rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014




Botta.../Ma in Libano non è proprio così

Sono rimasto perplesso nel trovare un servizio sui campi profughi siriani in Libano nell'articolo: “Sguardi dal Libano”, pubblicato nel numero 389 di “A”. Mi risulta infatti che il Libano, pur avendo lasciato aperte le frontiere ed accolto tutti i profughi in fuga dalla Siria, abbia però rifiutato di costituire campi profughi sul suo territorio. Per questo motivo i profughi siriani sono sparsi in Libano nelle varie comunità o hanno costituito accampamenti informali.
Un'operatrice umanitaria, profonda conoscitrice della realtà mediorientale, attualmente in Libano, dopo aver letto l'articolo mi ha mandato queste riflessioni: “Mi sembra che l'articolo sia pieno di imprecisioni e semplificazioni: mira ad un impatto emotivo ma non fornisce elementi utili a illustrare quanto accade in questa parte del mondo.
Qualche commento in ordine sparso:
1. Sembra che un articolo sul Libano non possa non contenere un richiamo alla guerra civile, peccato che qui sia fatto senza alcun nesso logico con quanto sta accadendo oggi. Inoltre, accostando la guerra civile all'antico odio sunniti-sciiti, si fornisce un'interpretazione semplificata sia della guerra civile (che in Libano ha visto diverse confessioni religiose scontrarsi, a cominciare da quelle cristiane e druse) sia di quanto sta avvenendo oggi in Siria.
2. Usare la definizione di “campi profughi” per indicare quelli che sono invece insediamenti informali è alquante fuorviante. In ogni caso non esiste un campo profughi di Akkar anche perché l'Akkar non è una località ma una regione nel nord del Libano, con decine di villaggi che, al loro interno, ospitano rifugiati. Un articolo serio avrebbe dovuto specificare questo dato e contenere qualche carta dove ritrovare località che sono poco familiari al pubblico italiano.
3. Non commento sulla lettura del conflitto siriano: in questo mi sembra che l'autore si limiti a riportare un'interpretazione dominante, senza tuttavia offrire spunti problematici o di approfondimento.
4. Il corredo fotografico non è chiarissimo: su quali dati si è basato l'autore per affermare che “oltre il 90% della popolazione dei campi profughi è rappresentata da bambini”? (Foto 1), e di quali campi profughi parliamo? Che significato hanno il bambino che mostra le dita a V in segno di vittoria (Foto 2) e il proiettile nella mano di un bambino trovato tra le vie di Al Qusayr in Siria (foto 6)?
Insomma, l'impressione complessiva è che il giornalista abbia fatto un giro frettoloso nelle zone dell'Akkar e della Bekaa e non abbia avuto tempo per rielaborare il materiale e acquisire documenti e dati sul tema.
Infine il titolo: “Sguardi dal Libano”, mi sembra abbastanza pretenzioso in quanto, in realtà, si limita a citare Arsal e l'Akkar, quando qui c'è più di un milione di profughi, sparsi in oltre 1000 municipalità libanesi''.
Condivido l'impressione di quest'operatrice. Al di là dei commenti critici sull'articolo resta fondamentale ricordare la crisi siriana, i cui dati sono davvero impressionanti (oltre 150.000 vittime dall'inizio del conflitto, oltre 6 milioni di sfollati interni e quasi 3 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi). In questa crisi il Libano appare come il Paese a maggior rischio per la propria stessa stabilità, avendo accolto ad oggi una quantità di rifugiati pari a circa un quarto dell'intera popolazione libanese (più o meno come se in Italia fossero arrivati, in tre anni, oltre 14 milioni di profughi). Alcuni villaggi libanesi hanno visto più che raddoppiata la popolazione residente, con un impatto fortissimo, a volte devastante, sui servizi e sull'economia locale.
Vorrei aggiungere che il Libano, che con la sua fragilità sociale e istituzionale comunque non chiude le porte in faccia ai profughi, rappresenta certamente un esempio assordante per l'Italia e per l'Europa, che non sono capaci di accogliere degnamente poche migliaia di rifugiati e lasciano che il medio oriente affondi nei numeri immani di questa tragedia.
Un caro saluto,

Renzo Sabatini
Roma

...e risposta/La mia esperienza diretta

Ringrazio l'operatrice umanitaria, citata da Renzo Sabatini, per le critiche e per l'analisi dell'articolo che mi ha dato modo di riflettere rispetto alla chiarezza, ai tempi ed agli spazi sui quali porre attenzione nello scrivere determinati articoli su tali questioni. Senza alcuna presunzione, voglio comunque precisare alcune cose, rispondendo a tali considerazioni.
1. Il richiamo alla guerra civile fatto nell'articolo, mira a dare un incipit in merito alla situazione odierna del paese che, con le dovute differenze rispetto al passato, non vede l'interrompersi delle escalation di violenze. Come lei bene osserva è vero che la guerra civile del passato non può essere accostata all'odio tra sunniti e sciiti, anche in virtù del fatto che esso non si manifestava come e quanto oggi; i conflitti erano ben altri. C'è però da osservare che una delle problematiche di cui soffre il Libano è legata comunque al conflitto tra alcuni movimenti politici che richiamano al sunnismo ed allo sciismo, accentuatosi drasticamente negli ultimi anni, soprattutto con la crisi siriana. Il Libano, come in passato, rimane uno degli scacchieri preferiti per i giochi politici di molte potenze esterne che, gettando benzina su fragili equilibri interni, ne disintegrano il già precario equilibrio sociale e politico; una spiegazione più esaustiva e completa delle tematiche legate alla Siria avrebbe richiesto un articolo a parte.
2. In merito a tale punto, ha perfettamente ragione nel dire che non esiste “Akkar”. So bene che si parla di Akkar come regione del nord del Libano e se guarda le foto, proprio in una di esse scrivo“distretto di Akkar”. Io mi sono recato in una zona periferica di uno di questi villaggi, in un piccolo accampamento gestito da una ONG internazionale composta prevalentemente da Siriani. L'avere scritto “in quello di Akkar” è un errore che ammetto non avere corretto. È giusto comunque farmi notare che la definizione “campo profughi” non sia giusta, e che sia meno fuorviante utilizzare il termine “insediamento informale”.
Nel mio articolo vi è comunque scritto che “le persone si accampano come possono o vengono ospitate dai locali in assenza di un programma nazionale di ufficializzazione dei campi”.
3. Come spiegato nel primo punto, non ho incentrato la mia testimonianza sulla spiegazione e sulla lettura del conflitto siriano, bensì ho solamente riportato le parole di alcuni volontari incontrati negli insediamenti visitati che mi hanno descritto la situazione odierna siriana secondo i loro occhi. Non mi sembra di avere dato una lettura di un certo tipo del conflitto siriano o peggio ancora avere riportato un'interpretazione dominante. L'articolo, dato anche il ristretto spazio in termini di caratteri, mira principalmente a testimoniare l'esperienza personale vissuta negli insediamenti e (tornando anche al suo primo punto) non a dare una spiegazione/interpretazione in merito al conflitto civile del passato e alle dovute differenze rispetto al presente.
Un discorso a parte meriterebbe il corredo fotografico. All'inizio dell'articolo vi è scritto “Reportage di Giacomo Maria Sini”; le foto quindi sono le mie, dato che di narrazione d'un reportage fotografico si tratta. Nell'articolo ho scritto che gran parte degli abitanti dell'insediamento visitato ad Arsal provengono da Homs, dalla regione di Qalamoun e da Qusayr. Credo che ognuno possa avere qualsiasi impressione rispetto all'articolo e al fotoreportage prodotto nelle zone visitate e le sue sono state legittime considerazioni che ho letto con attenzione. Mi conceda però di ripeterle che con un numero di caratteri ristretto, non ho avuto la possibilità e non mi sono voluto dilungare su svariate riflessioni specifiche prodotte in tali zone dove è chiaro che io sia stato, dato che di testimonianza si tratta. Non era la prima volta che mi recavo in Libano e ho sempre avuto un profondo interesse per il mondo arabo e per il Medio Oriente, “operando” spesso in tali zone. Mi conceda quindi di affermare che anche io ho il mio umile bagaglio di informazioni dato da esperienze dirette e letture sul tema.
Il titolo è un diretto riferimento al fotoreportage. Come ben può notare gran parte delle foto che ho fatto nel reportage sono ritratti che arrivano principalmente da uno dei due insediamenti visitati in Libano. L'articolo quindi, non mira a descrivere la situazione generale di tutti i profughi sparsi per il paese, ma testimonia un'esperienza diretta con alcuni di essi in quelle due zone. Per quanto riguarda Tripoli, in questo articolo ho deciso di nominarla per rimembrare brevemente una delle situazioni più complesse per una delle più importanti città del Libano, dove mi sono recato, sono stato ospitato e ho avuto modo principalmente di discutere del pesante conflitto interno, respirandolo direttamente con alcuni siriani e libanesi.
In definitiva, sperando di poterne discutere di persona, le mando un sincero saluto.

Giacomo Sini
Livorno

Camillo Berneri e Piero Jahier/Un sodalizio umano e intellettuale nella Firenze antifascista dei fratelli Rosselli

Cari compagni,
ho trovato tra le pieghe dei vecchi libri della biblioteca di famiglia due bei ricordi di Camillo Berneri.
Il primo è tratteggiato nel secondo dopoguerra dal bisnonno Piero Jahier, che aveva avuto Berneri per intimo amico a Firenze tra la fine dei '10 e i primi anni '20. Concepito in forma di lettera come prefazione al volume in memoria di Camillo scritto dalla madre Adalgisa Fochi Berneri Con te, figlio mio, comparso nel 1948, è contenuto nella raccolta Con me.
Il secondo ricordo è un originale dattilografato e incollato in fondo all'edizione di Pensieri e battaglie stampata per il Comitato “Camillo Berneri” a Parigi il 5 Maggio 1938, nel primo anniversario della morte. Si tratta di una breve nota biografica redatta verosimilmente dalla stessa Adalgisa Fochi Berneri, che donava questa copia al bisnonno in segno di gratitudine proprio per la stesura di quella prefazione, con una dedica autografa datata 1 Ottobre 1947: “All'avv. Piero Jahier con commosso animo, riconoscente per il ricordo che serba all'amico perduto, La mamma di Camillo”. Il volume è sottolineato e annotato a margine dal possessore ed arricchito con due ritratti fotografici di Berneri ritagliati da giornali e incollati in terza e quarta pagina che riportano le didascalie autografe: “Nel 26 a 29 anni appena a Parigi” e “In Germania dopo sei anni circa di aspra vita”.
Camillo: eclettico, eterodosso, coerente pensatore anarchico di lingua italiana, filosofo allievo di Salvemini, perseguitato e esule antifascista, collaboratore tra molte e non solo libertarie anche della rivista di cultura protestante Conscientia, miliziano nella rivoluzione spagnola, vittima dello stalinismo di cui fu critico lucidissimo.
Piero: di antica famiglia valdese, poeta vociano, esteta e moralista originale e contraddittorio, interventista democratico, intellettuale antifascista del Non mollare che accoglieva nella sua biblioteca tutto Proudhon.
Due figure inquiete, vicine e distanti, intrecciate negli anni dell'imporsi dell'impostura nera, accomunate nella Firenze intellettuale e resistente dei Rosselli. Memoria liberata dal chiuso delle pagine.

Paolo Papini
Roma

Piero Jahier

Cara mamma di Camillo Berneri,
leggendo il suo libro, mi son veduto venire incontro, per mano alla sua mamma, non più ottuagenaria, quel ragazzo che ho amato giovane uomo, così come me lo vedevo venire incontro, trent'anni fa, dal viale Alessandro Volta, tenendo per mano, orgoglioso padre novello, le due bimbe: Maria Luisa e Giliana.
Veniva a cercarmi alla Casa Rossa, e le due belle bimbe, agghindate nelle leggiadre vesticciole casalinghe da mamma e nonna, tacevan compunte, mentre i grandi, chissà perché eccitati, difendevano l'anticomunismo di Proudhon, o ragionavano dell'esilio di Kropotkine e della alternativa che la tirannide fascista andava imponendo a chiunque avesse coscienza di dignità umana: degradarsi più o meno ad abbietto conformista, o essere uomo.
Essere uomo significava tra l'altro, per quel giovane dallo sguardo limpido e diritto, che aveva trovato nell'amore coniugale proudhoniano il proprio equilibrio (aveva scritto: anche in amore le tendenze poligame o poliandriche rivelano l'esaurirsi della poesia), e si confessava “madre” nell'intensità affettiva della sua paternità, significava sottoscrivere, di propria iniziativa, al disfacimento di quel nido familiare appena costruito, che era il suo porto di poesia sulla terra.
Ma già allora Camillo cercava, attraverso le molteplici spinte e curiosità del suo ingegno vivace, una armonia totale della personalità al di là di ogni sentimentalismo, al di là dei valori meramente decorativi dell'arte gioco.
Cercava come Slataper “l'eroismo dell'atto, miracolo che può infiorare un ramo secco”.
Cercava, cioè, quel che già possedeva, che era la sua grazia, indelebilmente impressa su quella sua fronte di arcangelo: la grazia di tradurre in atto le verità dell'anima, senza paure e senza esitazioni; quella grazia che i migliori tra i suoi compagni han chiamato la sua santità.
Guardai intorno a me nella vita. E vedendo dovunque disarmonie, cioè ingiustizie schiaccianti ed arbitrii bestiali, mi dissi: “Ecco una via certa. Ed era quella di battermi contro quei mostri reali”.
Ora, in epoche meno vili e feroci della attuale decadenza europea, sarebbe forse stato possibile ad un giovane idealista battersi contro quei reali mostri altrimenti che facendosi rimpallare da un carcere all'altro delle sedicenti nazioni libere d'Europa, o tirando una carretta di manovale fino allo sfinimento, in terra straniera, od oscurando la fronte serena della propria bimba, con la visione del padre dietro le inferriate di una prigione: “mentre giocavamo nei campi, io mi rimproveravo di divertirmi, mentre tu ti trovi in prigione”.
Ma erano gli anni in cui i letterati, figli di quei liberali che avevano giurato e garantito la libertà di coscienza come un diritto naturale, scoprivano – guarda caso! – non la retorica e la violenza fascista, ma la retorica e la violenza dei romantici rivoluzionari, la retorica di Bakounin, e un loro campione, con tale meritoria scoperta alla mano, bussava alle porte dell'accademia mussoliniana. Eran gli anni in cui i poetini ermetici spremevano gli ovidutti per offrire alla ammirazione dei Guf logogrifi letterari che non recassero traccia dell'argomento pericoloso.
Quando una generazione giunge a tale annichilamento da accettare la depravazione dell'arte a gioco tecnico, la corruzione della religione ad instrumentum regni, l'asservimento della politica alla possidenza, è provvidenziale e indefettibile che il più generoso balzi all'avanguardia nella posizione estremista più rischiosa, quale quella affermata dall'idea libertaria, che diffida di ogni autorità e tradizione, ed esige da ogni coscienza la capacità di emanciparsi da sola nell'eroismo dell'atto “miracolo che può infiorare un ramo secco”.
Io non avevo conosciuto la “mamma di Camillo” che attraverso qualche indiscrezione affettuosa di lui, come la mamma che guardava le spalle al proscritto, aiutando i suoi cari col proprio lavoro di maestra elementare; ignoravo la tradizione mazziniana materna in cui era cresciuto, analoga a quella dei Rosselli, amici comuni; non avevo avuto che un barlume della purezza del suo quadro familiare.
Queste memorie della prima età di Camillo Berneri, anche se non immuni dal difetto di ogni scritto materno: “ipsum quem genuit adoravit”, danno, attraverso gli episodi infantili, rivissuti con genuinità assoluta, il senso della continuità psicologica di una personalità che primeggia nella lotta politica di questo trentennio.
È bello, mamma Berneri, aver generato in quegli anni un uomo intero, capace di fare in piena coscienza l'aborrita scelta dell'eroica follia della bontà armata, la scelta che si è imposta, unica e inderogabile ai migliori dei suoi coetanei: la scelta di Carlo Rosselli, di Gramsci, di Gobetti, che fraternamente lo amarono.
Anche se l'affetto di quella mamma, lo strazio di averlo così atrocemente perduto le strappa l'assurdo autorimprovero di aver cresciuto, per una sua incapacità di adattarsi agli usi del mondo, un figlio che “troppe volte si sentì solo, e fu refrattario alle convenzioni sociali, e ribelle a ogni forma di coercizione”.
Si rimane muti di angoscia davanti all'inconsolabilità di un dolore di madre. Come sono rimasto, giorni fa, per le scale di Casa Rosselli, incontrandomi, dopo venti anni, con l'esile figura della mamma di Carlo e di Nello.
Ma è proprio il dono d'una creatura redentrice, inesorabile nell'opporre il proprio “non serviam” al mondo più indegno, il più alto dono che possan fare ai perduti le viscere di una madre.

1947

Camillo Berneri fu ucciso, sembra, da comunisti, durante la rivoluzione spagnola. Anch'egli scolaro di Salvemini, fu tra i più anziani del nostro primo gruppo di antifascisti (n.d.a.)

Prefazione al libro di Adalgisa Fochi Berneri Con te, figlio mio, Officine grafiche Fresching, Parma, 1948 in Piero Jahier, Con me, Editori Riuniti, Roma, 1983

Su Piero Jahier ascolta su wikiradio.rai.it la trasmissione Piero Jahier raccontato da Mario Isnenghi dell'11 Aprile 2014.


Botta.../Ma Kant non era per la tortura

Cara redazione,
leggo su “A” 389 (maggio 2014), nello scritto del Collettivo Altra Informazione (Beccaria, Kant e il terrore di stato, pagg. 17-19), che Kant avrebbe giustificato l'impiego della tortura.
A me veramente non risulta. Chi lo afferma dovrebbe produrre almeno un rigo di Kant in cui ciò si sostenga. Dubito fortemente che esista.
È vero, Kant non è contro la pena di morte, e su ciò critica Beccaria, ma sulla tortura non mi pare affatto favorevole o giustificazionista. Insomma: a ciascuno il suo.
Saluti

Massimo La Torre
Catanzaro

...e risposta/Pena di morte e tortura: distinzione labile e ambigua

Volentieri precisiamo a riguardo, riconoscendo una parziale fondatezza all'osservazione mossaci dallo stimato Massimo La Torre.
La citata lettera del 1796 in cui Kant rimproverava a Beccaria «il sentimento di falsa umanità» e legittimava «il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa» è stata ripresa dal recente saggio di Michel Porret, “Beccaria. Il diritto di punire” (Il Mulino, 2014) e, secondo la nostra modesta interpretazione, non è circoscrivibile solo alla pena capitale; d'altra parte, la distinzione etica e materiale tra pena di morte e tortura appare sempre alquanto labile, nonchè politicamente ambigua.
Cordialmente.

Altra Informazione
aranea.noblogs.org

Prosegue il dibattito su
movimenti e potere

Pubblichiamo qui di seguito il sesto, settimo e ottavo intervento nel dibattito sulle tematiche toccate nei quattro articoli di Antonio Senta (“potere e movimenti”) pubblicati sulla nostra rivista tra l'ottobre 2013 (“A” 383) e il febbraio 2014 (“A” 386). In precedenza erano intervenuti Andrea Papi e Andrea Aureli (“A” 388) e Francesca Palazzi Arduini (“A” 389), Andrea Staid e Federico Battistutta (“A”390). Ricordiamo che gli interventi in questo dibattito, come sempre aperto a tutti, non possono superare le 6.000 battute (spazi compresi).



Dibattito
Movimenti e potere/6 e 7 e 8

Walter Siri/L'autogestione di oggi, le lotte di domani

Sulla questione della lotta di classe sollevata da Andrea Papi nella prima risposta alla serie di articoli proposti da Antonio Senta.

Il termine usato da Toni allude alla definizione di Lotta di Classe “dall'alto” che Luigi Fabbri poneva alla base dell'analisi del nascente fascismo*. Il dibattito su questi temi non è datato. Sul finire degli anni '90 e per metà dei primi anni 2000, si è discusso molto - anche in ambito anarchico - di turbo-capitalismo e di lotta di classe dei ricchi contro i poveri.
Ciò che caratterizza anche l'attuale fase vede le organizzazioni (per quanto sovranazionali, reticolari, informali, destrutturate) delle classi dominanti all'attacco. Alcuni scenari sembrano prefigurare una sorta di apocalisse dove chi ha i mezzi, le capacità e le relazioni di potere immagina di sopravvivere tenendosi lontano dalla discarica sociale.
Non mi pare arbitrario riconoscere nella molteplicità dei soggetti che soffrono dello sfruttamento e dell'oppressione quei caratteri comuni che definiscono una composizione (per quanto tecnica) della classe subalterna. Volendo possiamo pluralizzare: le classi subalterne, le masse diseredate, i flussi migratori, le favelas, le comunità indigene, etc.
L'eterna guerra fra sfruttati e sfruttatori è ancora motore di istanze di liberazione. Sta a noi coglierne spunti e criticarne limiti ma non credo si possa negarne l'esistenza.
Il pregio del lavoro di Toni, mi sembra, è quello di coglierne la portata analizzando non già i movimenti carsici quanto le emergenze che salgono all'onore delle cronache.
Parlando dell'universo-mondo si è necessariamente superficiali e schematici e, forse, agiografici, ma credo sia di interesse comune avere a disposizione storie che ci raccontano delle lotte. Ciò ci permette di trovare le conferme o le smentite alle ipotesi che quotidianamente mettiamo in campo in quanto minoranza agente.
Ma, come viene riconosciuto, Senta non tocca, nel suo excursus, solo i movimenti di piazza che si scontrano con le forze armate del potere o che hanno modalità e immaginari riconducibili alle ideologie otto-novecentesche. Mette in evidenze le reti sociali ed i progetti che tentano, qui ed ora, di dare risposte alle esigenze quotidiane e che prefigurano modalità relazioni che possono oltrepassare lo schema sociale determinato.
Esiste dicotomia fra pratica rivoluzionaria e pratica autogestionaria?
Per gli/le anarchiche il problema non si pone: è nell'autogestione delle lotte di oggi che si costruisce il futuro di domani.
Ad un movimento impegnato in una lotta libertaria complessiva non può sfuggire l'importanza di adottare dei modelli di riferimento con tutti i rischi della superficialità e dell'approssimazione.
Il modello anarchico prefigura una lotta radicale (tanto radicale da essere definita sovversiva e rivoluzionaria) per l'oltrepassamento di ogni relazione di potere e/o dominio.
Come? È evidente che ci possono essere modalità e contesti molteplici.
Che si possono realizzare spazi nei quali il potere è bandito. Che si possa lottare contro tutte le forme di potere. Che si possa abbattere il governo di turno.
Che si possano ottenere degli obiettivi intermedi o parziali. Ciò che ci caratterizza rispetto alle ipotesi riformiste non è la velleità del tutto e subito ma la prospettiva di una soluzione concreta alle contraddizioni contemporanee. Una prospettiva che non può non tenere conto delle esigenze immediate nella relazione intrinseca fra mezzi e fini ma, sopratutto, fra condizioni e possibilità.
La lotta di classe torna a fare capolino.
Tornando all'intervento di Andrea Papi rilevo un altro tema di dibattito: la questione della violenza.
Sull'argomento, dirò subito, l'intervento di Stefano Boni (ospite della rubrica di Andrea Staid, “A” 387) mi pare pratico-sensibile, mettendo in evidenza come l'uso della forza fisica sia imprescindibile sia come forma minima di autodifesa, sia per manifestare nella maniera più incisiva possibile l'opposizione al potere costituito.
Non c'è relazione – se non velleitaria – fra uso della forza, pratiche di illegalità (anche di massa), capacità di contenimento nei confronti delle forze di polizia e strategie insurrezionali.
Il tanto vituperato Blocco Nero è stato e continua ad essere uno degli strumenti che i movimenti hanno per difendersi dalle brutalità del potere e degli agenti del potere che contrastano le proteste.
Uno e non LO strumento. Così come sarebbe disarmante considerare qualsiasi forma di resistenza alle soverchianti forze armate dello stato come eticamente inaccettabile in virtù di un malinteso anti-violentismo, altrettanto sarebbe suicida indirizzare gli sforzi di lotta dei diseredati e dei ribelli verso una soluzione militare.
La sollevazione generale, l'insurrezione, la rivoluzione hanno più bisogno di zone liberate che di pistole. Ma le zone liberate devono essere difese contro gli attacchi degli scherani.
Sempre per citare Boni: “Non sostengo né la bellezza né l'indispensabilità dell'azione diretta violenta. Sarebbe però ingenuo pensare che l'attività politica più efficace sia iscrivibile nello spazio pacificato consentito dalle istituzioni. Il tema della violenza, dopo decenni di tabù, torna a far riflettere e discutere per varie ragioni. Per non farsi cogliere impreparati, sono gli eventi contemporanei ad imporlo. Per trovare percorsi di analisi e prassi condivisa, attraverso un dialogo senza preclusioni, in una galassia libertaria in cui le posizioni sono molto distanti ma spesso non esplicitate. Per riuscire a concepire, e possibilmente costruire, una forza che permetta di difendersi dalla violenza statale. Questa è riuscita a seccare sistematicamente i germogli libertari che si sono timidamente manifestati in questi ultimi secoli. Se dovessero dare nuovi frutti in questi anni imprevedibili, sarebbe scellerato lasciarli devastare senza opporre una seria resistenza.”

Walter Siri
Bologna

* Introduzione a “La Controrivoluzione Preventiva”, Zic, Milano, 2009, note a cura dell'Assemblea Antifascista Permamente di Bologna



Un compagno della Federazione Anarchica Reggiana – FAI/Non esistono scappatoie per pochi

Tento di entrare nel dibattito proposto da Toni e rilanciato da “A” facendo un passo indietro. E cioè dalla crisi del modello democratico occidentale. Toni ha presentato vari contesti con accenni alle condizioni specifiche che hanno fatto nascere movimenti di protesta e di rivendicazione, evidenziando tratti comuni dipendenti da “processi internazionali di accumulazione del capitale, laddove il capitale per vivere-cioè produrre, sfruttare e ricavare profitto - deve necessariamente modificarsi, aggredendo sempre nuovi e ulteriori spazi, materiali e immateriali”.
Queste proteste mostrano comunque profonde differenze sia di tipo organizzativo che di carattere rivendicativo – progettuale, addirittura riscontrabili all'interno delle singole esperienze. Così troviamo chi lotta per un progetto autogestionario, chi per ripristinare corretti rapporti di delega democratica (come ancora parte del movimento 15-M chiede in Spagna), chi per riottenere condizioni di vita (e di consumo) vissute prima della crisi ed ora perse (smarrimento della classe media). Rispetto al movimento no-global (l'ultimo movimento di rottura, di base e di massa con una prospettiva internazionale) una differenza sostanziale è data dal fatto che questo lottava contro un sistema capitalistico-democratico in espansione, che dopo la caduta del muro di Berlino trovava negli Stati Uniti l'unico riferimento di una presunta omogeneità politica globale. Ora i nuovi competitori internazionali, Cina e Russia in primis, rivendicano la lontananza da sistemi democratici immobili, caratterizzati dalla scarsa capacità decisionale1, e su questo i modelli occidentali si stanno adeguando riducendo gli spazi di espressione e di partecipazione nel nome della governabilità. “Paura e crisi costituiscono l'orizzonte insuperabile della governamentalità del capitalismo neoliberista... La crisi è la modalità di governo del capitalismo contemporaneo2. La mancanza di alternativa è la parola d'ordine dei nostri giorni. L'impoverimento dell'immaginario3.
Questo è il quadro che ci aspetta sia che si parli di austerity e Comunità Europea, sia che si parli di piccole patrie, di forconi e di grillismo. In entrambi, i processi di governamentalità che sempre più strutturano relazioni di dominio riducono gradualmente l'autonomia dei singoli e rafforzano l'idea di Stato e di Governo, permettendo a questi di esercitare forza e condizionamento4. La piazza è un momento di risposta alla crisi, di ricomposizione di questa condizione di atomizzazione sociale e di costruzione di immaginario. La piazza assume il ruolo dello spazio del confronto, così come le cooperative sociali e di consumo, gli spazi collettivi per l'autoproduzione e l'educazione libertaria. Gli spazi occupati, quelli alternativi e i circoli anarchici. Le cucine del popolo, gli orti collettivi e i GAS. Le casse di solidarietà libertarie, i comitati di assistenza e di resistenza, le esperienze mutualistiche. Le esperienze comunaliste, di autogoverno e le forme di sperimentazione comunitarie. Tutto questo è piazza.
“Le conseguenze delle azioni che ognuno di noi compie nella vita quotidiana determinano il corso della politica. Ognuno di noi per il fatto stesso di vivere, modifica il mondo, che ne sia consapevole o meno, che lo voglia o meno, che lo accetti o meno5. Ecco io penso che per la realizzazione di questo “esodo e resistenza”, non sia sufficiente accontentarsi degli spazi di libertà individuali che ognuno di noi cerca di costruirsi. Non esistono scappatoie per pochi. Non esistono alternative alla necessità di organizzarci, di condividere percorsi, di dare continuità e lungimiranza al nostro agire politico. Il caso greco mi sembra esemplare: dopo la crescita numerica, la capacità di mobilitarsi nelle strade, l'occupazione di spazi e la costruzione di lotte a fianco di lavoratori, di immigrati, per la difesa dei territori dallo sfruttamento delle imprese e delle multinazionali, parte del movimento ha compreso che per riuscire a far fronte alle condizioni di vita che la crisi imponeva, per riuscire ad essere incisivi, doveva organizzarsi. Per questo stanno nascendo due federazioni anarchiche, per questo il tema dell'organizzazione è centrale nel dibattito politico. I movimenti di piazza sono momenti importanti di emersione di pratiche alternative, di conflitto e di sperimentazione. Ma appunto, sono momenti.
La possibilità data dall'organizzazione anarchica è quella di costruire quotidianamente un nuovo immaginario che scardini gli elementi del dominio. È dare radicamento sociale all'anarchia così da garantire impulso e sostegno alle pratiche di libertà nate dai momenti di rottura, è la costante capacità perciò di contaminare e di farsi contaminare. È l'essere in grado di dare continuità a questi momenti di rottura anche dopo il loro esaurimento. È impedire che le aspirazioni di trasformazione rifluiscano in nuovi ceti politici, funzionali a ricomporre un quadro di delega e a deviare le energie rivoluzionarie verso nuovi o vecchi riformismi. È dare una prospettiva complessiva a istanze che spesso sono legate all'oggi o all'individuo, è dare risposte collettive a problemi collettivi e al contempo della collettività. Far assumere cioè un piano politico all'agire e allo sperimentare, secondo percorsi chiari, assembleari e collettivi. La trasformazione del contesto in cui viviamo nasce sempre dalle condizioni sociali e da un atto di volontà individuale che diventa collettivo. L'organizzazione anarchica, io credo, è il miglior modo per agire questo atto di volontà in un quadro di libertà, attraverso la conciliazione di pensiero e realtà, di desiderio e di reale.

Un compagno della Federazione Anarchica Reggiana – FAI

  1. Si veda per esempio il numero 1044 del 28 marzo 2014 della rivista Internazionale, C'era una volta la democrazia
  2. Maurizio Lazzarato, Il governo dell'uomo indebitato, saggio sulla condizione neoliberista, Derive e Approdi, 2013
  3. Si veda David Graeber, La rivoluzione che viene, Manni, 2012
  4. Eduardo Colombo, Le due rappresentazioni delle stato, in L'anarchismo oggi, un pensiero necessario, Mimesis, 2014
  5. Flavia Monceri, Anarchici; Matrix, Cloud Atlas, Edizioni ETS, 2014


Eugen Galasso/Ma non parliamo solo di classe operaia

Su movimenti e potere credo si stia sviluppando un dibattito estremamente interessante, su “A”, che spero sia foriero di sviluppi e applicazioni pratiche: senza teoria, ritengo, non c'è prassi, ma anche la teoria deve confrontarsi con la prassi.
Escludendo il mito della prassi à la von Ciezlowsky (ma è Ottocento, sinistra hegeliana), che oggi sembra far scuola nei “Black Block” e movimenti analoghi, i cui risultati sembrano favorire sempre solo i detentori del potere, c'è da intendersi su come concepiamo movimenti e potere. Riandando al primo intervento di Antonio Senta (ottobre 2013, “A” 383, pp.13-15) credo sia importante segnalare come l'autore evidenzi i testi prodotti da Huntington e altri, per difendere una “democrazia american style” contro la “cultura antagonista” (sic!). Ne possiamo indurre la strategia dei poteri “occidentali”, con le loro indubbie differenze, rispetto a tutto ciò che può essere “antagonistico”...
Da qui e naturalmente da altri testi analoghi possiamo ricostruire strategia e tattica (al plurale, se si vuole) dei poteri verso i movimenti, addirittura da fine anni Sessanta (anche se i testi citati all'inizio di “The crisis of democracy” sono successivi, metà anni 1970, la loro elaborazione è appunto precedente) fino ad oggi. Non citerò ulteriori testi sentiani per brevità, ma non mi scandalizza affatto, anzi mi conforta il fatto che Senta parli di “lotta di classe”. Posso accettare la relativizzazione proposta da Andrea Papi, per cui “in sociologia il concetto di classe è dificilmente definibile” (“A” 388, aprile 2014, p.125), pur tuttavia esso è usato da molti sociologi, politologi e non pochi economisti. È una di quelle espressioni che, al di là di ulteriore definizione, sono comunque diffuse quasi convenzionalmente e “universalmente”. Che poi la pauperizzazione data dall'attuale crisi come dalle altre (precedenti e future, sempre che usciamo dalla presente...) non coinvolga più solo il “proletariato” è assolutamente vero, perché coinvolge anche piccola borghesia, studenti, disoccupati di diversa “estrazione” etc., ma che la situazione di operai e contadini poveri sia particolarmente “traballante”- ed è un eufemismo - pare evidente.
“Datata la lotta di classe”, come più sopra nel suo intervento propone Andrea Papi, brillante teorico del libertarismo e anarchismo? Direi di no: se chiediamo ad un sindacalista latinoamericano, per es., dirà sicuramente di no, che l'espressione è ancora attuale, visto il clivage (stacco, divisione) di cui, per es. parla ampiamente e giustamente (almeno ritengo sia così) Etienne Balibar nel recentissimo saggio “Un nouvel élan, mais pour quelle Europe?” (Le Monde diplomatique, N.720, 61 année, mars 2'14).
Vogliamo dire “poveri” versus “ricchi” invece di “proletari” versus “borghesi”? Va bene, lo fa anche Balibar, di provenienza marxista, ma non credo che ciò cambi molto i termini della cosa. Fermarsi qui sarebbe sterile nominalismo, un nominalismo che certo ad Andrea non è mai appartenuto né appartiene. I “grands commis d'état” rispetto ai piccoli impiegati ma anche a qualche funzionario “di basso rango”, con un divario a livello retributivo non solo geometrico ma astronomico, dove però lo stacco vale altrettanto nel settore privato.
Ormai nessuno o quasi (forse qualche dogmatico nostalgico operaista) si limita a parlare della classe operaia come unica vittima di ogni crisi ma anche di ogni condizione “normale” del capitalismo, ammesso che sia sensato parlare di “normalità” in questo come in altri ambiti... Peraltro di “capitalismo” parla correttamente Papi stesso nel suo bel testo “Renzi, ultima illusione” (“A” 388, pp.11-12). Spesso, anche per valutare come i poteri, nella loro ampia diversità, si rapportino ai movimenti, anch'essi non riconducibili mai a un illusorio “minimo comun denominatore”, intendersi su problemi come questo non è oziosa questione definitoria, ma una premessa necessaria.

Eugen Galasso
Firenze


Il 25 aprile, il Primo Maggio e il PD

Parlando di politica con gli amici, prima o poi, salta sempre fuori qualche paura sul ritorno del fascismo, soprattutto in quel periodo che va tra la fine di aprile e l'inizio di maggio, nella quale casualmente si collocano due celebrazioni fondamentali dell'antifascismo italiano: la festa della Liberazione e la festa del Lavoro. “Se tornasse il fascismo, queste feste sarebbero vietate”, tuona sempre qualcuno, ad un certo punto della discussione.
E qui, secondo me, sta un grande errore: oggi, il fascismo, quel fascismo a cui pensiamo di solito, è superato dal tempo ed inattuabile; le minacce per la libertà arrivano da altre parti, mascherate sotto volti, nomi e discorsi più rassicuranti. Oggi, non si vietano le feste, anzi l'opposto; oggi, le feste, le si occupa.
L'abbiamo visto il primo maggio a Torino, ma potevamo accorgercene già negli anni passati. Il Partito Democratico discende da quel monolito rosso che era il vecchio Partito Comunista, che in un modo o nell'altro si è sempre sentito il maggiore avente diritto a festeggiare la Liberazione e il Lavoro, per ben noti motivi storici; ma, se un tempo era partito d'opposizione e, quindi, poteva godere di un appeal ribelle e antigovernativo, oggi il Pd comanda e si appresta a farlo in maniera sempre più netta (causa defaillance dei principali contendenti).
Il 25 aprile è la festa degli antifascisti, ma la domanda è: chi sono i veri antifascisti? Oggi, il Pd di governo si assume l'onere e l'onore dell'antifascismo e della sua definizione, in quanto unica definizione possibile. Non è raro trovare esponenti del Pd (o dei gemelli diversi di Sel) nelle file dell'Anpi, a significare quello stretto legame, quasi implicito, tra il partito e l'antifascismo enciclopedico. In questo modo, tu che non sei concorde con la loro nozione di antifascismo, sei implicitamente fascista, sei dalla parte del torto e automaticamente escluso dal confronto.
Allo stesso modo, il 1° maggio è la festa del Lavoro, ma la definizione di lavoro quale può essere se non quella del Pd (che, in questo caso, è orwellianamente anche quella del governo)? Loro, che discendono dal Partito Comunista, da quelli che han sempre fatto gli scioperi e le grandi battaglie per il lavoro, sanno di cosa si tratta e hanno il diritto ed il dovere di sfilare in prima fila nei cortei. Di più: loro sono il Lavoro. Se li contesti, contesti il lavoro, e quindi non hai diritto di festeggiare il 1° maggio.
Questo è quello che è accaduto a Torino, ma eventi minori si sono verificati altrove. Di certo il clima pre-elettorale ha influito (non solo le europee, ma anche varie amministrative e, proprio in Piemonte, le regionali), ma a tutti sarà capitato di incontrare politici a pranzi o eventi per il 25 aprile intenti a propagandare la loro candidatura ad una delle prossime competizioni politiche, o di notare il gruppo ben in vista dei suddetti esponenti sfilare il 1° maggio. Tutti del Pd ovviamente, perché quelle sono le loro feste, quello è il loro pubblico, e gli altri sono solo loro ospiti. A chi gli fa notare, scioccamente, che stanno facendo campagna elettorale in un momento non opportuno, rispondono sconcertati che, essendo loro gli unici veri portatori degli ideali che quelle festività incarnano, antifascisti e lavoratori non possono che essere fieri e felici che il Pd sia lì, poiché è il loro partito.
Oggi, le feste non si vietano, si occupano, o se preferite si affittano (a costo zero, ovviamente). E, siccome, siamo nel mondo capitalista, la proprietà privata è un diritto che va difeso anche dietro ai cordoni di polizia in assetto antisommossa. Le cariche allo spezzone sociale del corteo di Torino non sono state fatte come risposta a provocazioni né per provocare, ma al solo scopo di sancire un diritto di proprietà privata: “questa non è la vostra festa, è la nostra; noi siamo il Lavoro, voi siete contro di noi e quindi contro il Lavoro; questa è la nostra festa, non la vostra”.
Queste ultime festività sono state occupate dal partito che le ha sempre, più o meno gentilmente, rivendicate; occupate per poter esercitare la loro campagna elettorale. Non più le piccole, grige e anonime sedi di partito, che negli anni diventano via via più piccole e decentrate per via degli alti costi immobiliari, ma le piazze e le vie delle ‘grandi feste della sinistra'. Occupate, paradossalmente, come gli sfrattati occupano le case abbandonate, per rivendicare un diritto fondamentale: d'altronde, un partito senza campagna elettorale è implicitamente escluso dal mondo politico, così come un uomo senza casa è escluso dalla società. La differenza è che le case occupate il 25 aprile ed il 1 maggio non erano abbandonate; forse non godevano di grande manutenzione, ma di sicuro non erano abbandonate.

Valerio Moggia
Novara

No Tav/ Schizzi dall'aula bunker

Salve a tutti compagni
mi chiamo Alex, forse qualcuno di voi mi conosce o mi ha incontrato in qualche manifestazione o altri posti (son di Pistoia). Vi scrivo dopo che il nostro mitico compagno Gianni Milano mi ha chiesto vivamente di farlo!
Sono stato nella tristissima aula bunker di Torino lo scorso martedì (13 maggio) durante il processo ai No-Tav, dove ho conosciuto Gianni e altre belle persone; là ho buttato giù alcuni skizzi che sono piaciuti tanto ai compagni, che mi hanno detto di mandarli a voi per pubblicarli magari come illustrazioni di qualche articolo sul processo.
Vi ringrazio dell'attenzione!

Alex Simone Niccolai
Pistoia


Black block, G8, violenza, ecc./Proporre nuove visioni e nuove prospettive

Ho letto sullo scorso numero (“A” 390, giugno 2014) l'intervento di Andrea Staid e la lettera di Massimo Ortalli. Su quest'ultima vorrei fare una breve considerazione.
La riflessione di Massimo è diretta: anziché abbarbicarsi nel cielo della teoria parte da un'immagine fin troppo eloquente, quella del casseur di turno (madrileno nella fattispecie) alle prese con una vetrata o un bancomat, circondato da fotoreporter, cineoperatori e compagnia discorrendo, pronti a riprenderlo e immortalarlo. Qui non c'è più l'innocenza del gesto spontaneo, seppur violento: tutto viene risucchiato ipso facto nel gorgo mediatico, ridotto a spettacolo per il telegiornale della sera o per il circo youtube. Ha ragione da vendere Ortalli, nel sottolineare ciò.
Ma il problema è un altro. E qui viene il mio disaccordo per il documento sui fatti del G8 (a cui fanno riferimento sia Andrea che Massimo) o per gli interventi che appaiono su “A” pronti a stigmatizzare ogni atto rubricabile alla voce violenza. Non mi ricordo bene quanto andava dicendo quel documento – non è questo il punto -, so solo che quando lo lessi mi colpì il tono da dissociazione (peraltro non richiesta), che in qualche maniera ritrovo anche in certi articoli su “A”. Su questo proprio non mi ritrovo: reagire così dinanzi a una posizione ritenuta errata (in questo caso la pratica della violenza fine a sé stessa) innanzitutto non serve a nulla, se non a creare ulteriori solchi e divisioni interne.
Invece ritengo più utile, in simili frangenti sapersi dislocare, volando più alto, spiazzando e rilanciando con proposte che svuotano di senso pratiche criticabili. Tanto per parlare di nonviolenza: Gandhi ha avuto ascolto, è stato efficace e lo ricordiamo ancora per la marcia del sale, per lo sciopero della fame o iniziative del genere, non per le filippiche (facilmente strumentalizzabili dagli inglesi) contro i suoi connazionali violenti. Perciò, prima di criticare il violento di turno sarebbe utile fare l'autocritica per la incapacità nostra a pensare e sognare in grande, a proporre nuove visioni e nuove prospettive. È lungo questa linea che vanno spese le energie. Se le immagini violente continueranno ad avere le prime pagine dei giornali in fondo è anche per colpa nostra.

Federico Battistutta
Gropparello (Pc)



I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Roberto Carloni (Roma) 10,00; Cecilia Tamplenizza (Brasile) 50,00; Istituto “Ernesto De Martino” (Sesto Fiorentino – Fi) 40,00; Giuseppe Loche ed Elisa Braibanti (Cortemaggiore – Pc) ricordando Aldo Braibanti, 50,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Danilo Sidari (Sydney – Australia), 200,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 20,00; Mirko Cervi (Medicina – Bo) 30,00; Piero Cagnotti (Dogliani – Cn) 10,00: Andrea Zontin (Storo – Tn) 15,00; Gianni Milano (Torino) 50,00; Roberto Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Ernesto Cosimo D'Arienzo (Presicce – Le) 30,00; Andrea Della Bosca (Morbegno – So) 10,00; Giuseppe Ciarallo (Milano) 100,00.; Francesco Papappicco (Palo del Colle – Ba) 5,00; Andrea Ronsivalle (Lodi) 10,00; Edo Bodio (Condino – Tn) 10,00; Bastiano Sias (Barrali – Ca) ricordando Jeremia: poeta, fotografo, anarchico, aveva famiglia numerosa. Non diceva mai la verità, quindi la diceva sempre”, 50,00; Angelo Roveda (Milano) 20,00; Vincenzo Laschera (Verona) 8,37; Libreria San Benedeto (Sestri Ponente – Genova) 3,20; Antonio Cecchi (Pisa) 20,00; raccolti durante l'iniziativa “Il miglio delle culture” (Milano, 18 maggio) al banchetto dell'Associazione Zona 3 per la Costituzione, 50,00. Totale € 1.311,57.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Germano Porro (Erba – Co); Federico Torza (Brugherio – Mb) 180,00; Maurizio Guastini (Carrara) 200,00; Giancarlo Tecchio (Vicenza) 200,00; Paola Mazzaroli (Trieste); Giorgio Bixio (Sestri Levante – Ge); Natalia Castiglioni (Carnago – Va); Battista Saiu (Biella); Giulio Abram (Trento); Lorenzo Guadagnucci (Firenze); Francesco Alioti (Genova); Giorgio Barberis (Alessandria). Totale 1.480,00.