione'. Scrive Berti: 'Essendo creazione incessante della volontà degli uomini, la libertà è il fine supremo della storia, conquista mai definitivamente realizzabile appunto perché dilatata all'infinito (...), l'anarchismo sociale inteso come piena realizzazione dell'uomo (Bakunin) si dà solo conservando l'individuo concepito nei termini liberali (Kant). Il che vuol dire che l'anarchismo supera il liberalismo solo se lo conserva. Precisamente: per superare la libertà liberale bisogna mantenere il carattere dell'uguaglianza normativa garantita dalla civiltà liberale. Ecco dunque la sintesi (...) tra il solo orizzonte possibile dell'uguaglianza (normativa) e la sola estensione possibile della diversità (la libertà in divenire)'. La libertà non è solo principio, bensì condizione di necessità: se ne può fare virtù? Ci si può liberare dello stato etico senza cadere in uno speculare 'anti-stato' altrettanto categorico? Tale, per noi, è la sfida della politica.
Non si darà mai (per fortuna) una società senza conflitto. Il mito dell'antipolitica, in campo rivoluzionario, non riesce a concepire azione che non sia contestualmente 'palingenesi' (ribaltamento assoluto ed immediato del presente), condannandosi a non ribaltare alcunché neppure in termini gradualistici. Ma intenderebbe - massimo del paradosso - prefigurare un futuro senza conflitti (quindi anche senza regole necessarie a dirimerli). Ed è proprio il conflitto, presupposto fondamentale della rivoluzione, ad affermare la necessità della politica. Altrimenti, come accadde a chi credette nella (del tutto) presunta 'fine della storia', può affermarsi solo il mito della società trasparente, tanto autoritaria da divenire impersonale, quindi inumana. È così difficile accettarlo, a maggior ragione se è una lezione della storia?

Stefano d'Errico





I nostri fondi neri

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